La presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 7 giugno 2019, n. 25246.

La massima estrapolata:

La presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere opera anche quando la misura coercitiva è applicata contestualmente alla sentenza di condanna, dopo che una precedente ordinanza sia stata annullata in fase d’indagini per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, in quanto, in tal caso, è richiesto esclusivamente che la sussistenza delle esigenze cautelari sia valutata alla luce degli elementi preesistenti e di quelli sopravvenuti, costituiti dall’esito del procedimento e dalle modalità del fatto, quale accertato in sentenza. (In motivazione, la Corte ha chiarito che una diversa interpretazione darebbe luogo ad un ingiustificato trattamento di favore nei confronti di imputati raggiunti non da indizi, ma da prove della commissione di reati di gravità tale da giustificare, in fase di indagini, una presunzione di pericolosità non suscettibile di venir meno per effetto della condanna).

Sentenza 7 giugno 2019, n. 25246

Data udienza 2 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VERGA Giovanna – Presidente

Dott. ALMA Marco M. – Consigliere

Dott. PELLEGRINO Andrea – rel. Consigliere

Dott. PAZIENZA Vittorio – Consigliere

Dott. MONACO Marco Maria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), n. a (OMISSIS), rappresentato ed assistito dall’avv. (OMISSIS) e dall’avv. (OMISSIS), di fiducia;
avverso l’ordinanza del Tribunale di Bologna, n. 1171/2018, in data 19/11/2018;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Dott. PELLEGRINO Andrea;
udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dott. SECCIA Domenico che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udita la discussione del difensore, avv. (OMISSIS), che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza in data 19/11/2018, il Tribunale di Bologna, in funzione di giudice del riesame, rigettava il ricorso presentato nell’interesse di (OMISSIS) avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Reggio Emilia, all’esito del giudizio di primo grado che aveva condannato lo stesso alla pena di anni diciannove di reclusione per il reato di cui all’articolo 416-bis c.p., commi 1, 2, 3, 4, 6 e 8, disponeva nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere.
2. Avverso detta ordinanza, nell’interesse di (OMISSIS), viene proposto ricorso per cassazione, i cui motivi vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p., per lamentare:
– violazione di legge in relazione all’articolo 273 c.p.p., comma 1, articolo 275 c.p.p., comma 1-bis, articolo 292 c.p.p., lettera c) e c-bis), articolo 13 Cost., comma 2, articoli 12 e 14 disp. gen. con riferimento alla ritenuta gravita’ indiziaria e vizio di motivazione (primo motivo);
– violazione di legge in relazione all’articolo 275 c.p.p., commi 1-bis e 3, articolo 292 c.p.p., lettera c) e c-bis), con riferimento alle ritenute esigenze cautelari e vizio di motivazione (secondo motivo).
2.1. In relazione al primo motivo, si evidenzia come la prima misura cautelare disposta dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna in data 15/01/2015 sia stata annullata dal Tribunale della liberta’ di Bologna per mancanza di gravita’ indiziaria in ordine alla pretesa appartenenza dell’imputato all’ipotizzato sodalizio criminoso.
L’ordinanza cautelare applicativa della misura veniva successivamente emessa contestualmente alla pronuncia della sentenza di primo grado del Tribunale di Reggio Emilia (31/10/2018), con un’imputazione modificatasi durante il dibattimento di primo grado, essendosi “trasformata” la contestazione aperta in quella chiusa, con durata della condotta fino al febbraio 2018. Nel proporre il secondo riesame, la difesa ha lamentato il difetto di motivazione, per l’esistenza di una motivazione “apparente”, non conforme al rigoroso modello delineato dall’articolo 292 c.p.p., censura alla quale il Tribunale della liberta’ aveva risposto evocando un precedente giurisprudenziale parzialmente inconferente, riguardante la diversa tematica della rivalutazione della sussistenza del presupposto indiziario dopo una sentenza di condanna: nello specifico, invece, la questione e’ quella della sussistenza dei requisiti genetici dell’ordinanza custodiate adottata dopo la sentenza di condanna, ossia la corretta interpretazione dell’articolo 275 c.p.p., comma 1-bis, norma che, secondo la difesa, non esclude l’obbligo per il giudice di motivare sulla sussistenza del presupposto della gravita’ indiziaria non derogando all’ordinaria previsione dell’articolo 273 c.p.p., ma semmai specifica che l’esame del secondo presupposto cautelare (ricorrenza delle esigenze cautelari) debba essere condotto tenendo conto dell’esito del procedimento, delle modalita’ del fatto accertato e degli elementi sopravvenuti.
L’ordinanza impugnata non si e’ minimamente confrontata con gli argomenti esposti nei motivi di riesame; inoltre, la decisione del riesame e quella genetica, nella loro valutazione congiunta, risultano parimenti carenti di motivazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, valutazione che, pur in presenza della mera adozione del dispositivo di sentenza di condanna, deve essere compiuta quantomeno attraverso l’indicazione specifica e “individualizzata” delle singole circostanze che rappresentano gli elementi di prova a carico nonche’ attraverso la succinta confutazione degli elementi a discarico offerti dalla difesa.
2.2. In relazione al secondo motivo, si evidenzia come l’ordinanza impugnata difetti di motivazione anche con riferimento ai motivi di riesame concernenti l’insussistenza delle esigenze cautelari, il difetto di attualita’ delle stesse e l’assenza di motivazione sui pericula libertatis del provvedimento restrittivo genetico. Il ragionamento del Tribunale e’ risultato contraddittorio: da un lato, ha ritenuto doveroso applicare il disposto dell’articolo 275 c.p.p., comma 1-bis, secondo cui il giudice deve esaminare le esigenze cautelari tenendo conto dell’esito del procedimento, delle modalita’ del fatto e degli elementi sopravvenuti dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulti taluna delle esigenze indicate nell’articolo 274 c.p.p., comma 1, lettera b) e c); dall’altro, si e’ affermato che l’esigenza socialpreventiva e’ presunta ex lege dall’articolo 275 c.p.p., comma 3.
Una volta celebratosi il dibattimento, e’ il sistema processuale ad imporre di far riferimento alla prove ivi raccolte, elementi conoscitivi ben piu’ attendibili e pregnanti degli atti di indagine: gli elementi a carico, gia’ ritenuti insufficienti dal Tribunale del riesame investito per la prima volta, si sarebbero arricchiti di generiche dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia; inoltre, ne’ il Tribunale di Reggio Emilia ne’ quello di Bologna si sono confrontati con il tema, imprescindibile, dell’attuale partecipazione al sodalizio criminoso, tema che attiene alla gravita’ indiziaria, ma che condiziona anche la sussistenza e l’attualita’ dell’esigenza cautelare della pericolosita’ sociale. La sentenza di condanna ha accolto la perimetrazione dell’operativita’ dell’associazione richiesta dal pubblico ministero: da un’originaria contestazione “aperta” in permanenza, si e’ passati ad una contestazione “chiusa” fino al febbraio 2018 (data anteriore alla pronuncia della sentenza di condanna), con conseguente attuale pericolosita’, legata alla partecipazione, smentita dalla stessa pronuncia di merito. Dagli atti trasmessi al Tribunale di Bologna, non si evince una sola circostanza che possa dirsi sintomatica dell’attuale pericolosita’ di (OMISSIS), a dispetto delle generiche affermazioni contenute nell’ordinanza genetica, non a caso, riguardanti indistintamente tutti gli imputati destinatari della misura e comunque sprovviste di precisi riferimenti a dati probatori acquisiti nel corso del processo e alle relative circostanze fattuali.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ infondato in relazione ad entrambi i motivi proposti.
2. Va preliminarmente evidenziato come, per costante giurisprudenza di legittimita’, la pronuncia di una sentenza di condanna costituisca di per se’ non solo un fatto nuovo che legittima l’emissione di una misura coercitiva personale, non ostando a tal fine la formazione di un giudicato cautelare precedente, ma anche, quando sia relativa ad uno dei reati di cui all’articolo 275 c.p.p., comma 3, elemento idoneo a fondare la presunzione di pericolosita’ che impone la misura della custodia in carcere (Sez. 6, n. 30144 del 06/05/2015, Sansone, Rv. 264997).
2.1. Con riferimento al primo motivo, e’ noto come la previsione normativa di riferimento legittimante l’emissione di misura cautelare contestualmente alla pronuncia di una sentenza di condanna (sia di primo che di secondo grado) sia quella di cui all’articolo 275 c.p.p., comma 1-bis.
2.1.1. La disposizione in parola precisa che, ai fini dell’emissione del provvedimento, e’ possibile tener conto anche “delle modalita’ del fatto e degli elementi sopravvenuti”, ma cio’ al solo fine di valutare la ricorrenza, in un giudizio doverosamente attualizzato, delle esigenze cautelari di cui all’articolo 274 c.p.p., lettera b) e c): cio’ lascia fondatamente presumere che il giudizio in ordine alla ricorrenza del primo presupposto per l’emissione di misure cautelari (gravita’ indiziaria) rimanga del tutto estraneo all’ambito di valutazione essendo per cosi’ dire assorbito dalla pronuncia di condanna che quel materiale indiziario ha ritenuto idoneo (e, quindi, implicitamente grave) ai fini dell’affermazione della penale responsabilita’ dell’imputato.
2.1.2. La situazione deve ritenersi del tutto identica o comunque assimilabile ai fini che qui interessano sia nell’ipotesi che mai precedentemente alcuna misura cautelare fosse stata disposta (in ragione di un’assenza di richiesta) che nell’ipotesi in cui una misura fosse stata disposta e fosse successivamente venuta meno per qualsivoglia ragione che, infine, nell’ipotesi che la misura cautelare fosse stata si’ richiesta ma non fosse stata emessa dal primo giudice della cautela.
La ragione giustificatrice che accomuna ed assimila le tre situazioni proviene dal fatto che le prove sono state acquisite in sede dibattimentale, luogo ove – per antonomasia – si realizza nella maniera piu’ piena la garanzia del contraddittorio, venendo l’imputato messo nelle condizioni migliori per poter contestare l’accusa, difendersi ed esercitare la facolta’ di allegazione. E di tale principio, si trae conferma testuale dal disposto dell’articolo 275 c.p.p., comma 1-bis che, nel delineare lo schema legale della motivazione dell’ordinanza applicativa di misura cautelare contestualmente alla pronuncia di una sentenza di condanna, non contempla alcun riferimento ai gravi indizi di colpevolezza (Sez. 1, n. 9979 del 17/01/2017, dep. 2018, Figliomeni ed altro, n. m.; Sez. 6, n. 35682 del 03/05/2017, Cannizzaro, n. m.; v. anche, Sez. 2, n. 5988 del 23/01/2014, Paolone, Rv. 258209; Sez. 1, n. 8926 del 20/11/2000, dep. 2001, Cacciola, Rv. 218222).
2.1.3. Ne’ si puo’ ritenere che la contestuale ordinanza cautelare, limitandosi alle valutazioni sulle sole esigenze cautelari e rimanendo “formalmente” silente sul tema della gravita’ indiziaria finisca per ledere in qualche modo i diritti dell’imputato che, in tal modo, in assenza di motivazione contestuale della sentenza, verrebbe a conoscenza solo in un momento successivo (ossia, con il deposito della sentenza) delle ragioni che sono state alla base della propria condanna, con conseguente impossibilita’ di contestare in appello, sotto questo profilo, il provvedimento in parola.
Invero, sul punto non puo’ non evidenziarsi come la medesima giurisprudenza di legittimita’ evocata dal ricorrente (Sez. 1, n. 17620 del 14/12/2015, dep. 2016, Cardone, Rv. 267725), riconosca che “… qualora venga disposta una misura cautelare dopo la pronuncia della sentenza di condanna, e’ sufficiente ad integrare il requisito dell’ordinanza applicativa richiesto dall’articolo 292 c.p.p., comma 2, lettera b, l’indicazione del titolo giuridico delle imputazioni per le quali la condanna e’ intervenuta, in considerazione della possibilita’ di completa identificazione da parte degli imputati dei fatti cui tali imputazioni si riferiscono, di cui sono a piena conoscenza a seguito del contraddittorio dibattimentale e della decisione adottata all’esito di esso; parimenti l’obbligo motivazionale in ordine agli indizi di colpevolezza, anche con riferimento agli elementi favorevoli, puo’ dirsi esaudito con la semplice esposizione degli elementi di prova a carico e pur in assenza di una loro novella valutazione critica, la quale, successivamente all’emanazione della sentenza e per effetto di essa, deve anzi ritenersi preclusa fin dal momento in cui e’ stata data pubblica lettura del dispositivo e prima ancora del deposito della motivazione, discendendo direttamente il predetto effetto preclusivo dall’intervenuta decisione sulla notitia criminis. Lo scopo della disposizione, infatti, e’ quello di “indurre” il giudice a “riconsiderare” la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’articolo 274 c.p.p., anche alla luce degli “elementi sopravvenuti”, che nel corso delle indagini preliminari non erano stati ritenuti sufficienti, e che sono in particolare costituiti, per indicazione dello stesso Legislatore, dall’esito del procedimento e dalle modalita’ del fatto, quale accertato con la sentenza di condanna…”.
2.2. Fermo quanto precede, si osserva come nella fattispecie, il provvedimento impugnato riporti sia l’indicazione del titolo giuridico per cui e’ stata applicata la misura (indicazione, peraltro, superflua nella fattispecie, avendo il (OMISSIS) una sola imputazione, non essendovi omonimie e non ponendosi, quindi, quell’esigenza identificativa finalizzata ad evitare dubbi ed incertezze che sta alla base del presupposto) che la mera esposizione degli elementi di prova a carico.
Nell’ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia del 31/01/2018 (data della pronuncia della sentenza di condanna), i cui contenuti sono ripresi nell’ordinanza del Tribunale di Bologna oggetto del presente ricorso, risultano infatti indicati sia il titolo giuridico (articolo 416-bis c.p., commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 8: condotta contestata al (OMISSIS) descritta analiticamente nel paragrafo 32. dell’imputazione, con limitazione della durata temporanea di appartenenza all’associazione criminosa rispetto all’originaria contestazione “aperta” che si risolve in un favor per il ricorrente con conseguenziale suo difetto di interesse concreto a far valere il “mutamento” del dato temporale) che gli elementi di prova a carico dell’imputato, questi ultimi nella semplice prospettazione descrittiva acritica in ossequio al dictum giurisprudenziale di cui si e’ detto.
2.2.1. Il grado e la misura di specificita’ di detta ultima indicazione deve ritenersi inversamente proporzionale al livello di specificita’ dell’imputazione, nel senso che – per quanto qui d’interesse – ad un’imputazione estremamente analitica ben puo’ corrispondere una specificazione degli elementi di prova a carico, per cosi’ dire, agile o maggiormente attenuata, che puo’ limitarsi ad un mero richiamo a quei contenuti iniziali.
Del resto, al (OMISSIS) vengono attribuite in contestazione ben specifiche e circostanziate condotte, e segnatamente “… di essere stato costantemente in contatto con gli altri associati… di aver osservato gerarchie e regole dell’associazione criminale… di aver prestato fedelta’ alle direttive ricevute… di aver partecipato alle riunioni del sodalizio… di aver utilizzato in modo costante il rapporto con gli altri associati come forma di allargamento della propria influenza nonche’ capacita’ affaristica e di inserimento nel sistema economico emiliano… di aver aggiornato direttamente il boss (OMISSIS) in relazione ai comportamenti di (OMISSIS)… di essersi messo a disposizione del (OMISSIS)… di essersi coinvolto nei rapporti con (OMISSIS)… di aver fornito la propria disponibilita’ al (OMISSIS) per la costituzione di un pool di imprese finalizzata all’acquisizione di appalti per la costruzione di villaggi turistici, impianti eolici e fotovoltaici in Calabria ben consapevole del coinvolgimento in tale azione del (OMISSIS) di aver confermato l’adesione alle regole ed alla strategia del sodalizio âEuroËœndranghetistico di appartenenza anche dopo i numerosi arresti di sodali eseguiti con l’operazione Aemilia a partire del 28/01/2015 e, infine, quale associato in liberta’, di essersi messo a disposizione per proseguire l’attivita’ illecita della consorteria e per fornire appoggio, assistenza e ausilio ai sodali detenuti…”.
2.2.2. Orbene, allorquando, sulla base di simili contestazioni, si pronuncia una sentenza di condanna e si precisa inoltre (nell’ordinanza cautelare) che lo stesso (OMISSIS):
– e’ stato condannato alla pena di anni 19 di reclusione;
– non ha manifestato alcuna resipiscenza e tanto meno alcun distacco dagli ambienti criminale di appartenenza;
– la sua partecipazione al sodalizio in posizione apicale e’ stata accertata sino all’8/02/2018;
– al pari di tutti i soggetti condannati, ha dimostrato di non temere ostacoli al compimento dell’attivita’ criminosa, di essere in grado di porre in essere stratagemmi, strutture, reti di complicita’, sostegni di tipo familistico amicale, al fine di realizzare gli scopi associativi, si ritiene che sia stato pienamente adempiuto – da parte del giudice di merito – quell’attenuato obbligo di specificazione degli elementi di prova a carico in questa sede richiesti.
3. Come evidenziato in premessa, anche il secondo motivo, parimenti al primo, deve ritenersi infondato.
3.1. A tal fine, va preliminarmente ricordato che il costante orientamento di questa Suprema Corte (tra le tante, Sez. 5, n. 47401 del 14/09/2017, Iannazzo, Rv. 271855; Sez. 1, n. 13593 del 09/11/2016, Curcio, Rv. 269510; Sez. 5, n. 52303 del 14/07/2016, Gerbino, Rv. 268726; Sez. 1, n. 3776 del 28/10/2015, Notarianni, Rv. 266006) e’ nel senso che, nel caso di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto d’associazione di tipo mafioso, l’articolo 275 c.p.p., comma 3, come novellato dalla L. n. 47 del 2015, pone una presunzione relativa di pericolosita’ sociale e una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, con la conseguenza che:
– la prima presunzione puo’ essere superata solo quando, dagli elementi a disposizione del giudice, emerga che l’imputato abbia rescisso i vincoli che lo tenevano legati al sodalizio criminale o quando questi dimostri l’effettivo e irreversibile allontanamento dell’indagato dal gruppo criminale (non sostituibile, pero’, pero’ dalla mancanza di prova di rapporti dell’indagato con altri esponenti della cosca);
– la seconda presunzione non puo’ essere superata, avuto anche riguardo alle considerazioni fatte dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 48 del 25/02/2015, in cui aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 273 c.p.p., comma 3, secondo periodo, solo nella parte in cui tale norma prevede la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere nei confronti del concorrente esterno nel delitto di associazione mafiosa poiche’, solo in tal caso, non si poteva ravvisare quel vincolo di adesione permanente al gruppo criminale che e’ in grado, invece, di legittimare il ricorso in via esclusiva alla misura carceraria nei confronti di chi risulti inserito a pieno titolo nell’associazione.
3.2. Analogamente, ed ancora una volta sottolineando il diverso statuto cautelare che connota il delitto punito dall’articolo 416-bis c.p., la Corte costituzionale ha ritenuto, con la sentenza n. 57 del 12/02/2013, costituzionalmente illegittimo l’articolo 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo, nella parte in cui prevedeva la presunzione assoluta di idoneita’ della sola misura custodiale massima agli indagati per i delitti non associativi ma solo aggravati ai sensi della L. n. 203 del 1991, articolo 7, perche’ anche tali fattispecie si differenziano dall’ipotesi della diretta partecipazione al sodalizio, mancando il vincolo di adesione permanente al medesimo.
E’ allora del tutto evidente l’assoluta specificita’ della posizione dell’indagato, o dell’imputato, per lo specifico delitto associativo, come dettati dall’articolo 275 c.p.p., comma 3: un quadro che non muta nel corso delle diverse fasi del processo tanto che si e’ costantemente affermato (cfr., Sez. 6, n. 20304 del 30/03/2017, Sinesi, Rv. 269957) che, anche quando si applica la misura cautelare nei modi e nei tempi previsti dall’articolo 275 c.p.p., comma 1-bis, e quindi nei confronti del condannato, in primo grado, per il delitto di associazione di tipo mafioso, valgono le presunzioni previste dall’articolo 275 c.p.p., comma 3, cosi’ dovendosi interpretare il richiamo, contenuto nello stesso comma 1-bis, al pericolo di fuga ed al pericolo di reiterazione delle condotte.
3.3. Del resto, lo scopo della disposizione contenuta nell’articolo 275 c.p.p., comma 1-bis, e’ quello di “indurre” il giudice a “riconsiderare” la sussistenza delle esigenze cautelari di all’articolo 274 c.p.p., comma 1, lettera b) e c), “anche” alla luce degli “elementi sopravvenuti”, che nel corso delle indagini preliminari non erano stati ritenuti sufficienti, e che sono in particolare costituiti, per indicazione dello stesso legislatore, “dall’esito del procedimento” e dalle “modalita’ del fatto”, quale accertato con la sentenza di condanna.
3.3.1. Di conseguenza, quando, come nel caso di specie, una prima ordinanza e’ stata annullata dal Tribunale del riesame per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, non vi e’ alcuna ragione per escludere la presunzione di cui all’articolo 275 c.p.p., comma 3, in considerazione da una parte che “gli elementi sopravvenuti” debbono essere valutati “anche” con quelli preesistenti allo scopo della formulazione del giudizio sulla esistenza delle esigenze cautelari e dall’altra che, una diversa interpretazione, si risolverebbe in un ingiustificato trattamento di favore nei confronti di imputati, gia’ raggiunti non piu’ da indizi, ma da prove della commissione di reati tanto gravi da giustificare nel corso delle indagini preliminari una presunzione di pericolosita’, che non e’ certo venuta meno per effetto della condanna (Sez. 1, n. 30298 del 24/04/2003, Privitera, Rv. 226250).
3.3.2. Di questi principi ha fatto puntuale applicazione l’ordinanza impugnata che, nel giudicare le esigenze di cautela relative al delitto di associazione mafiosa ascritto al ricorrente, ne ha valutato in concreto la sussistenza alla luce delle presunzioni fissate, per quel particolare delitto, dall’articolo 275 c.p.p., comma 3, evidenziando come la gravita’ delle condotte sfociate in una pena di cosi’ elevato spessore, l’assenza di elementi favorevoli di valutazione in totale mancanza di segnali di resipiscenza e la neutralita’ dell’attivita’ lavorativa svolta dal reo (nonche’ tutti gli altri elementi riportati nel paragrafo 2.2.2. del considerato in diritto a cui si rimanda) non fossero in grado di vincere la presunzione di cui all’articolo 275 c.p.p., comma 3, trattandosi di circostanze che, non solo logicamente denotano la estrema pericolosita’ del ricorrente, ma che danno anche concretamente atto dell’esistenza di un concreto pericolo di fuga dell’imputato potendo lo stesso avvalersi a tal fine dell’appoggio dell’associazione mafiosa in cui risulta inserito (cfr., Sez. U, n. 34537 del 11/07/2001, Litteri e altri, Rv. 219600, in relazione agli elementi da tenere presenti alla fine della configurazione del pericolo di fuga).
4. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per le comunicazioni di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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