La disciplina prevista dalla l. n. 339 del 2003 che sancisce l’incompatibilità tra impiego pubblico “part-time” ed esercizio della professione forense

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|13 aprile 2021| n. 9660.

La disciplina prevista dalla l. n. 339 del 2003, che sancisce l’incompatibilità tra impiego pubblico “part-time” ed esercizio della professione forense, trova applicazione anche nei confronti del personale impiegato presso l’area tecnica dell’Università, atteso che i casi di compatibilità costituiscono eccezioni alla regola generale insuscettibili di estensione, rientrando nella discrezionalità del legislatore la modulazione del divieto in vista della necessità di tutelare interessi di rango costituzionale quali, da un lato, quelli di cui agli artt. 97 e 98 Cost., nonché, dall’altro, l’indipendenza della professione forense, in quanto strumentale all’effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost.

Sentenza|13 aprile 2021| n. 9660

Data udienza 25 novembre 2020

Integrale

Tag/parola chiave: Pubblico impiego – Professioni – Avvocato – Divieto di cumulo tra attività pubblica e forense

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 4123/2019 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5661/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 23/10/2018 R.G.N. 3959/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/11/2020 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per sospensione del giudizio e rimessione atti alla Corte Costituzionale e in subordine rigetto;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Napoli ha rigettato l’appello proposto da (OMISSIS) avverso la sentenza del Tribunale della stessa citta’ che, pur annullando le sanzioni disciplinari di sospensione dal servizio applicate dall’Universita’ Federico II nei confronti della medesima per lo svolgimento di attivita’ di avvocato contestualmente al servizio quale dipendente dell’Ateneo, aveva invece disatteso la domanda espressamente formulata dalla lavoratrice per l’accertamento dell’assenza di incompatibilita’ tra il rapporto di lavoro dipendente e l’esercizio della professione forense.
La Corte territoriale richiamava Corte Costituzionale 166/2012 e Cassazione 27266/2013, per sostenere l’impossibilita’ per i dipendenti pubblici di svolgere la professione di avvocato ed escludeva la possibilita’ di ritenere che le limitazioni reintrodotte ad opera della L. n. 339 del 2003, potessero non avere effetto per chi fosse iscritto gia’ anteriormente alla normativa permissiva del 1996.
La Corte territoriale negava poi che potesse avere alcun effetto il fatto che la ricorrente, nel proprio ruolo tecnico, avesse svolto mansioni di supporto o ausilio alla docenza, in quanto si trattava di attivita’ non assimilabile a quella dei ricercatori e comunque non potendosi ipotizzare l’acquisizione di un diverso inquadramento per effetto dell’assegnazione di fatto ad incarichi di docenza o di ricerca, stante il disposto preclusivo del Decreto Legislativo n. 165 del 2001.
2. Avverso la sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione con due articolati motivi, poi illustrati da memoria, cui ha resistito l’Universita’ con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo (OMISSIS) adduce la violazione (articolo 360 c.p.c., n. 3), L. n. 339 del 2003, articoli 1 e 2.
Ella sostiene che, in esito alla normativa di liberalizzazione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 137 del 2012, ostativa alla frapposizione di limiti all’esercizio delle attivita’ professionali, dovrebbe essere rivisitato il giudizio di ragionevolezza formulato dalla Corte Costituzionale con riferimento soltanto alla normativa anteriore.
Sarebbe seriamente da dubitare altresi’ della ragionevolezza di un’applicazione di norme svolta dalla Corte d’Appello su un piano del tutto astratto ed a prescindere dalle funzioni per le quali vi era stata assunzione presso la P.A., anche tenuto conto che la vera ed esclusiva ragione dell’incompatibilita’ – a dire della ricorrente – era stata ravvisata, anche da Corte Costituzionale 390/2006, nella liberta’ dell’attivita’ forense da qualsiasi vincolo od imposizione.
Da altro punto di vista, la ricorrente fa rilevare come Corte Costituzionale 166/2012 avesse ritenuto legittima la disciplina sopravvenuta di incompatibilita’ di cui alla L. n. 339 del 2003, sul presupposto che essa, per chi si fosse iscritto dopo il 1996, prevedesse uno spatium deliberandi, finalizzato ad evitare lo stravolgimento delle scelte di vita impostate medio tempore ed a tal fine assicurando, per un verso, un triennio entro cui decidere quale lavoro proseguire e riconoscendo, per altro verso, la possibilita’ di ritrattare l’opzione e rientrare presso la P.A., nell’ambito di un successivo quinquennio. A questo proposito, la (OMISSIS) sottolinea come la propria posizione non rientri nelle ipotesi regolate dalla norma, perche’ ella era gia’ iscritta all’Albo fin dal 1993, mentre la disposizione sull’opzione riguardava solo chi si fosse iscritto all’Ordine successivamente alla L. n. 296 del 1996, dovendosi escludere, in quanto indebitamente correttiva, una lettura della L. n. 339 cit., nel senso di rendere la stessa applicabile anche a chi fosse iscritto gia’ anteriormente al 1996 ed evidenziando come, nei fatti, alla dipendente, nel caso di specie, non erano state offerte le possibilita’ garantite agli altri.
In subordine, sul punto, veniva sottoposta questione di legittimita’ costituzionale per contrasto con l’articolo 3 Cost. e cio’ sia per disparita’ di trattamento, sia per irragionevolezza, mancando le condizioni per far venir meno, con le iniziative datoriali del 2016, l’aspettativa medio tempore consolidatasi in capo alla ricorrente.
Il secondo motivo denuncia, in via principale, la violazione della L. n. 333 del 2003, articolo 1 (articolo 360 c.p.c., n. 3) e, in linea subordinata, la nullita’ della sentenza (articolo 360 c.p.c., n. 4, in relazione alla L. n. 247 del 2012, articoli 15 e 19 e al Decreto del Presidente della Repubblica n. 137 del 2012, con riferimento alla L. n. 339 del 2003), in quanto, qualora fosse da ritenersi che la Corte di merito avesse disapplicato per implicito la determinazione del Consiglio dell’Ordine con la quale era stata deliberata la compatibilita’ delle funzioni svolte presso l’Universita’, in quanto di natura didattica, in tal modo si sarebbe indebitamente annullato un provvedimento amministrativo o vanificati i suoi effetti, senza che ci fosse stata domanda e comunque in carenza di giurisdizione (articolo 360 c.p.c., n. 1).
Nel contesto di tale motivo, ribadendo come il vero bene protetto dall’incompatibilita’ sia la liberta’ di esercizio della professione forense e non il buon andamento della P.A., la ricorrente rimarca come risulti inspiegabile che solo l’attivita’ di avvocato sia ritenuta incompatibile con gli obblighi di fedelta’, nonche’ con l’imparzialita’ ed il buon andamento della P.A., mentre cio’ non accadrebbe per il medico, l’ingegnere o l’architetto e cosi’ via, prospettandosi anche da questo punto di vista, qualora residuassero dubbi, questione di legittimita’ costituzionale della L. n. 339 del 2003, ove essa fosse da intendere in senso preclusivo per i soli avvocati, e non per altri professionisti, sulla base di un’incompatibilita’ valutata in astratto e senza tenere conto delle mansioni concretamente svolte dal dipendente in base al concorso di assunzione (articolo 3 Cost.), oltre che determinando un vulnus alla libera concorrenza (articolo 41 Cost.).
2. I motivi, essendo tra loro strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
Deve premettersi, in punto di fatto, che pacificamente (OMISSIS) e’ stata iscritta dall’Ordine degli Avvocati fin dal 1993 ed e’ stata poi assunta dall’Universita’ di Napoli nel 2002, con inquadramento in categoria D del c.c.n.l. di comparto, posizione economica D2, Area tecnica, tecnico scientifica ed elaborazione dati, prescegliendo il regime part time che consentiva illo tempore la prosecuzione dell’attivita’ forense.
L’Universita’ soltanto nel 2015, facendo leva sulle modifiche normative di cui alla L. n. 339 del 2003, ha mosso contestazioni alla (OMISSIS), la quale, per quanto qui ancora interessa, chiedeva nella presente causa l’accertamento dell’insussistenza di incompatibilita’ tra il proprio impiego e l’attivita’ forense, con domanda decisa per lei negativamente sul punto in primo grado e, poi, dalla sentenza di appello qui impugnata.
Successivamente, nel 2016, l’Universita’ ha emesso provvedimento di decadenza dall’impiego ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 63, che veniva parimenti impugnato davanti al Tribunale di Napoli, con processo, quest’ultimo, poi sospeso in attesa della decisione pregiudiziale della presente causa.
3. Dal punto di vista normativo, in senso cronologico, viene in evidenza il R.Decreto Legge n. 1578 del 1933, articolo 3, comma 2, di disciplina dell’Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, secondo cui l’esercizio di tali professioni “e’ incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni… e in generale di qualsiasi altra Amministrazione o Istituzione pubblica soggetta a tutela e vigilanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni”, escludendo peraltro dall’incompatibilita’ (comma 4 lettera a) “i professori e gli assistenti delle Universita’ e degli altri Istituti superiori ed i professori degli Istituti secondari”.
Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 60, dal proprio versante, stabili’ che “l’impiegato non puo’ esercitare… alcuna professione” ed il successivo articolo 63, ha regolato l’ipotesi come ragione di decadenza dall’impiego, previa diffida.
Nel vigore del Decreto Legislativo n. 29 del 1993, articolo 58 (poi trasfuso nel Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53) che, nel fornire la prima disciplina organica dell’impiego pubblico privatizzato, fece richiamo espresso la L. n. 662 del 1996, citato articoli 60 e segg., comma 1, escluse l’applicazione delle norme “che vietano l’iscrizione in albi professionali… ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni” in regime di part time c.d. ridotto.
E’ quindi sopravvenuta la L. n. 339 del 2003, contenente “norme in materia di incompatibilita’ dell’esercizio della professione di avvocato” la quale, all’articolo 1, escluse gli avvocati dall’applicazione della L. n. 662 del 1996 cit., articolo 1, comma 56 (e comma 56-bis) regolando all’articolo 2, una facolta’ di opzione per i dipendenti iscritti all’albo degli avvocati dopo l’entrata in vigore della L. n. 662 del 1996, nel senso della possibilita’ di scegliere nel termine di trentasei mesi per il mantenimento dell’impiego pubblico o in alternativa della professione forense, con facolta’ in quest’ultimo caso ed entro cinque anni, di essere riammesso all’impiego pubblico.
Infine, la L. n. 247 del 2012, articolo 19, testo contenente la “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, dispone che, nonostante l’incompatibilita’ con il lavoro autonomo, l’attivita’ di impresa e il lavoro subordinato (articolo 18 della stessa Legge), l’esercizio della professione di avvocato e’ compatibile con l’insegnamento o la ricerca in materie giuridiche nell’universita’, nelle scuole secondarie pubbliche o private parificate e nelle istituzioni ed enti.
4. La Corte Costituzionale e’ stata dapprima investita della questione di legittimita’ della disciplina della L. n. 339 del 2003, con la quale, come si e’ detto, fu esclusa la compatibilita’ della professione forense con il regime di impiego pubblico part time.
Corte Costituzionale 21 novembre 2006, n. 390 in proposito osservo’, per un verso, che l’essersi in precedenza (Corte Cost. 189/2001) ritenuta non irragionevole la disciplina favorevole al cumulo di attivita’, non escludeva che parimenti potesse dirsi ragionevole la disciplina opposta di divieto, rientrando nell’esercizio della discrezionalita’ del legislatore valorizzare esclusivamente gli inconvenienti derivanti dalla professione forense, rispetto a quelli di altre professioni, sulla base di una scelta di opportunita’ non sindacabile come tale. Corte Costituzionale 27 giugno 2012, n. 166, chiamata invece a valutare il dubbio in ordine ad un’illegittima lesione dell’affidamento maturato dai dipendenti pubblici che successivamente alla L. n. 662 del 1996, avevano intrapreso la professione forense, sotto il profilo della compatibilita’ con l’articolo 3 Cost., ne ha escluso la ricorrenza, valorizzando l’esistenza nella normativa sopravvenuta di un sistema di opzione, calibrato nel tempo, da cui derivava un assetto che combinava, attraverso un regolamento non irrazionale, l’intento del legislatore di reintrodurre l’incompatibilita’, con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo parziale gia’ ammessi dalla legge previgente all’esercizio della professione legale.
5. Cio’ posto, e’ intanto da escludere che l’interesse tutelato dall’insieme delle normative coinvolte sia soltanto quello al libero esercizio della professione forense e non anche, come ritenuto dalle qui condivise pronunce di Cass., S.U., 16 maggio 2013, n. 11833, Cass., S.U., 5 dicembre 2013, n. 27266 e Cass., S.U. 16 gennaio 2014, n. 775, quello all’imparzialita’ e al buon andamento della P.A..
Neanche puo’ condividersi l’assunto difensivo della ricorrente secondo cui Corte Costituzionale 390/2006 individuerebbe l’interesse protetto dalle norme sull’incompatibilita’ essenzialmente in quello dell’assenza di qualsiasi vincolo non necessario all’esercizio della professione forense.
E’ vero che quest’ultimo aspetto e’ al centro della disamina di quella pronuncia, nella parte in cui essa affronta il tema delle eccezioni al regime di incompatibilita’, misurandole essenzialmente sulla liberta’ defensionale e sottolineando come, nel caso degli uffici legali degli enti pubblici, essa sia garantita, rispetto al rapporto di impiego, da regole di autonomia riconosciute da costante giurisprudenza (uffici legali degli enti pubblici), trovando invece fondamento, rispetto all’altra ipotesi (docenti), nella superiore liberta’ di insegnamento, destinata ad imporsi anche al rapporto di impiego e quindi a fortiori inidonea a far temere interferenze della posizione di dipendente pubblico del docente con il libero esercizio della professione forense.
Tuttavia, poco prima, la medesima sentenza, nel ritenere che l’opzione legislativa non possa dirsi in se’ irrazionale per il fondarsi su un’ipotesi di “maggior pericolosita’ e frequenza di… inconvenienti” della “commistione” che “riguardi la professione forense”, rende palese l’approccio rispetto ad una bilateralita’ di interessi, insita nel concetto di “commistione”, che il legislatore mira a contemperare, secondo l’assetto dal medesimo discrezionalmente ritenuto piu’ opportuno.
Tale linea interpretativa e’ del resto confermata anche da Corte Costituzionale 166/2012 allorquando essa afferma che la L. n. 339 del 2003, “incide non tanto sulle modalita’ di organizzazione della professione forense in termini rispettosi del principio di concorrenza, quanto” piuttosto, cosi’ confermando il bilanciamento di interessi su cui si incentra l’attenzione della Consulta, “sul modo di svolgere il servizio presso enti pubblici ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione della prestazione di lavoro pubblico secondo canoni di imparzialita’ e buon andamento, oltre che ad un corretto esercizio della professione legale”.
Cio’ porta a non condividere l’enfasi posta dalla ricorrente sulla disciplina in ordine alla liberta’ nell’esercizio delle professioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 137 del 2012, effettivamente sopravvenuto rispetto alle citate pronunce della Corte Costituzionale, ma indubbiamente destinato ad assicurare il mantenimento dei margini di scelta su cui muove la L. n. 339 del 2003, ove si consideri che la limitazione al libero esercizio delle professioni resta consentita (articolo 2, comma 2, del citato D.P.R.) sulla base di “deroghe espresse fondate su ragioni di pubblico interesse” – poi esemplificate nell’esigenza di tutela della salute – ma che certamente, proprio sulla falsariga delle riportate argomentazioni della Corte Costituzionale, ricorrono anche allorquando la “commistione” (Corte Cost. 390/2006 cit.) riguardi la necessita’ di equilibrio rispetto all'”interesse generale all’esecuzione della prestazione di lavoro pubblico secondo canoni di imparzialita’ e buon andamento” (Corte Cost. 166/2012, cit.).
E’ dunque evidente che gli interessi sollecitati da tali nuove disposizioni sono sempre quelli su cui si sono gia’ espresse – nel senso della non irrazionalita’ dell’assetto normativo – le citate pronunce della Corte Costituzionale, sicche’ l’ipotesi della proposizione di una nuova questione di legittimita’ da questo punto di vista e’ manifestamente infondata.
Questa Corte (Cass., S.U., 11833/2013 cit.) ha del resto gia’ affermato, con passaggi che sono qui condivisi, ragionando sugli effetti derivanti dal Decreto Legge n. 138 del 2011, con mod. in L. n. 148 del 2011 (articolo 3, comma 1 e 5-bis), nonche’ dal citato Decreto del Presidente della Repubblica attuativo n. 137 del 2012, che e’ da escludere non solo “una abrogazione tacita delle disposizioni della L. n. 339 del 2003, per effetto della normativa sopravvenuta e sopra richiamata per il rilievo decisivo ed assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilita’ tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attivita’ privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente”, ma altresi’ che ratio di fondo della normativa limitativa del cumulo e’ quella “tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedelta’ dei pubblici dipendenti”, a conferma della coesistenza degli interessi di cui si e’ detto e della discrezionale regolazione del loro rapporto ad opera della normativa di legge.
5.1 Le convergenti valutazioni della Corte Costituzionale e dei precedenti di questa Corte comportano altresi’ un giudizio di manifesta infondatezza rispetto all’asserita indebita disparita’ di trattamento tra la professione forense ed altre libere professioni, avendo la Consulta chiarito che la disciplina piu’ restrittiva deriva appunto da una non irragionevole valutazione discrezionale del legislatore (Corte Cost. 390/2006) ed avendo le Sezioni Unite rimarcato, nei passaggi sopra riportati, proprio tale specificita’.
Cass., S.U., 11833/2013 ha poi ancora chiarito che “la disciplina prevista dalla L. 25 novembre 2003, n. 339, che sancisce l’incompatibilita’ tra impiego pubblico “part-time” ed esercizio della professione forense, non determina alcuna discriminazione “al contrario” tra gli avvocati italiani e quelli, invece, cittadini di Stati membri dell’Unione Europea, “stabiliti” o “integrati” dipendenti di corrispondenti istituzioni pubbliche degli Stati di appartenenza. Difatti, in base alla normativa nazionale di recepimento della direttiva intesa ad agevolare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello di acquisizione della qualifica professionale (Decreto Legislativo 2 febbraio 2001, n. 96, articolo 5, comma 2, recante attuazione della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, n. 98/5/CE), e’ previsto espressamente che tutte le norme nazionali sulle incompatibilita’ si applichino anche all’avvocato “stabilito” o “integrato” (cfr. C. Cost. sentenza n. 166 del 2012 e Corte di giustizia dell’Unione Europea, sentenza 2 dicembre 2010, in causa C-225/2009)”.
Ed una lesione della libera concorrenza “tra coloro che esercitano la professione forense e coloro che esercitano altre libere professioni” (cosi’ il ricorso per cassazione, pag. 19), in ipotesi da riportare all’articolo 41 Cost., risulta ancora manifestamente improponibile, non riuscendosi ad apprezzare una competizione di mercato tra chi si occupi di ambiti diversi.
6. Le considerazioni di cui sopra portano altresi’ ad escludere la fondatezza delle censure della ricorrente, nella parte in cui esse assumono che la Corte d’Appello avrebbe finito per disapplicare o ritenere nullo il provvedimento autorizzatorio del Consiglio dell’Ordine.
La ricorrenza di interessi diversi, tutelati dalle norme che li regolano, comportano che ciascuna delle autorita’ titolari di essi e dunque il Consiglio dell’Ordine e la P.A. datore di lavoro possa, nell’esercizio dei propri poteri, autorizzare o contrastare il cumulo delle attivita’.
Il Consiglio dell’Ordine fonda i propri poteri, come sottolinea la ricorrente in memoria, sulle regole di disciplina dell’albo di cui e’ tenutario.
La P.A. fonda invece i propri poteri sul Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 1 e sul rinvio di esso al Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articoli 60 e segg., secondo cui “l’impiegato non puo’ esercitare alcuna professione”, in mancanza di una diversa norma autorizzativa, incorrendo altrimenti nella decadenza secondo la disciplina del successivo articolo 63 del medesimo D.P.R..
Pertanto, il giudice adito per la cognizione sulla legittimita’ dell’operato dell’una o dell’altra autorita’, qualora ritenga che il dissenso da essa espresso rispetto al cumulo di attivita’ sia legittimo, non disapplica, ne’ sanziona di nullita’ l’eventuale autorizzazione che sia stata rilasciata dall’altra autorita’.
Tale cognizione e’ qui sollecitata dalla richiesta di accertamento dell’assenza di incompatibilita’, in reazione alla diffida intimata dalla P.A. la quale giustifica l’interesse ad agire della (OMISSIS), senza che vi sia da porsi una questione di giurisdizione, quale effetto, secondo l’ipotesi di cui al secondo motivo, della disapplicazione indebita di un provvedimento di altra autorita’, in quanto nessuna disapplicazione o annullamento e’ mai stata operata dai giudici del merito, ne’ essa e’ in alcun modo necessaria al decidere.
7. La ricorrente, specialmente allorquando fa leva sulla menzionata autorizzazione rilasciata dal Consiglio dell’Ordine, introduce peraltro anche una diversa linea difensiva, sintetizzabile nel senso che la propria attivita’ si collocherebbe al di fuori dell’area della incompatibilita’, perche’ ricompresa nell’ambito delle deroghe espresse rispetto ad essa e comunque in concreto sarebbe stata svolta con modalita’ tali da non comportare pregiudizio per la P.A., che sarebbe irrazionale non fossero valorizzate.
7.1 Iniziando dal primo aspetto, il tema che viene in evidenza, cui gia’ si e’ in parte accennato, e’ quello delle deroghe al principio di incompatibilita’ di cui al R.Decreto Legge n. 1578 del 1933, articolo 3, comma 4, lettera a), ed ora alla L. n. 247 del 2012, articolo 19.
Tali deroghe, al di la’ del caso degli uffici legali degli enti pubblici, che qui non interessa, riguardano il pubblico impiegato che, presso la P.A. di riferimento, operi, con riferimento alle Universita’, come professore o assistente (articolo 3, comma 4, cit., lettera a cit.) oppure, nella versione di cui all’articolo 19 cit., si occupi di insegnamento o ricerca in materie giuridiche.
Affrontando il problema da questa prospettiva, puo’ dirsi che le previsioni di quei casi di compatibilita’ esprimono in se’ la tutela del valore dell’insegnamento (articolo 33 Cost.) e di quello della ricerca (articolo 9 Cost.), ritenuti prevalenti oltre che non confliggenti con l’interesse al libero esercizio dell’attivita’ forense e tendenzialmente compatibili, nel bilanciamento degli interessi, rispetto al buon andamento della P.A..
Tuttavia, il permanere di una valutazione di pubblico interesse anche rispetto al regime di tali compatibilita’ e’ reso evidente dal fatto che, come questa Corte ha gia’ ritenuto, anche l’insegnamento puo’ comportare valutazioni preclusive da parte della P.A. ove in concreto si manifesti una situazione di confitto di interessi, per previsione espressa dell’articolo 58-bis, disposizione sopravvissuta, rispetto agli avvocati, anche alla L. n. 339 del 2003 (Cass. 17 ottobre 2018, n. 26016).
Da cio’ si desume che i casi di compatibilita’ costituiscono eccezioni ad una regola, quella dell’incompatibilita’, che, come si e’ detto, e’ stata voluta dal legislatore al fine di evitare i rischi che derivano dalla “commistione” tra attivita’ forense e pubblico impiego (Corte Cost. 390/2006 cit.).
Regola che si fonda su una valutazione legislativa, discrezionale ma non irrazionale, di maggior pericolosita’ del connubio avvocatura-pubblico impiego, che la Corte Costituzionale (sempre Corte Cost. 390/2006 cit.) ha gia’ espressamente cosi’ spiegato, sicche’ e’ evidente la manifesta infondatezza di ulteriori dubbi in tal senso.
L’eccezionalita’ delle deroghe all’incompatibilita’ esclude poi che i corrispondenti casi siano suscettibili di estensione a ipotesi soltanto contigue o similari.
E’ in effetti possibile che per talune figure, ad inquadramento impiegatizio, ma la cui attivita’ sia caratterizzata da specifiche cognizioni tecniche, si possa porre il problema di valutare se resti intercettata o meno l’area della compatibilita’ rispetto all’insegnamento o alla ricerca, di cui si e’ detto. Tale e’ il caso della categoria D del c.c.n.l. Comparto Universita’ 1998-2001, di inquadramento della (OMISSIS), specie con riferimento alle posizioni dell’Area tecnico-scientifica.
E’ pero’ solo il pieno esercizio dell’insegnamento, che nell’ambito universitario e’ fatto di docenza e ricerca, come anche il pieno esercizio della ricerca in se’ considerata, ad integrare la deroga al principio, per la tutela degli interessi prevalenti di cui si e’ detto, che si manifestano come tali solo nel pieno esercizio delle corrispondenti attivita’ professionali.
Pertanto, lo svolgimento da parte della ricorrente, espressamente accertato dalla Corte territoriale, di attivita’ “a supporto” della docenza, ovvero di “ausilio” per i docenti, e’ stato giustamente ricondotto nella sentenza di appello ad una condizione non assimilabile neanche ad uno dei livelli meno elevati, quello dei ricercatori, della docenza universitaria.
Al punto che la Corte di merito, con altro accertamento che non risulta neanche in se’ contestato, ha desunto che la stessa partecipazione agli esami della (OMISSIS) si sia fondata sulla nomina di essa a “cultore della materia” e non sulle mansioni proprie dell’ambito di assunzione.
Del resto, nello stesso ricorso per cassazione si fa riferimento al tutoraggio degli studenti, alla partecipazione a seminari o a commissioni di esami e quindi ad attivita’ di “didattica”, sicche’ non vi e’ neppure luogo ad affrontare il tema della compatibilita’ per svolgimento caratterizzante di attivita’ di “ricerca”.
7.2 Il secondo aspetto delle difese sviluppate sotto questo profilo ha caratura piu’ strettamente giuridica, in quanto con esso si sostiene che sarebbe ingiustificato, anche dal punto di vista della ragionevolezza e quindi dei parametri costituzionali (articolo 3 Cost.) il fatto che vengano coinvolte dal divieto anche attivita’ che, in concreto, possono non manifestarsi come pregiudizievoli. In proposito, non vi e’ dubbio che il bilanciamento tra i contrapposti interessi di cui si e’ piu’ ampiamente detto in precedenza possa avvenire sulla base di assetti molteplici, che addirittura attualmente convivono nel contesto complessivo del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, ove la regola di incompatibilita’ assoluta di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 60, richiamata dall’articolo 53, comma 1, e’ modulata, nella stessa disposizione, oltre che dalla compatibilita’ con il part time (se non diversamente disposto, come e’ per gli avvocati), da una serie articolata di possibili autorizzazioni rispetto a variegati incarichi di terzi.
Tuttavia, la fissazione di un divieto assoluto e non calibrato sulle particolarita’ del caso di specie non puo’ dirsi in se’ irrazionale, allorquando la scelta del legislatore sia discrezionalmente indirizzata, come osservato dalla Corte Costituzionale, da una maggior cautela, nella regolazione dei coesistenti interessi di cui si e’ detto ed in vista della necessita’ di attuare altresi’ il principio di cui all’articolo 98 Cost. (obbligo di esclusiva fedelta’ del pubblico dipendente alla Nazione: v. sul punto Cass., S.U. 1833/2013 cit.), in ragione delle caratteristiche discrezionalmente apprezzate della professione forense.
In altre parole, le scelte di modulazione sono plurime, ma il legislatore puo’ discrezionalmente valutare, come appare a questa Corte manifestamente evidente, quale rigore applicare ai diversi casi che il multiforme manifestarsi della realta’ propone; cosi’ come non necessariamente irrazionale, nella medesima prospettiva e con analoga evidenza, e’ il fatto, tra l’altro coerente con il principio di base, che i casi di compatibilita’ siano regolati come deroghe ad un principio, e si qualifichino quindi come eccezionali.
8. La ricorrente, sotto un altro profilo, mette in dubbio anche la legittimita’, rispetto alla propria posizione, del sistema opzionale di cui alla L. n. 339 del 2003, articolo 2.
In fatto risulta pacificamente che la (OMISSIS) si iscrisse all’albo degli avvocati nel 1993 e fu poi assunta dall’Universita’ nel 2002, allorquando vi era compatibilita’ tra il regime di part time e la professione forense.
Nel 2003, come si e’ detto, e’ stato stabilito ex novo un regime di incompatibilita’ assoluta, con un regime opzionale.
Tale regime opzionale e’ regolato rispetto a chi avesse “ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati successivamente all’entrata in vigore della L. 23 dicembre 1996, n. 662”, con cui era stata disposta la compatibilita’ con il part time.
La ricorrente, sul presupposto che il suo caso non sia regolato da quella norma sul diritto di opzione, per essersi ella (legittimamente) iscritta prima del 1996 ed avere (altrettanto legittimamente) iniziato a lavorare presso la P.A., in part time, nel 2002, sostiene l’illegittimita’ costituzionale del proprio trattamento.
Tale prospettazione e’ tuttavia manifestamente infondata.
Intanto il collegio ritiene che una corretta interpretazione della norma, coerente con la sua ratio, consenta in via di mera estensione di applicare l’istituto opzionale anche al caso non espressamente richiamato, ma logicamente analogo, ovverosia alle (legittime) iscrizioni all’albo anteriori al 1996, il che comporterebbe di per se’ la decadenza della ricorrente dalle facolta’ ivi regolate. Al di la’ di cio’, si deve pero’ anche osservare che la regola introdotta nel 2003 e’ quella dell’incompatibilita’, con un sistema opzionale (3 anni per la scelta + 5 anni per l’opzione di rientro nel rapporto di impiego) che e’ destinato ad esaurire i propri effetti nell’arco massimo di otto anni, ovverosia entro il 2.12.2011, ma che comunque dopo i primi 3 anni avrebbe consentito di svolgere solo uno dei due lavori.
La disciplina era dunque dettata al fine di permettere agli interessati di regolarizzare la propria posizione in un lasso di tempo congruo rispetto all’entrata in vigore della normativa.
La ricorrente, viceversa, nonostante l’entrata in vigore della normativa, ha proseguito nel cumulo dei due lavori fino almeno all’ottobre 2015, epoca della diffida a rimuovere l’incompatibilita’ e poi anche oltre, fino all’adozione, nel 2016, del provvedimento di decadenza.
E’ dunque evidente che la (OMISSIS) non puo’ dolersi del mancato esercizio di un’opzione in quanto, stante l’inerzia dell’Universita’, essa, nonostante il divieto di cumulo, ha potuto proseguire nella doppia attivita’ ben oltre ogni termine regolato dalla legge anche per l’eventuale rientro ultimo (nei 5 anni dopo i primi 3) presso l’Universita’.
Sicche’, esercitando la scelta al momento della diffida infine intimata, essa non puo’ certamente dirsi di avere avuto un trattamento deteriore rispetto a chi avesse fruito dell’opzione di legge.
D’altra parte, la (OMISSIS), essendo, dati anche i suoi titoli, pienamente in grado di percepire, al di la’ di convincimenti strettamente personali che non rilevano, l’esistenza oggettiva del divieto di cumulo nelle norme di legge, non puo’ certamente far leva su affidamenti che si assuma in ipotesi possano derivare dalla menzionata inerzia del proprio datore di lavoro pubblico.
Infine, si rammenta come questa Corte abbia gia’ sottolineato che le norme abbiano dovuto “contemperare la doverosa applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore per l’avvenire (con effetto altresi’ sui rapporti di durata in corso) con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo parziale, gia’ ammessi dalle legge dell’epoca all’esercizio della professione legale” e che un’operativita’ limitata soltanto ai futuri interessati “otterrebbe il risultato, certamente irragionevole, di conservare ad esaurimento una riserva di lavoratori pubblici part time, contemporaneamente avvocati, all’interno di un sistema radicalmente contrario alla coesistenza delle due figure lavorative nella stessa persona” (Cass., S.U., 27266/2013 e Cass., S.U., 775/2014, citt.).
9. In definitiva, il ricorso va dunque rigettato.
10. La significativa novita’, almeno per alcuni dei profili della prospettazione giuridica, giustifica la compensazione delle spese anche di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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