La qualifica di pertinenza urbanistica

Consiglio di Stato, Sentenza|4 ottobre 2021| n. 6613.

La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica. Sicché una scala esterna che non rispetti tali requisiti, per poter essere realizzata, deve ottenere il permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto corpo autonomo in grado di modificare sagoma e prospetto dell’originario edificio. Inoltre, trattandosi di nuova costruzione, per la sanatoria deve anche applicarsi la disciplina sulla distanza tra edifici. In particolare le distanze vanno misurate dalle sporgenze estreme dei fabbricati, dalle quali vanno escluse soltanto le parti ornamentali, di rifinitura ed accessorie di limitata entità e i cosiddetti sporti (cornicioni, lesene, mensole, grondaie e simili) che sono irrilevanti ai fini della determinazione dei distacchi. Sono rilevanti, invece, anche in virtù del fatto che essi costituiscono “costruzione” le parti aggettanti (quali scale, terrazze e corpi avanzati) anche se non corrispondenti a volumi abitativi coperti, ma che estendono ed ampliano (in superficie e in volume) la consistenza del fabbricato. Le distanze tra la scala e le pareti finestrate devono essere considerate tra lo spigolo della parete finestrata dell’edificio fronteggiante e la scala aperta, atteso che l’art. 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444, si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale.

Sentenza|4 ottobre 2021| n. 6613. La qualifica di pertinenza urbanistica

Data udienza 24 settembre 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Strumenti urbanistici – Pertinenza urbanistica – Qualifica – Applicazione – Ipotesi – Individuazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4721 del 2020, proposto da
GI. DE FI., rappresentato e difeso dall’avvocato Re. La., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
COMUNE DI (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Sa. Ra., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Sesta n. 1925 del 2020;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del COMUNE DI (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 24 settembre 2021 il Consigliere Dario Simeoli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

La qualifica di pertinenza urbanistica

FATTO e DIRITTO

1.? I fatti principali, utili ai fini del decidere, possono essere così riassunti:
– il signor GI. DE FI. ha chiesto, con ricorso e successivi motivi aggiunti, l’annullamento: i) dell’ordinanza del COMUNE DI (omissis) n. 200 del 16 luglio 2018 di ingiunzione alla demolizione di opere edili abusive consistente nella realizzazione, in difformità rispetto ai titoli rilasciati, di una scala in cemento armato situata nel cortile condominiale, aperta e scoperta con ringhiere laterali in ferro, larga metri 1,40, alta metri 4,30, situata a metri 2,90 dal confine lato sud, sorretta in parte da due pilastri in cemento armato e collegata con il balcone esistente dalla quota cortile da accesso al primo piano dell’immobile ubicato in (omissis), al viale (omissis) (opera rispetto alla quale non risulterebbe inoltre il deposito dei calcoli strutturali al Genio civile di Caserta ai sensi della legge n. 9 del 1983 e del relativo collaudo strutturale), nonché di un manufatto adibito a garage di mq 15,41 e mc 52,39;
ii) del successivo provvedimento n. 27318 del 4 giugno 2019 di comunicazione di ‘improcedibilità ‘ della richiesta di permesso di costruire in sanatoria (avente ad oggetto la citata scala), ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, motivato in ragione del mancato rispetto della distanza di metri 10 di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968 da calcolare tra le pareti finestrate degli edifici antistanti con riferimento a ogni punto del fabbricato;
– a fondamento dell’azione di annullamento, l’istante deduceva:
i) quanto all’ordine di demolizione, la violazione del legittimo affidamento maturato per inerzia protrattasi per lungo tempo e l’omessa applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001;
ii) quanto al diniego di sanatoria, la violazione dell’art. 5 del decreto-legge n. 32 del 2019, convertito dalla legge n. 55 del 2019, recante interpretazione autentica quanto ai limiti di distanza tra i fabbricati come riferiti esclusivamente alla Zona (omissis);
– il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, con sentenza 1925 del 2020, respingeva il ricorso ed i motivi aggiunti.

 

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2? . Avverso la predetta sentenza il signor GI. DE FI. ha quindi proposto appello, riproponendo le censure già sollevate in primo grado, sia pure adattate all’impianto motivazionale della sentenza di primo grado.
In particolare, secondo l’appellante la sentenza sarebbe erronea in quanto:
i) non avrebbe affrontato la questione della tutela del legittimo affidamento consolidatosi per l’inerzia dell’amministrazione durata oltre quarant’anni, nonché tenuto conto dell’estraneità dell’appellante all’abuso;
ii) non avrebbe considerato che parte della scala era stata assentita fin dal 1961 e quindi sarebbe stato erroneo ritenere illegittima la sua realizzazione per difetto del collaudo strutturale previsto dalla legge n. 9 del 1983, e che tale scala costituirebbe l’unico accesso alla abitazione del ricorrente;
iii) alla luce dell’articolo 5 del decreto-legge n. 32 del 2019, convertito dalla legge n. 55 del 2019, i limiti di distanza tra fabbricati previsti dall’articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 dovrebbero riferirsi esclusivamente alle zone di cui al primo comma, n. 3 dello stesso articolo 9, vale a dire alle zone omogenee (omissis) corrispondenti alle parti del territorio non edificate o con edificazione di minore intensità, mentre nel caso in esame il fabbricato in contestazione sarebbe situato in zona (omissis);
iv) avrebbe disconosciuto la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3.- Si è costituita in giudizio l’Amministrazione comunale insistendo per il rigetto del gravame.

 

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4.? Con ordinanza n. 4906 del 2020, questa Sezione, tenuto conto delle ragioni di pericolo manifestate dall’appellante, ha sospeso in via cautelare l’esecutività della sentenza impugnata.
4.1.? Con successiva ordinanza n. 1205 del 2021, il Collegio ha disposto una verificazione, incaricando il Direttore del Dipartimento di ingegneria civile, edile e ambientale dell’Università degli studi di Napoli Federico II, con facoltà di delega, di rispondere al seguente quesito: “Accertare se la effettiva collocazione delle opere contestate sia in contrasto con le disposizioni vigenti in materia di distanze tra gli edifici e se la scala in cemento armato corrisponda ai previsti criteri di sicurezza e sia l’unico accesso all’abitazione dell’appellante”.
5.? Terminata la fase istruttoria, all’odierna udienza del giorno 24 settembre 2021, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.
6.? La sentenza appellata va confermata integralmente.
7.? L’opera contestata ? una scala in cemento armato larga ml 1,40, alta mt 4,30 e posta a ml 2,90 dal confine lato sud, ad unica rampa, composta da 27 alzate di centimetri 18 ciascuna e da 26 pedate di centimetri 30, dopo le prime 5 alzate, la rampa presenta un pianerottolo di riposo di m 1,0 di profondità ? era subordinata, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, al previo ottenimento del permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto corpo autonomo in grado di modificare sagoma e prospetto dell’originario edificio (analoghe considerazioni valgono ovviamente per il manufatto adibito a garage di mq.15,41 e mc.52,39).
Vale ricordare che la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 4 gennaio 2016, n. 19; Sez. VI, 24 luglio 2014, n. 3952; Sez. V, 12 febbraio 2013, n. 817; Sez. IV, 2 febbraio 2012, n. 615).

 

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Ciò posto, l’opera anzidetta non risulta essere mai stata assentita dall’Amministrazione comunale. Come documentato dal verificatore, la licenza edilizia n. 97 del 1961 e la licenza edilizia n. 3196 del 1973, si riferiscono a progetti nei quali è presente soltanto una parte della scala, la prima rampa, costituita da quattro alzate e da pedate molto ampie: il manufatto assentito rappresenta un corpo di fabbrica totalmente differente da quello attuale nella forma che nelle dimensioni (non è mai stata consentita la prosecuzione della scala fino al primo piano, come quella attualmente realizzata).
In ragione dell’acclarata abusività del manufatto, l’ordine di demolizione è atto dovuto e vincolato ? ai sensi dell’art. 31, del d.P.R. n. 380 del 2001 ? e non necessita di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
7.1.? Le deduzioni secondo cui il manufatto sarebbe stato realizzato in epoca risalente, prima della fondamentale legge n. 47 del 1985 e ancora prima della legge n. 10 del 1977, sono rimaste prive di dimostrazione. Peraltro, secondo il verificatore, alla luce delle tecniche costruttive riscontrare, la scala sembrerebbe essere coeva alla realizzazione dell’intervento di ampliamento del primo piano, di cui alla licenza edilizia n. 3196 del 1973.
Sul punto, costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ? i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni ? trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Va pure aggiunto che l’abuso contestato è, in ogni caso, anche di tipo sostanziale, per violazione delle distanze tra edifici e, secondo le risultanze della verificazione, è ragionevole affermare che la scala sia stata realizzata in data successiva al decreto ministeriale n. 1444 del 1968.

 

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8.- Correttamente il giudice di primo grado ha respinto la censura per violazione del legittimo affidamento che ? secondo la prospettazione dell’appellante ? si sarebbe consolidato a causa del notevole lasso temporale intercorso tra l’esecuzione dell’abuso edilizio ed il suo accertamento da parte dell’Amministrazione, tenuto peraltro conto della sua estraneità all’abuso (avendo egli ereditato l’immobile in buona fede dal genitore, effettivo responsabile dell’abuso).
8.1.? Secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato, non può avere rilievo, ai fini della validità dell’ordine di demolizione, il tempo trascorso tra la realizzazione dell’opera abusiva e la conclusione dell’iter sanzionatorio.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimò in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.

 

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Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse (così la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2017).
9.- Anche il diniego di sanatoria è esente dai vizi sollevati.
9.1.? Il verificatore ha accertato che l’attuale collocazione della scala risulta in contrasto con le disposizioni vigenti in materia di distanze tra gli edifici.
Per costante indirizzo giurisprudenziale, le distanze vanno misurate dalle sporgenze estreme dei fabbricati, dalle quali vanno escluse soltanto le parti ornamentali, di rifinitura ed accessorie di limitata entità e i cosiddetti sporti (cornicioni, lesene, mensole, grondaie e simili) che sono irrilevanti ai fini della determinazione dei distacchi. Sono rilevanti, invece, anche in virtù del fatto che essi costituiscono “costruzione” le parti aggettanti (quali scale, terrazze e corpi avanzati) anche se non corrispondenti a volumi abitativi coperti, ma che estendono ed ampliano (in superficie e in volume) la consistenza del fabbricato.
Le distanze tra la scala e le pareti finestrate devono essere considerate tra lo spigolo della parete finestrata dell’edificio fronteggiante e la scala aperta, atteso che l’art. 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444, si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale.
Nel caso di specie, le distanze sono state misurate come segue: – distanza di m. 2,30, dal confine del lotto privato di proprietà (omissis) con la proprietà limitrofa sul lato sud ovest; – distanza di 4,70 metri dal confine con la strada “viale (omissis)” dove è ubicato l’accesso al cortile condominiale;
– distanza di 0,65 metri dalla parete esterna finestrata.
9.2.? Non sussiste poi la lamentata falsa applicazione dell’articolo 5, comma 1, lettera b-bis, del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici), convertito dalla legge n. 55 del 2019. Tale disposizione recita: “Al fine di concorrere a indurre una drastica riduzione del consumo di suolo e a favorire la rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, a incentivare la razionalizzazione di detto patrimonio edilizio, nonché a promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti, nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione, ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili e di assicurare il miglioramento e l’adeguamento sismico del patrimonio edilizio esistente, anche con interventi di demolizione e ricostruzione: […] le disposizioni di cui all’articolo 9, commi secondo e terzo, del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, si interpretano nel senso che i limiti di distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti esclusivamente alle zone di cui al primo comma, numero 3), dello stesso articolo 9”.
È dirimente considerare che, anche dopo l’intervento citato, in zona (omissis), così come nelle altre zone (omissis), per le “nuove costruzioni”, vale il limite della distanza di dieci metri (senza maggiorazioni). La norma invocata non incide infatti sul contenuto normativo dell’art. 9, comma 1, n. 2), del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, secondo cui: “Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.

 

La qualifica di pertinenza urbanistica

Nella specie, sussistono i presupposti per l’applicazione della predetta disposizione, considerato che:
i) l’attività edilizia va qualificata come nuova costruzione, in quanto la scala esterna costituisce un ampliamento dell’originaria sagoma del fabbricato che ne modifica la sagoma;
ii) dal certificato urbanistico presente nella documentazione raccolta dal verificatore si è potuto rilevare che l’edificio in questione ricade in zona omogenea (omissis).
9.3.? La violazione delle distanze è argomento di per sé sufficiente a supportare il diniego di sanatoria. Possono quindi assorbirsi le questioni relative alla effettiva rispondenza dell’opera contestata a criteri di sicurezza della struttura (profili rispetto ai quali il verificatore ha concluso nel senso che: “sebbene la scala esterna in cemento armato, allo stato attuale, risulti pienamente efficiente e priva di elementi tali da comprometterne la staticità, la sua realizzazione non risponde alla normativa necessaria per la verifica di rispondenza ai criteri di sicurezza”).
10.? Sotto altro profilo, non è utilmente invocato l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto l’eventuale possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria dovrà essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
Nel caso in esame, peraltro, non si comprendono le speciali ed eccezionali circostanze che dovrebbero rendere impossibile la demolizione parziale. All’esito dei sopralluoghi effettuati in data 14 aprile e 15 maggio 2021, il verificatore ha appurato che la scala in questione non costituisce unico accesso all’abitazione. È stata infatti rilevata la presenza di un corpo scala condominiale realizzato sul retro del fabbricato (lato nord-ovest) dove è presente un ulteriore accesso alle parti comuni da via (omissis). Il verificatore, in particolare, ha appurato che: “Il corpo scala condominiale consente l’accesso all’abitazione del signor (omissis) tramite una scala a rampe parallele ciascuna di larghezza pari a 100 cm e pianerottoli sfalsati di dimensioni 220×97 cm. Una rampa di cinque gradini ciascuno con alzata pari a 10 cm e pedata pari a 50 cm consente di accedere all’appartamento a piano terra. Proseguendo attraverso due successive rampe regolari (ciascuna di 10 alzate di altezza di 18 cm con pedata di 30 cm) e due pianerottoli (di dimensioni 220 x 97 cm) si accede all’appartamento del sig. De Fi.. La scala continua per altre due rampe fino al terrazzo di copertura/sottotetto. Per quanto rilevato, si conviene che, allo stato, la scala esterna sia un accesso diretto ma non unico all’appartamento del sig. De Fi.”.
11.? Da ultimo, non coglie nel segno il richiamo compiuto (nell’ultima memoria) dall’appellante all’art. 9-bis, comma 1-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001, comma aggiunto dall’articolo 10, comma 1, lettera d), numero 2), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, secondo cui: “Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto ovvero da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia”.
In disparte il fatto che la citata disposizione è successiva all’adozione del provvedimento di rigetto dell’istanza in sanatoria impugnata, è dirimente considerare che, nel caso in esame, è proprio lo stato ‘legittimò dell’opera a non risultare da alcun titolo abilitativo ‘preesistentè alla realizzazione dell’opera, anche perché (si ripete) la stessa risulta realizzata in violazione degli inderogabili standard edilizi relativi alle distanze (appare quindi inconferente dedurre che la presenza della scala “così come è allo stato attuale è stata segnalata sia nella DIA presentata al COMUNE DI (omissis) il 26 febbraio 2010 con il prot. 2653 e mai contestata, e sia nella CILA presentata sempre al detto comune in data 30 novembre 2017 con il prot. 37403”).
12.- In definitiva, l’appello va respinto.
12.1.? Le spese di lite del secondo grado di lite seguono la regola generale della soccombenza.
12.2.? Anche le spese di verificazione vanno poste a carico dell’appellante soccombente.
Per quantificare l’onorario del verificatore, vanno applicati i criteri normativi che riguardano i compensi spettanti a periti e consulenti di cui al d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002 e al decreto ministeriale del 30 maggio 2002.
In relazione a precedenti liquidazioni di questo Consiglio di Stato, alla natura e valore della controversia, all’impegno professionale richiesto e alla complessità dell’attività espletata, risulta congruo liquidare al verificatore la somma complessiva di Euro 4.000,00 (importo da cui va detratto l’acconto previsto nell’ordinanza che ha disposto la verificazione, se già versato dall’appellante), al lordo delle ritenute.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe n. 4721 del 2020, lo respinge. Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite del secondo grado di giudizio in favore dell’Amministrazione comunale, che si liquidano in Euro 4.000,00, oltre accessori di legge se dovuti.
Pone le spese di verificazione, come liquidate in motivazione, a carico dell’appellante soccombente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 settembre 2021 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere, Estensore
Giordano Lamberti – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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