La dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 4 maggio 2020, n. 2838.

La massima estrapolata:

La dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà si sostanzia in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale e non possiede alcun valore probatorio, sicché non è idonea a compromettere l’attività istruttoria dell’amministrazione

Sentenza 4 maggio 2020, n. 2838

Data udienza 10 dicembre 2019

Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Diniego di sanatoria – Ordinanza di demolizione – Lavori non ultimati entro il 31 marzo del 2003

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6489 del 2009, proposto dal signor Vi. Sc., rappresentato e difeso dall’avvocato Vi. Pe., domiciliato presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza (…),
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Ra., domiciliato presso il suo studio in Roma, via (…),
per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, sezione terza, n. 1650/2008, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2019, il consigliere Francesco Frigida e uditi per le parti l’avvocato Lu. Fe. Ba., su delega dell’avvocato Vi. Pe., e l’avvocato Fr. Ma., su delega dell’avvocato Gi. Ra.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Tramite determinazione dirigenziale n. 10690 del 10 marzo 2006, il Comune di (omissis) ha respinto un’istanza di sanatoria presentata dall’odierno appellante per opere abusive rispetto ad un progetto precedentemente assentito e, con ordinanza n. 27 del 6 aprile 2006, ha disposto la demolizione degli abusi.
2. Avverso tali provvedimenti, l’interessato ha proposto il ricorso di primo grado n. 903 del 2006, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari.
Il Comune di (omissis) si è costituito nel giudizio di primo grado, resistendo al ricorso.
3. Con l’impugnata sentenza n. 1650 dell’8 luglio 2008, il T.a.r. per la Puglia, sede di Bari, sezione terza, ha respinto il ricorso e ha compensato tra le parti le spese di lite.
4. Con ricorso ritualmente notificato e depositato – rispettivamente in data 2 luglio 2009 e 28 luglio 2009 – la parte privata ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza.
5. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello.
6. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 10 dicembre 2019.
7. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto.
8. In sostanza l’appellante ha sostenuto che l’Amministrazione avrebbe dovuto considerare le opere ultimate in epoca utile per poter fruire del condono. In particolare, ad avviso della parte privata l’esatta datazione dell’ultimazione dell’abuso edilizio sarebbe antecedente al 31 marzo 2003, sicché sarebbe condonabile ai sensi dell’articolo 32, comma 25, del decreto-legge n. 269 del 2003 convertito in legge n. 326 del 2003.
In via logicamente preliminare e al fine di perimetrare esattamente l’oggetto del contendere, giova precisare che l’esecuzione di modifiche a un immobile abusivo successivamente alla presentazione della domanda di condono impedisce di considerare gli abusi completati in data utile per fruire della sanatoria, non essendo possibile lo scorporo della parte di opere antecedenti da un intervento abusivo sostanzialmente unitario.
Ciò posto, il Collegio rileva che le opere abusive realizzate dall’appellante non sono in concreto suscettibili di condono. Ed invero, le posizioni espresse dal T.a.r. circa la concreta non condonabilità dei manufatti sono del tutto legittime, in quanto essi non sono stati ultimati entro il 31 marzo del 2003. Segnatamente il diniego del Comune richiama in motivazione gli elaborati progettuali di variante in corso d’opera da cui si evince fattualmente che le opere ivi indicate non erano state ancora realizzate alla data del 31 marzo 2003. Pertanto non sussiste nemmeno il contestato difetto di motivazione, in quanto l’Amministrazione ha delineato le circostanze escludenti il su citato indefettibile presupposto temporale.
In relazione a quanto dichiarato in un’udienza penale da due operai che erano stati addetti alla costruzione, secondo i quali le opere abusive sarebbero state realizzate nei primi giorni del marzo 2003 e non dopo, del tutto correttamente il T.a.r. ha rilevato che siffatte testimonianze non possono di per sé costituire fondamento di una decisione del giudice amministrativo.
Al riguardo va altresì sottolineato che esse si pongono in contrasto con le emergenze documentali, non superabili in questa sede tramite prova testimoniale, soltanto scritta peraltro, che nelle controversie in materia edilizia è del tutto recessiva a fronte di prove oggettive concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio quanto nel tempo (cfr. Consiglio di Stato, sezioni IV, sentenza 9 febbraio 2016, n. 511).
Parimenti la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà dell’odierno appellante, oltre ad essere atto promanante dalla parte in giudizio e, quindi, privo del requisito di terzietà, è una dichiarazione stragiudiziale e come tale non costituente prova nel processo amministrativo. In proposito la giurisprudenza amministrativa ha specificato che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà si sostanzia in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale e non possiede alcun valore probatorio, sicché non è idonea a compromettere l’attività istruttoria dell’amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 9 gennaio 2020, n. 211; Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 22 agosto 2018, n. 5030, e 15 giugno 2016, n. 2626).
Non sussistono neppure i lamentati vizi procedimentali, legittimamente esclusi dal collegio di primo grado.
Il Comune, invero, ha inviato all’interessato la comunicazione ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e la mancata espressa confutazione delle osservazioni della parte privata ai sensi dell’articolo 10 della medesima legge è irrilevante in presenza di un chiaro quadro fattuale e normativo. Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l’onere di spiegare le ragioni per le quali non si è tenuto conto delle osservazioni presentate dai privati non deve essere inteso in senso formalistico, considerato che tale obbligo viene meno qualora le stesse non avrebbero potuto influenzare effettivamente la concreta portata del provvedimento finale (cfr. Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 20 febbraio 2020, n. 1306, e Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 22 febbraio 2019, n. 1225).
Inoltre la doglianza per cui le opere abusive sarebbero state soggette solo a denunzia di inizio attività e, pertanto, alla sola sanzione pecuniaria, è infondata, atteso che le opere hanno determinato una maggiore volumetria e una modifica della sagoma dell’immobile, con conseguente necessità del permesso di costruire in base all’articolo 10 del d.P.R. n. 380 del 2001. Infine, si osserva che al caso di specie non è applicabile l’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda generalmente la sanatoria delle opere abusive, mentre l’odierno appellante ha formulato un’istanza di condono ai sensi della legge n. 326 del 2003.
9. In conclusione l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
10. In applicazione del principio della soccombenza, al rigetto dell’appello segue la condanna dell’appellante al pagamento, in favore dell’Amministrazione appellata, delle spese di lite del presente grado di giudizio, che, tenuto conto dei parametri stabiliti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, e dall’articolo 26, comma 1, c.p.a., si liquidano in euro 4.000 (quattromila), oltre accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali), se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione seconda, definitivamente pronunciando sull’appello 6489 del 2009, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata; condanna l’appellante al pagamento in favore del Comune appellato delle spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate in euro 4.000 (quattromila), oltre accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali), se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2019, con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Fulvio Rocco – Consigliere
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere, Estensore

 

 

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