Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 3 giugno 2020, n. 10462.
La massima estrapolata:
In tema di procedimento di reclamo dinanzi alla Corte d’appello di Roma contro il decreto ministeriale irrogativo delle sanzioni amministrative di cui all’art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, la concentrazione della competenza per territorio in un unico ufficio giudiziario – così come dispone il successivo art. 145 – non può dirsi misura lesiva del principio della piena difesa dei diritti nei confronti degli atti della pubblica amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.), nè del principio di ragionevolezza e parità di trattamento nella disciplina di analoghe situazione (art. 3 Cost.), atteso che la concentrazione della tutela giurisdizionale è diretta espressione del sistema di centralità dei controlli imposto da obbiettive ragioni di funzionalità tecnica, da un lato, assicurando agli stessi soggetti destinatari della sanzione più adeguate garanzie – in materie che presentano profili di elevata complessità tecnica – nella specializzazione dell’unico ufficio giudiziario cui siano affidate controversie della medesima natura e, dall’altro, rafforzando l’esigenza di uniformità della giurisprudenza anche di merito, generalmente avvertita in una materia attinente a una sfera di interessi (quali il credito e la tutela del risparmio) a diretta copertura costituzionale.
Sentenza 3 giugno 2020, n. 10462
Data udienza 10 ottobre 2019
Tag – parola chiave: REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere
Dott. CARBONE Enrico – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16993/2016 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso la propria sede in (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, n. cron. 2433/2016 depositato il 09/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilita’, in subordine il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS), difensore del ricorrente, che si e’ riportato agli atti depositati ed ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
uditi gli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), difensori della resistente, che hanno chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 9/3/2016, rigetto’ l’opposizione proposta, ex articolo 145 TUB, da (OMISSIS) avverso la Delib. Banca d’Italia n. 119 del 2014, del 26/2/2014, che gli aveva inflitto la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 24.500,00, a seguito delle risultanze della visita ispettiva condotta, dal 31/10/2012 all’1/2/2013, dal Servizio Ispettivo della Banca d’Italia presso la (OMISSIS) societa’ cooperativa, della quale il predetto era stato componente del consiglio di amministrazione; visita dalla quale erano emerse plurime e gravi criticita’ “per carenze nella organizzazione e nei controlli interni con particolare riferimento ai rischi crediti ed operativi da parte di componenti ed ex componenti del Consiglio di amministrazione”.
Il (OMISSIS) ricorre, svolgendo quattro motivi di censura, avverso la decisione della Corte di Roma e la Banca d’Italia resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente solleva eccezione d’illegittimita’ costituzionale, adducendo che l’articolo 145 TUB si pone in contrasto con gli articoli 3, 24, 25 e 111 Cost., poiche’ prevede che il provvedimento sanzionatorio puo’ essere impugnato davanti alla Corte d’appello di Roma, la quale decide in Camera di consiglio, nelle forme di cui agli articoli 737 c.p.c. e segg., cosi’, ad un tempo, negando la “piena tutela giudiziaria articolata in tre gradi di giudizio”, articolazione connaturata al giusto processo; nonche’, per avere individuato la sola Corte d’appello di Roma per l’intero territorio nazionale. Inoltre, la norma, secondo l’assunto era da reputare in contrasto con gli enunciati principi costituzionali per avere negato lo svolgimento dell’impugnazione secondo il rito ordinario.
1.1. L’eccezione risulta manifestamente infondata, valendo le osservazioni seguenti:
a) non e’ dubbio che non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado (da ultimo, ex multis, Sez. 1, n. 27700, 30/10/2018, Sez. 1, n. 28110, 5/11/2018; Sez. 3, n. 5907, 6/9/2007; Sez. 2, n. 27411, 13/12/2005);
b) questa Corte (Sez. 1, n. 532, 26/6/1997) ha condivisamente affermato che e’ manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., dell’articolo 145, comma 6 – ora comma 7, a seguito della sostituzione operata dal Decreto Legislativo n. 342 del 1999 -, del Decreto Legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), nella parte in cui prevede, in ordine al procedimento di reclamo dinanzi alla Corte d’appello di Roma contro il decreto ministeriale irrogativo delle sanzioni amministrative di cui al precedente articolo 144, la forma del rito camerale e la definizione del giudizio con decreto motivato, anziche’ con sentenza, cosi’ impedendo la proponibilita’ del ricorso ordinario per cassazione – con possibilita’ di denuncia anche dei vizi di motivazione -, in luogo di quello ex articolo 111 Cost.; essendosi chiarito che, da un lato, il rito camerale e’ idoneo ad assicurare tutela ai diritti soggettivi, specie quando, come nel caso dell’attivita’ bancaria, la controversia sia caratterizzata da contenuti tecnici e da fonti di conoscenza prevalentemente documentali; dall’altro, la scelta del decreto motivato, in deroga alla normativa comune sui procedimenti di applicazione delle sanzioni amministrative, deve ritenersi non irragionevole, in considerazione del carattere di specialita’ della disciplina bancaria e creditizia e della continuita’ con la precedente regolamentazione della materia (v. Corte Cost., sent. n. 49 del 1999);
b) vanno, di poi, condivise le ulteriori osservazioni di cui all’ordinanza sopra citata, con le quali si e’ ulteriormente precisato: “quanto alla asserita deroga al criterio ordinario della competenza cosi’ come fissato nella L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 22 – recante, nel suo primo capo, la disciplina generale in tema di sanzioni amministrative – si deve osservare che nel sistema di quella legge il collegamento al luogo in cui e’ stata commessa la violazione vale ad identificare innanzitutto l’ufficio – autorita’ – territorialmente competente a ricevere il rapporto, compiere l’istruttoria ed applicare infine la sanzione in un assetto di competenze decentrate, come disegnato nell’articolo 17, esercitate da uffici periferici dei ministeri, prefetti, uffici regionali, presidente della giunta provinciale, sindaco. Sicche’ la identificazione del giudice competente a decidere l’opposizione al provvedimento applicativo della sanzione nel pretore del luogo in cui e’ stata commessa la violazione ben puo’ dirsi derivata dal criterio adottato per definire la competenza della autorita’ che ha emesso il provvedimento, in coerenza con il sistema decentrato e diffuso di accertamento, e non invece dettata in funzione della piu’ efficace difesa del soggetto destinatario della sanzione (non necessariamente agevolata dalla applicazione di quel criterio). Lo stesso criterio in un diverso sistema di accertamento accentrato e unificato – quale e’ quello previsto nella legge bancaria – rimane privo di giustificazione e, cosi’ come la tutela giurisdizionale diffusa corrisponde all’assetto decentrato della competenze amministrative, la concentrazione presso un unico ufficio giudiziario – la Corte d’appello di Roma – e’ misura per cosi’ dire simmetrica alla centralita’ dell’esercizio del controllo sul credito, affidato alla Banca d’Italia (che, contestati gli addebiti, propone al Ministro del Tesoro l’applicazione delle sanzioni: Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articolo 145). E dunque la verifica della ragionevolezza della disciplina speciale del sistema sanzionatorio connesso allo statuto dell’attivita’ bancaria rimanda alle ragioni della complessiva disciplina del controllo sull’esercizio del credito, che e’ compito di diretta rilevanza costituzionale (disponendo l’articolo 47 Cost., che “La Repubblica… controlla l’esercizio del credito”) e che la legge bancaria affida alla Banca d’Italia coerentemente al ruolo di centralita’ che l’ordinamento riconosce all’istituto di emissione, ponendolo al vertice del sistema creditizio. Bastera’ quindi rilevare che la concentrazione della competenza giurisdizionale e’ diretta espressione del sistema di centralita’ dei controlli imposto da obbiettive ragioni di funzionalita’ tecnica e non puo’ certo dirsi dettata dalla esigenza unilaterale di agevolare la difesa in giudizio della Banca d’Italia, trovando gli stessi soggetti destinatari della sanzione piu’ adeguate garanzie – in materie che presentano profili di elevata complessita’ tecnica nella specializzazione dell’unico ufficio giudiziario cui siano affidate controversie della medesima natura, mentre – infine – la rilevanza della materia, attinente a una sfera di interessi (il credito, la tutela del risparmio) a diretta copertura costituzionale, rafforza l’esigenza – generalmente avvertita – di uniformita’ della giurisprudenza anche di merito. La concentrazione della tutela giurisdizionale in un unico ufficio giudiziario – cosi’ come dispone l’articolo 145, qui in esame – non puo’ dirsi dunque misura lesiva ne’ del principio della piena difesa dei diritti nei confronti degli atti della pubblica amministrazione (articoli 24 e 113 Cost.), ne’ del principio di ragionevolezza e parita’ di trattamento nella disciplina di analoghe situazione (articolo 3 Cost.)”;
2. Il secondo motivo, con il quale il (OMISSIS) prospetta violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articolo 145 (T.U.B.), della L. n. 241 del 1990, L. n. 689 del 1981, articoli 2964, 2966 e 2968 c.c., articolo 154 c.p.c. e articoli 24 e 97 Cost., per essere stato il provvedimento sanzionatorio emesso dopo 240 giorni dalla scadenza “del termine decadenziale previsto per la presentazione delle controdeduzioni difensive”, e’ inammissibile per contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, non avversato da approfondimenti tali da giustificare mutamento d’opinione (articolo 360 bis c.p.c., n. 1). Invero, al contrario di quanto assertivamente sostenuto dal ricorrente, deve rilevarsi che, imponendo la legge la conclusione del procedimento nei 240 giorni, quel che rileva e’ il momento terminale dell’adozione dello stesso; termine che nel caso in esame risulta essere stato rispettato. La comunicazione, formalita’ certamente necessaria ad altri fini, non integra, ne’ perfezione l’atto, gia’ perfetto in ogni sua parte al momento della sua emissione; trattasi di principio fermo nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 13207/06; Sez. 5, n. 2079/08; Sez. 2, 1065/14), della quale la Corte locale ha fatto corretta applicazione, risultando, quindi, irrilevante ulteriormente intrattenersi sulla durata del procedimento (appesantito dalla necessita’ di assicurare pienezza di difesa all’interessato, il quale aveva chiesto la proroga del termine per presentare le proprie discolpe);
3. Con il terzo e il quarto motivo, fra loro osmotici, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, articoli 3 e 23, Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articoli 144, 144 ter, 144 quater e 145, articoli 2697 e 2932 c.c., articoli 115 e 167 c.p.c., anche sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, lamentando, in sintesi, che:
a) al medesimo non potevasi addebitare alcuna responsabilita’ amministrativa, non essendo rimasto provato che egli, in assenza di forza maggiore e caso fortuito, avesse tenuto una condotta cosciente, connotata perlomeno da colpa: il dissesto della banca era emerso nitidamente gia’ dalla precedente ispezione del 2010, essendo emerse sin da allora le plurime e gravi ragioni dello stesso (mancanza di pianificazione strategica, crescita incontrollata degli impegni, mancanza di verifica della qualita’ dei prenditori, tassi non remunerativi, carenza cronica di liquidita’, patologica quantita’ di partite in sofferenza e incagliate); il (OMISSIS) aveva fatto parte di un consiglio d’amministrazione che aveva ereditato una “banca agonizzante” e aveva fatto di tutto per impedire o limitare l’aggravamento della situazione, senza, tuttavia, riuscirvi, facendo parte di una minoranza del consiglio d’amministrazione che si era dovuto scontrare con una carenza dei flussi informativi; proprio per questo era ingiusto che allo stesso fossero state addebitate le manchevolezze risalenti alla precedente amministrazione;
b) la decisione gravata non aveva preso in considerazione i numerosi atti attraverso i quali il ricorrente aveva cercato di migliorare gestione e conti, che non avevano sortito effetto perche’ sempre osteggiati dalla maggioranza consiliare (il ricorso individua una lunga serie di condotte che sarebbero state finalizzate al fine anzidetto).
3.1. Il motivo non supera il vaglio d’ammissibilita’. Il (OMISSIS) nella sostanza invoca, sotto l’usbergo di una di una vasta pluralita’ di norme asseritamente violate, il riesame di fatto della vicenda, peraltro indugiando in una ricostruzione aspecifica, anche sotto il profilo dell’autosufficienza, poiche’ la Corte non e’ stata posta in condizione di conoscere i documenti richiamati.
Nella sostanza, peraltro neppure efficacemente dissimulata, l’insieme delle doglianze investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’articolo 116 c.p.c., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., non puo’ porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorche’ si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299).
Piu’ in generale, trattasi di doglianza che, piuttosto palesemente, mira ad un inammissibile riesame degli insindacabili apprezzamenti di merito e la denunzia di violazione di legge non determina, per cio’ stesso, nel giudizio di legittimita’ lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (cfr., da ultimo, Cass. nn. 11775/019, 6806/019, 30728/018).
4. Le spese legali seguono la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo in favore della controricorrente, tenuto conto del valore e della qualita’ della causa, nonche’ delle attivita’ svolte.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore della resistente, che liquida in Euro 3.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17), si da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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