Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 17 settembre 2019, n. 38277.
Massima estrapolata:
L’interesse a informare la collettività può scriminare il giornalista dal reato di ricettazione.
La causa di giustificazione di cui all’articolo 51 del Cp, sub specie di esercizio del diritto di cronaca, alla luce dell’interpretazione che la Corte europea dei diritti dell’Uomo dà della garanzia di cui all’articolo 10 della Cedu, può essere configurata non soltanto in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche in relazione a eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima (nella specie, il principio è stato applicato al reato di ricettazione contestato a un giornalista e al direttore responsabile relativamente all’acquisizione di un Cd rom contenente telefonate illecitamente registrate, strumentale alla realizzazione del servizio giornalistico).
Sentenza 17 settembre 2019, n. 38277
Data udienza 7 giugno 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Presidente
Dott. RAGO Geppino – Consigliere
Dott. FILIPPINI Stefano – Consigliere
Dott. BELTRANI Serg – rel. Consigliere
Dott. SARACO Antonio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
(OMISSIS), N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 3748/2016 CORTE APPELLO di MILANO, del 09/04/2018;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/06/2019 la relazione fatta dal Consigliere, Dott. SERGIO BELTRANI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Perelli Simone, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi:
l’avv. (Ndr: testo originale non comprensibile) (OMISSIS) per la parte civile (OMISSIS), che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, chiedendo la liquidazione delle spese;
l’avv. (OMISSIS) per la parte civile (OMISSIS), che ha chiesto l’inammissibilita’ od il rigetto dei ricorsi e la liquidazione delle spese;
– l’avv. (OMISSIS) e l’avv. (OMISSIS), per gli imputati, con richiesta di accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. (OMISSIS) e (OMISSIS), in atti generalizzati, sono stati tratti a giudizio per rispondere:
– (capo A) di concorso (con soggetto nelle more deceduto) nella ricettazione (aggravata ex articolo 61 c.p., comma 1, n. 2) di un CD rom contenente telefonate illecitamente registrate sulla linea telefonica d’ufficio di (OMISSIS), in atti generalizzato, direttore della (OMISSIS) (reato presupposto, al quale gli imputati non avevano concorso: articolo 617 c.p.), ceduto da (OMISSIS) e (OMISSIS) – in atti generalizzati e titolari della (OMISSIS) s.r.l., societa’ che gestiva la sicurezza in (OMISSIS) – al fine di consentire ai due odierni imputati di realizzare un servizio giornalistico sfruttando il contenuto delle predette intercettazioni illecite;
– (capo B) di concorso in calunnia in danno di (OMISSIS), in atti generalizzato, falsamente incolpato del reato di cui all’articolo 617 c.p..
2. Il GUP del Tribunale di Milano, in data 15.3.2016, all’esito del giudizio abbreviato:
– ha assolto entrambi gli imputati dal reato di ricettazione di cui al capo A) perche’ il fatto non costituisce reato;
– ha dichiarato entrambi gli imputati colpevoli del reato di calunnia di cui al capo C);
– ha riconosciuto ad entrambi le circostanze attenuanti generiche, condannando ciascuno – operata la riduzione di rito – alla pena ritenuta di giustizia;
– ha riconosciuto al (OMISSIS) la sospensione condizionale della pena e la non menzione;
– ha sostituito nei confronti del (OMISSIS) la pena con la liberta’ controllata;
– ha condannato gli imputati a risarcire il danno cagionato alla p.c. (OMISSIS), da liquidarsi in separata sede, oltre alla rifusione pro quota delle spese processuali.
3. La Corte d’appello di Milano, in data 9.4.2018, in riforma della sentenza impugnata:
– in accoglimento dell’appello del PM, ha dichiarato gli imputati colpevoli del reato di ricettazione di cui al capo A), condannandoli, previo riconoscimento ad entrambi delle circostanze attenuanti generiche ed operata la riduzione di rito, alla pena per ciascuno ritenuta di giustizia, con sospensione condizionale della pena per entrambi, e non menzione per il solo (OMISSIS), nonche’ al risarcimento del danno cagionato alla p.c. (OMISSIS), da liquidarsi in separata sede;
– ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati in ordine al reato di calunnia di cui al capo C), perche’ estinto per prescrizione, con conferma delle relative statuizioni civili;
– ha condannato entrambi gli imputati in solido alla rifusione delle spese processuali del grado in favore di entrambe le parti civili.
4. Contro tale provvedimento, sono stati proposti tempestivamente e nei modi di rito due ricorsi (uno nell’interesse di entrambi gli imputati, l’altro nell’interesse del solo (OMISSIS)), che denunziano i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
(ricorso (OMISSIS) – (OMISSIS) a firma dell’avv. (OMISSIS)).
I – mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilita’ degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A) – inosservanza dell’articolo 533 c.p.p., comma 1, violazione del principio di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio per difetto della c.d. “motivazione rafforzata”, necessaria in caso di modifica in peius del verdetto assolutorio di primo grado;
II – mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilita’ degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A) – inosservanza dell’articolo 533 c.p.p., comma 1 e articolo 603 c.p.p., comma 3-bis, nonche’ 6, § 3, lettera d), Conv. EDU – violazione dell’obbligo di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per riassumere le prove dichiarative asseritamente valutate in appello in senso difforme rispetto alla valutazione operata dal Tribunale – violazione del principio di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio;
III – mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilita’ degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A) inosservanza dell’articolo 522 c.p.p. e violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, ex articolo 521 c.p.p. – inosservanza degli articoli 43, 110 e 648 c.p. in ordine alla ritenuta sussistenza del dolo di profitto del delitto di ricettazione in capo ai ricorrenti (non sarebbe stato chiarito in cosa l’enucleato profitto non patrimoniale degli odierni imputati si sarebbe concretizzato e sulla base di quali elementi sarebbe stato enucleato; inoltre, quanto al presunto profitto patrimoniale del (OMISSIS), sarebbero stati valorizzati i rapporti di concorrenza commerciale tra la (OMISSIS)/ (OMISSIS) e la antagonista (OMISSIS), che tuttavia esulerebbero dal contenuto dell’imputazione; sarebbe stata, infine, immotivatamente attribuita agli imputati una sorta di dolo di profitto “per adesione”);
IV – inosservanza degli articoli 43, 51 e 648 c.p., nonche’ articolo 21 Cost. e articolo 10 Conv. EDU, in ordine alla errata affermazione della sussistenza del dolo di profitto ed al mancato riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto: l’unico fine che avrebbe animato i due giornalisti era la pubblicazione dell’articolo, il che, da un lato, escluderebbe la sussistenza di un proprio fine di profitto di qualsiasi natura (in proposito, la sentenza impugnata non avrebbe risposto alla domanda se l’acquisizione del materiale necessario per la pubblicazione-denuncia di una notizia afferente un reato possa costituire profitto ex articolo 648 c.p.), dall’altro evidenzierebbe (anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo) la non considerazione della configurabilita’ di un esercizio scriminante del diritto di cronaca; in via gradata, si deduce, inoltre, che la valorizzazione della specifica finalita’ della condotta dei due giornalisti avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a qualificare il fatto accertato ex articolo 648 c.p., comma 2, e comunque almeno ad una riduzione della pena irroganda;
V – mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilita’ agli effetti civili degli imputati per il delitto di calunnia di cui al capo C) – inosservanza dell’articolo 522 c.p.p. e violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, ex articolo 521 c.p.p. – inosservanza degli articoli 1, 43 e 368 c.p. in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di calunnia in capo ai ricorrenti sotto il profilo materiale e soggettivo (la Corte di appello si sarebbe, in concreto, limitata a brevi rilievi riepilogativi delle argomentazioni del primo giudice, richiamando, anche ai fini della disposta statuizione di condanna agli effetti civili, le ragioni del mancato proscioglimento con formula ampia agli effetti penali, senza esaminare compiutamente i plurimi motivi di gravame, cui doveva comunque essere data compiuta risposta per legittimare la concorrente affermazione di responsabilita’ agli effetti civili, come imposto dall’articolo 578 c.p.p.; in particolare, mancherebbe del tutto la disamina riguardante il necessario dolo di calunnia, in riferimento alla necessaria consapevolezza che i due giornalisti dovevano avere della contestata falsita’, essendosi la Corte di appello limitata a valorizzare il mero dato oggettivo – ma inerente soltanto alla materialita’ del reato, non anche all’elemento psicologico – della sussistenza della contestata falsita’).
(ricorso (OMISSIS) a firma dell’avv. (OMISSIS)).
Il secondo ricorso ripropone piu’ o meno pedissequamente le medesime censure dedotte dal ricorso congiunto, naturalmente in riferimento alla posizione dell’unico imputato patrocinato (con qualche evidente lapsus: il III motivo lamenta – come il corrispondente motivo del ricorso congiunto – mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilita’ degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A), pur se il ricorso e’ presentato nell’interesse di un solo imputato).
4.1. Sono stati successivamente depositati:
4.1.1. in data 2.5.2019, memoria della parte civile (OMISSIS) (17 pagine non numerate con 5 allegati) con rilievi:
– quanto alla sussistenza del fatto di ricettazione;
– quanto alla ritenuta insussistenza del dolo specifico di ricettazione da parte del GUP;
– quanto alla sussistenza, ritenuta in appello, del dolo di profitto della ricettazione;
– quanto all’infondatezza delle argomentazioni delle difese (OMISSIS) e (OMISSIS) contenute nei rispettivi ricorsi;
4.1.2. in data 7.5.2019, istanza degli avv. (OMISSIS) e (OMISSIS) di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite in riferimento al IV motivo di entrambi i ricorsi sottoscritti dalle predette, poiche’:
– “pare sussistere la possibilita’ di un contrasto interpretativo” sulla questione di diritto se, nell’acquisizione da parte dei giornalisti del materiale, necessario per la pubblicazione di una notizia di pubblico interesse, possa validamente rinvenirsi il profitto ai sensi dell’articolo 648 c.p.;
– il tema della punibilita’ del giornalista che acquisisca materiale, proveniente da reato, per la pubblicazione di articoli, nell’esercizio del diritto primario di informare, costituzionalmente garantito, costituisce questione di speciale importanza;
4.1.3. in data 20.5.2019, motivi nuovi dell’avv. (OMISSIS) nell’interesse dei coimputati, in realta’ contenenti argomentazioni in ipotesi atte a corroborare i motivi IV, III, V, del ricorso principale (8 pagine con 3 allegati “nuovi”);
4.1.4. in data 22.5.2019, memoria della parte civile (OMISSIS) (20 pagine) con ampio riepilogo delle vicende sottostanti;
4.1.5. in data 31.5.2019, memoria di replica ancora della parte civile (OMISSIS) (20 pagine con 4 sentenze allegate).
5. All’odierna udienza pubblica, e’ stata verificata la regolarita’ degli avvisi di rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La sentenza impugnata va annullata:
– quanto al capo inerente all’affermazione di responsabilita’ in ordine al delitto di ricettazione, limitatamente al punto riguardante la valutazione circa la configurabilita’ o meno della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca (articolo 51 c.p.);
– quanto al capo inerente al delitto di calunnia, limitatamente al punto riguardante le statuizioni civili.
Va, conseguentemente, disposto il rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo giudizio sui predetti punti della sentenza impugnata.
I ricorsi vanno, nel resto, complessivamente rigettati.
1. La notevole mole di atti/documenti, allegati a ricorsi e memorie, prodotti in piu’ tempi dalle parti private rende, a parere del collegio, non inopportuno ricordare una serie di principi inerenti al corretto svolgimento del giudizio di legittimita’, tanto consolidati quanto inopinatamente non considerati.
1.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 1, sentenza n. 46711 del 14/07/2011, Rv. 251412; Sez. 2, sentenza n. 15693 del 08/01/2016, Rv. 266441), costituisce principio generale in tema di impugnazioni la necessita’ che tra i motivi originariamente proposti ed i motivi di ricorso nuovi od aggiunti sussista una connessione, non essendo consentito, con motivi definiti dalla parte proponente “nuovi” od “aggiunti” dedurre vizi non dedotti con l’impugnazione originaria.
Invero, la facolta’ conferita al ricorrente dall’articolo 585 c.p.p., comma 4, deve trovare necessario riferimento nei motivi principali e rappresentare soltanto uno sviluppo o una migliore e piu’ dettagliata esposizione dei primi, anche per ragioni eventualmente non evidenziate in precedenza, ma sempre collegabili ai capi e punti della decisione impugnata oggetto delle censure gia’ dedotte: ne consegue che “motivi nuovi” ammissibili sono soltanto quelli con i quali, a fondamento del petitum gia’ proposto nei motivi principali d’impugnazione, si alleghino argomentazioni (ma non anche richieste) ulteriori rispetto a quelle originarie, non potendo essere ammessa l’introduzione di censure nuove in deroga ai termini tassativi entro i quali il ricorso va presentato.
I motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono, pertanto, avere ad oggetto, a pena di inammissibilita’, i medesimi capi o punti della decisione impugnata che siano stati oggetto di doglianza nell’originario atto d’impugnazione (Sez. 6, n. 73 del 21 settembre 2011, dep. 2012, Rv. 251780).
1.1.1. Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto:
“in materia di termini per l’impugnazione, la facolta’ del ricorrente di presentare “motivi nuovi” o “aggiunti” incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, dei quali i motivi ulteriori devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate, ma risultando sempre ricollegabili ai capi ed ai punti gia’ censurati; ne consegue che sono ammissibili soltanto i “motivi nuovi” o “aggiunti” con i quali, a fondamento del petitum formulato nei motivi principali, si alleghino argomentazioni ulteriori rispetto a quelle gia’ svolte, non anche quelli con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto petitum, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione”.
1.2. L’articolo 585 c.p.p., comma 4, consente alla parte ricorrente unicamente la produzione di “motivi nuovi” – intesi nell’accezione delineata nel § che precede – non anche di “atti” o “documenti nuovi”.
Cio’, gia’ sotto un profilo strettamente letterale, non puo’ essere senza significato.
1.2.1. Questa Corte (Sez. 4, n. 3396 del 06/12/2005, dep. 2006, Rv. 233241; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013, Rv. 254302; Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Rv. 266390; Sez. 1, n. 42817 del 06/05/2016, Rv. 267801) ha chiarito che non e’ ammissibile la produzione per la prima volta in sede di legittimita’ di “documenti nuovi”, ovvero gia’ non facenti parte del fascicolo, diversi da quelli di natura tale da non costituire “nuova prova” e da non esigere alcuna attivita’ di apprezzamento sulla loro efficacia nel contesto delle prove gia’ raccolte, perche’ tale attivita’ e’ estranea ai compiti istituzionali della Corte di cassazione.
Sarebbe, ad esempio, ammissibile la produzione di certificati di nascita (rilevanti ai fini dell’imputabilita’ o della competenza per materia) o di morte (rilevanti ai fini della declaratoria di estinzione del reato), che non necessitano di apprezzamento, ma costituiscono, in ipotesi, oggetto di una mera “presa d’atto”.
1.2.2. I documenti di natura diversa esibiti per la prima volta in sede di legittimita’ non sono, al contrario, ricevibili, perche’ il nuovo codice di rito non ha previsto (diversamente dall’articolo 533 codice di rito abrogato), tale facolta’: si e’, in tal modo, inteso esaltare il ruolo di pura legittimita’ della Suprema Corte, che procede non ad un esame degli atti, ma soltanto alla valutazione dell’esistenza e della logicita’ della motivazione.
1.2.3. Un ulteriore argomento conferma la correttezza di questa soluzione.
Come – ancora una volta – gia’ evidenziato da questa Corte (Sez. 3, n. 43307 del 19/10/2001, Rv. 220601), non puo’ ritenersi ammissibile nel giudizio di legittimita’, anche dopo l’entrata in vigore della L. 7 dicembre 2000, n. 397, la produzione di nuovi documenti attinenti al merito della contestazione ed all’applicazione degli istituti sostanziali, non potendo interpretarsi come una deroga ai principi generali del procedimento e del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione la lettera dell’articolo 327-bis c.p.p., comma 2, nella parte in cui attribuisce al difensore la facolta’ di svolgere “in ogni stato e grado del processo” le investigazioni in favore del proprio assistito previste dal comma 1, “nelle forme e per le finalita’ stabilite nel titolo VI-bis” del libro V del codice di rito.
1.2.4. Deve, in proposito, essere affermato il seguente principio di diritto:
“nel giudizio di legittimita’ possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l’interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, sempre che essi non costituiscano “prova nuova” e non comportino un’attivita’ di apprezzamento circa la loro validita’ formale e la loro efficacia nel contesto delle prove gia’ raccolte e valutate dai giudici del merito, ma richiedano una mera presa d’atto del loro contenuto”.
1.2.5. Detto limite vale, naturalmente, sia per gli imputati che per le parti civili.
1.3. Cio’ premesso, se i motivi formalmente definiti come “nuovi”, depositati in data 20.5.2019 dall’avv. (OMISSIS) nell’interesse dei coimputati, contengono in realta’ argomentazioni in ipotesi atte a corroborare i motivi IV, III, V del ricorso originario, e sono quindi, in rito, ammissibili (salva la loro successiva disamina, quanto all’accoglibilita’ o meno, nel merito), e’ senz’altro non consentita la produzione dei plurimi atti/documenti “nuovi”, che – secondo un’ottica di parte processualmente distorta – dovrebbero variamente produrre efficacia in riferimento al contesto delle prove gia’ raccolte e valutate nei gradi di merito, e che la Corte di cassazione dovrebbe conseguentemente essere chiamata a valutare per la prima volta, perche’ tale ultima attivita’ e’ estranea alle funzioni istituzionali della Corte di cassazione.
2. Non ricorrono le condizioni per disporre la rimessione del processo alla Sezioni Unite, chiesta dalle difese dei coimputati, perche’:
– in riferimento al IV motivo di entrambi i ricorsi, sono le stesse difese instanti a proporre la questione in modo dubitativo (“pare sussistere la possibilita’ di un contrasto interpretativo (…)”); d’altro canto, come si vedra’, la questione e’ priva di concreto rilievo ai fini della decisione;
– in riferimento alla “speciale importanza” del tema della punibilita’ del giornalista che acquisisca materiale, proveniente da reato, per la pubblicazione di articoli, nell’esercizio del diritto primario di informare, costituzionalmente garantito, se, da un lato, l’articolo 610 c.p.p., comma 2, riserva soltanto al Primo Presidente di questa Corte (anche su impulso delle parti) la predetta valutazione, giacche’ – a fissazione avvenuta – la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite da parte del collegio e’ consentita dall’articolo 618 c.p.p., comma 1, solo in presenza di un contrasto (attuale o potenziale) di giurisprudenza, in subiecta materia inesistente (neanche le difese degli imputati affermano il contrario), dall’altro, nella raccolta delle sentenze di questa Corte (consultabile negli archivi del CED) figurano, soltanto tra le sentenze massimate, ben 6 decisioni delle Sezioni semplici implicanti valutazioni inerenti alla garanzia dell’articolo 10 Conv. EDU, ed in tali casi non e’ stata mai ravvisata quella “speciale importanza” che sola potrebbe legittimare – sia pur soltanto nei modi di rito in precedenza indicati – la (tardivamente) chiesta rimessione alle Sezioni Unite.
3. Il terzo motivo ed il quarto motivo – prima parte – dei ricorsi dei coimputati (la cui disamina appare logicamente preliminare rispetto a quella dei primi due motivi dei medesimi ricorsi) sono infondati.
3.1. Come gia’ chiarito da questa Corte (Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, n.m. sul punto), nonche’ autorevolmente da risalente, ma tuttora attuale, dottrina, il dolo del delitto di ricettazione e’ misto, perche’ generico quanto alla coscienza e volonta’ di ricevere cose provenienti da delitto, e specifico quanto al fine di trarne profitto per se’ o per terzi.
3.2. Quanto alla componente specifica del predetto dolo, deve premettersi che, secondo l’orientamento assolutamente dominante in giurisprudenza, il profitto, il cui conseguimento integra il dolo specifico del reato di ricettazione, puo’ avere anche natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11083 del 12/10/2000, Rv. 217382, in fattispecie relativa all’acquisto di prodotti falsificati, usati per arredare le vetrine del negozio, con riguardo alla quale la S.C. ha ritenuto integrato l’elemento psicologico del delitto dal vantaggio conseguito attraverso l’abbellimento della vetrina, benche’ i beni falsificati ed usati per arredare la medesima borse e ombrelli – fossero diversi dai beni – vini e liquori – commercializzati nel negozio; Sez. 2, n. 44378 del 25/11/2010, Rv. 248945, in fattispecie relativa alla detenzione di una camicia militare, recante scritte in caratteri ebraici, dell’esercito israeliano, considerata rappresentativa di Israele, e costituente provento di rapina perpetrata da giovani intenti a distribuire volantini di propaganda politica anti-israeliana; Sez. 2, n. 15680 del 22/03/2016, Rv. 266516, in fattispecie relativa all’acquisto di farmaci anabolizzanti provento del delitto previsto dalla L. 14 dicembre 2000, n. 376, articolo 9, al fine di farne uso personale per la modifica della struttura muscolare; Sez. 2, n. 3661 del 23/10/2018, dep. 2019, n.m., in fattispecie analoga a quella da ultimo indicata).
3.2.1. La decisione invocata in senso contrario (Sez. 2, n. 843 del 19/12/2012, dep. 2013, Rv. 254188 – 01) a ben vedere non si e’ posta in diretto contrasto con il predetto orientamento, essendosi limitata ad affermare che il dolo specifico del fine di profitto, previsto dall’articolo 648 c.p. per integrare la condotta di reato, non puo’ consistere in una mera utilita’ negativa, configurabile ogni qual volta il soggetto attivo agisca allo scopo di commettere un’azione esclusivamente in danno di se’ stesso, sia pure perseguendo un’utilita’ meramente immaginaria o fantastica:
“ritiene il Collegio che la nozione di utilita’ non possa essere forzata fino al punto da includervi anche la mera utilita’ negativa, vale a dire ogni circostanza che, senza ledere diritti od interessi altrui, si risolva “in una mera lesione della sfera soggettiva dell’agente. Di conseguenza deve escludersi che il fine di compiere una azione in danno di se’ stessi, sia pure perseguendo un’utilita’ meramente immaginaria o fantastica (come nel caso di specie), possa integrare il fine di profitto, vale a dire il dolo specifico previsto dalla norma di cui all’articolo 648 per la punibilita’ delle condotte ivi descritte. Diversamente ragionando si arriverebbe al paradosso di considerare dettata dal fine di profitto l’azione di chi si procuri, attraverso un circuito illecito, dei barbiturici allo scopo di suicidarsi. Secondo le norme piu’ elementari della logica, invece, non puo’ essere revocato in dubbio che il suicidio, o altri atti lesivi della propria integrita’ psico-fisica non possano essere ricondotti alla nozione di utilita’, a meno che le lesioni alla propria integrita’ non siano strumentali ad altri fini (per es. il conseguimento di un miglior risultato sul piano agonistico), che nel caso di specie non sussistono”.
3.2.2. Come si vede, nessuna considerazione e’ stata fatta in merito alla presunta impossibilita’ di ritenere integrato il necessario dolo specifico di ricettazione in presenza di una finalita’ di profitto meramente non patrimoniale.
3.3. Peraltro, la questione e’, come anticipato, priva di rilievo ai fini dell’odierna decisione, perche’, nel caso in esame, la contestazione configura una fattispecie di concorso di persone (ex articolo 110 c.p.) in un reato a dolo (anche) specifico.
3.3.1. In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, in motivazione), con l’avallo di autorevole dottrina, hanno gia’ chiarito che, nelle fattispecie (anche) a dolo specifico, “la sussistenza del reato richiede che almeno uno dei concorrenti agisca per quella particolare finalita’ richiesta dalla norma incriminatrice; occorre peraltro che il concorrente privo del dolo specifico sia consapevole che altro concorrente agisca con il richiesto elemento soggettivo; (…). In coerenza con gli orientamenti della teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale, si deve ammettere la possibilita’ che la specifica intenzione sussista in capo ad un soggetto diverso dall’esecutore”.
3.3.2. Applicando i predetti principi in tema di c.d. concorso esterno nel delitto di cui all’articolo 416-bis c.p., questa Corte (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, in motivazione, f. 29 s.) ha, in particolare, osservato quanto segue:
“La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volonta’ di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del “medesimo reato”. E, sotto questo profilo, nei delitti associativi si esige che il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis e cioe’ della volonta’ di far parte dell’associazione, sia altresi’ consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attivita’ di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione: egli “sa” e “vuole” che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio”.
3.3.3. Invero, per effetto dell’ampliamento della sfera della punibilita’, fino a ricomprendere anche le cc.dd. “condotte atipiche”, prodotto dall’articolo 110 c.p., risulterebbe incriminabile a titolo di concorso nella ricettazione anche il soggetto il cui contributo al reato non sia soggettivamente animato dal necessario dolo specifico, naturalmente a condizione che:
– il reato, realizzato in forma concorsuale, sia comunque integrato nella sua tipicita’, e quindi almeno uno dei concorrenti (non necessariamente l’esecutore materiale, ma anche ad esempio – un concorrente “morale”) abbia agito animato dal necessario dolo (anche) specifico;
– il concorrente non soggettivamente animato dal predetto dolo (anche) specifico sia consapevole dell’altrui finalita’.
3.3.4. Privo di pregio appare, quindi, l’orientamento, talora espresso dalla giurisprudenza (Sez. 5, n. 18852 del 12/02/2013, Rv. 256242 – 01; Sez. 6, n. 34667 del 05/05/2016, Rv. 267705 – 01), ma solo in relazione al delitto di cui alla L. n. 356 del 1992, articolo 12-quinquies (ora articolo 512-bis c.p.), a parere del quale il predetto delitto richiederebbe che tutti i concorrenti nel reato abbiano agito con il dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, per la cui prova in giudizio non e’ sufficiente dar conto della fittizia attribuzione della titolarita’ o disponibilita’ di denaro, beni o altre utilita’.
Detta affermazione si pone, infatti, in contrasto inconsapevole con il predetto orientamento delle Sezioni Unite, neppure menzionato, e della dottrina, e non esamina il generale tema delle connotazioni del concorso di persone nei reati a dolo specifico.
3.4. Alla luce dei predetti principi di diritto, appare evidente che, nel caso di specie, nessun problema si ponga quanto alla configurazione del necessario dolo (anche) specifico degli odierni coimputati, concorrenti con il defunto (OMISSIS) (“patron” storico di (OMISSIS)) nel contestato reato di ricettazione, erroneamente escluso dal primo giudice.
3.4.1. Si e’ gia’ osservato che l’eventuale non patrimonialita’ del profitto perseguito dai coimputati (o dal (OMISSIS)) sarebbe irrilevante ai fini della configurazione del delitto di ricettazione ascritto ai ricorrenti.
3.4.2. Risulta, peraltro, assorbente il rilievo che (OMISSIS) era concorrente commerciale di (OMISSIS), e la concorrenza commerciale coinvolge sempre interessi di rilievo in re ipsa patrimoniale.
Non importa in qual misura (OMISSIS) fosse in concorrenza con (OMISSIS), ne’ se si trattasse di un concorrente “temibile” oppure no, poiche’ si trattava pur sempre, oggettivamente, di un concorrente e metterlo in difficolta’ avrebbe procurato comunque ad (OMISSIS) benefici patrimonialmente apprezzabili (se significativi o minimi non importa ai fini della configurabilita’ del reato, ma al piu’ ai fini della eventuale qualificazione dei fatti accertati ex articolo 648 c.p., comma 2, oppure quoad poenam).
Proprio per conseguire il predetto fine di profitto sicuramente patrimoniale, il (OMISSIS) avveduto e “navigato” patron di (OMISSIS) – non esito’ a “mettersi in casa”, con l’apparente incarico di assicurare la sicurezza di (OMISSIS), due soggetti (il (OMISSIS) ed il (OMISSIS)) che proprio la negoziazione del CD rom contenente le illecite intercettazioni de quibus aveva oggettivamente documentato essere all’uopo assolutamente inaffidabili, perche’ gia’ avevano – per lo meno in una occasione – strumentalizzato i propri compiti di addetti alla Security per carpire notizie riservate riguardanti i propri datori di lavoro, rivelandole al migliore offerente.
La Corte di appello ha, in proposito, valorizzato anche le dichiarazioni del teste (OMISSIS) (che il primo giudice non aveva giudicato particolarmente significative, errando) quanto allo “strappo alle regole” in precedenza imposte in (OMISSIS) dallo stesso (OMISSIS) (che si era concretizzato nel – mai disposto in precedenza – pagamento in anticipo delle spettanze del (OMISSIS) e del (OMISSIS), titolari della (OMISSIS) s.r.l., in ipotesi attributari dell’incarico di curare in (OMISSIS) il settore della vigilanza, ma in realta’ immediatamente ricompensati per la cessione del CD rom contenente le illecite registrazioni delle telefonate de quibus), estremamente significativo per ricostruire il senso effettivo di quanto accertato, ed in particolare la reale portata dell’accordo stretto dai soggetti in questione.
Per tali ragioni, la Corte di appello (f. 14 ss. della sentenza impugnata) ha correttamente valorizzato il fine di profitto che animava il concorrente (OMISSIS) (come appena ricordato, “patron” storico di (OMISSIS)), che aveva senza dubbio natura patrimoniale.
3.4.2. Nulla ostava, quindi, sotto questo profilo, alla configurazione del concorso nel reato dei due giornalisti coimputati, pur se in ipotesi a loro volta non soggettivamente animati dal necessario dolo specifico, poiche’ il reato, realizzato in forma concorsuale, era comunque integrato nella sua tipicita’ per il fatto che uno dei concorrenti aveva agito animato dal necessario dolo (anche) specifico.
Occorreva, naturalmente verificare che i due giornalisti fossero consapevoli della finalita’ del (OMISSIS).
3.4.2.1. In proposito, la Corte di appello ha adeguatamente chiarito che i due giornalisti erano pacificamente consapevoli della finalita’ di profitto patrimoniale del (OMISSIS), al quale si erano rivolti senza esitazione, proponendogli di affidare la security di (OMISSIS) ai menzionati (OMISSIS) e (OMISSIS), dai quali i giornalisti avrebbero contestualmente ricevuto il CD rom contenente le illecite intercettazioni che avrebbero dovuto mettere in difficolta’ (OMISSIS).
Le attivita’ di security all’interno di una azienda articolata e con molti concorrenti come la (OMISSIS) sono strategiche e di rilievo estremo, il che impone necessariamente la costituzione di un rapporto strettamente fiduciario tra il datore di lavoro e chi e’ incaricato delle predette attivita’, onde evitare il c.d. effetto boomerang patito da (OMISSIS) (la cui riservatezza era stata violata proprio da chi avrebbe dovuto tutelarla).
Il (OMISSIS) conosceva il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) solo e proprio quali autori della predetta violazione della security di (OMISSIS).
La proposta fattagli dai due giornalisti di affidare la security della propria ditta a soggetti sconosciuti che documentalmente risultavano all’uopo non affidabili sarebbe, pertanto, risultata assolutamente irragionevole, se non fosse stata legittimata dalla comune consapevolezza dell’interesse del patron di (OMISSIS) a screditare e mettere in difficolta’ (anche nei rapporti con le rappresentanze sindacali interne e nazionali, come appare evidente sol che si consideri il contenuto delle intercettazioni de quibus) il concorrente (OMISSIS).
3.4.3. Ne’ puo’ ritenersi che, argomentando in tal modo, la Corte di appello abbia violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Cio’ in quanto nell’ultima parte del capo d’imputazione e’ espressamente evocata la circostanza che (OMISSIS) fosse “concorrente commerciale di (OMISSIS)”.
4. Il primo ed il secondo motivo dei ricorsi dei coimputati sono infondati.
4.1. Deve, in primo luogo, rilevarsi che la difformita’ tra la statuizione del primo e quella del secondo giudice non riguarda l’accertamento del fatto, identico per entrambi nella sua materialita’, quanto la sola configurabilita’ dell’elemento psicologico in capo agli odierni ricorrenti, che il Tribunale aveva escluso per il rilievo che “l’intenzione di pubblicare lo scoop, con il conseguente auspicato aumento delle vendite, cosi’ come l’intenzione dell’imprenditore (OMISSIS) di demolire mediaticamente il concorrente commerciale gettando discredito sulla (OMISSIS), integravano il “movente”, non il “dolo specifico richiesto””.
4.2. Cio’ premesso, s’impone un triplice ordine di rilievi.
4.2.1. Le ragioni dell’assoluzione pronunziata in primo grado, come della riforma del menzionato verdetto assolutorio in appello, hanno natura essenzialmente giuridica, riguardando i rapporti tra dolo e movente, e conseguentemente la configurabilita’ del dolo specifico richiesto, e la eventuale necessita’ della sua patrimonialita’, fermo restando il conforme accertamento fattuale delle vicende accadute.
4.2.1.1. Questa Corte (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679 – 01; Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430 – 01) e’ tradizionalmente orientata nel senso che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado (sia condannando l’imputato assolto, sia assolvendo l’imputato condannato) ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i piu’ rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.
Pertanto, anche in caso di ribaltamento in appello della sentenza assolutoria di primo grado sussiste un obbligo di motivazione per cosi’ dire “rafforzata”.
4.2.1.2. Si e’ anche in piu’ occasioni chiarito che non sarebbe denunciabile il vizio di motivazione con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito (Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, Rv. 242634, e n. 19696 del 20/05/2010, Rv. 247123; Sez. 3, n. 6174 del 23/10/2014, dep. 2015, Rv. 264273 – 01; Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, Rv. 263326 – 01; sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito, Sez. 4, n. 6243 del 07/03/1988, Rv. 178442).
Invero, il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimita’ e’ solo quello attinente alle questioni di fatto, non anche quello attinente alle questioni di diritto, giacche’ ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non puo’ sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.
D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneita’ degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. 4, n. 4173 del 22 febbraio 1994, Rv. 197993).
Ne consegue che, nel giudizio di legittimita’, il vizio di motivazione non sarebbe denunciabile con riferimento alle questioni di diritto correttamente decise dal provvedimento che s’intenda impugnare.
4.2.1.3. Cio’ premesso, appare evidente che la necessita’ di una motivazione “rafforzata” s’imponga soltanto nei casi in cui la riforma in appello del verdetto pronunciato dal Tribunale fondi su una mutata valutazione delle prove acquisite, non anche quando essa sia legittimata da una diversa e corretta valutazione in diritto, operata sul presupposto dell’erroneita’ della valutazione del primo giudice.
In tali casi, alla Corte di cassazione spetta il compito di verificare se la questione giuridica difformemente decisa dai giudici del merito sia stata correttamente esaminata e risolta dall’uno o dall’altro, ed il vizio all’uopo in ipotesi denunciabile e’ solo quello di violazione della legge, penale o processuale.
4.2.1.4. Nel caso in esame, alla luce dei rilievi svolti nei §§ 3 ss. di queste Considerazioni in diritto, essa e’ decisa correttamente dalla Corte di appello.
4.2.2. Il Tribunale ha errato anche in fase d’impostazione preliminare della questione da decidere, confondendo movente e dolo, e non ritenendo neppure di indicare – una volta collocati nel fuoco del “movente” tutti gli elementi che secondo il P.M., correttamente, avrebbero integrato il necessario “dolo” – da cosa avrebbe dovuto essere in ipotesi integrato quest’ultimo.
4.2.2.1. La dottrina e la giurisprudenza (Sez. 1, n. 31449 del 14/02/2012, n.m. sul punto) definiscono il dolo quale elemento costitutivo del reato, riguardante la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento (ovvero ” quale complesso di fatti interni o psicologici (rappresentazione e volizione), che, dato il termine usato (“intenzione”), non possono essere potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto “), distinguendolo dal movente, che “e’ la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l’individuo ad agire ” e puo’ assumere rilevanza unicamente come circostanza (aggravante od attenuante: cfr. rispettivamente, articolo 61 c.p., comma 1, n. 1 e articolo 62 c.p., comma 1, n. 1), ovvero ai fini della graduazione della pena (articolo 133 c.p., comma 2, n. 1).
La decisione da ultimo citata ha precisato che il movente non e’ necessariamente razionale, perche’ le cause psichiche dell’agire umano sono aperte alle ispirazioni ed agli impulsi piu’ vari e misteriosi, insondabili come la complessita’ dell’animo umano.
Si afferma correntemente che il movente e’ irrilevante ai fini dell’integrazione del dolo, ma l’affermazione significa unicamente che il movente puo’, in ipotesi, mancare, o comunque essere rimasto ignoto. Null’altro.
4.2.2.2. Nel caso in esame, il fine specifico di profitto patrimoniale perseguito dal (OMISSIS) (del quale i concorrenti giornalisti erano certamente consapevoli) integra il dolo (anche) specifico necessario ai fini dell’integrazione del reato di cui all’articolo 648 c.p..
L’accertata condotta concorsuale e’ risultata giustificata da specifici e distinti moventi, costituiti dal desiderio di rivalsa del (OMISSIS) e dal desiderio di realizzare uno scoop ascrivibile ai giornalisti.
4.2.3. Quanto fin qui osservato evidenzia, infine, che il mutato verdetto della Corte di appello non fonda sic et simpliciter su una rivalutazione – quanto all’attendibilita’ – delle acquisite risultanze istruttorie (in presenza della quale sarebbe stata, in ipotesi, necessaria la riassunzione delle prove dichiarative diversamente valorizzate), bensi’ su una correttamente mutata valutazione in diritto delle concordemente ricostruite risultanze fattuali acquisite.
4.2.3.1. Non appare inopportuno precisare che, per rafforzare il proprio convincimento in diritto, la Corte di appello ha anche valorizzato le dichiarazioni rese dal teste (OMISSIS) (cfr. f. 14 ss. della sentenza impugnata), cui il Tribunale non aveva dato particolare risalto: tale elemento probatorio non e’ stato, peraltro, valorizzato dalla Corte di appello in senso difforme – quanto all’attendibilita’ – rispetto al Tribunale.
Sul punto va registrata una apparente contraddittorieta’ nelle argomentazioni del ricorso congiunto degli imputati, che a f. 8 lamenta genericamente che dette dichiarazioni sarebbero state valorizzate dalla Corte in senso difforme rispetto alla valutazione del Tribunale, salvo ammettere in prosieguo (f. 9) che in realta’ le predette dichiarazioni non erano state ritenute fondamentali dal Tribunale.
Anche da tale prospettazione, emerge con evidenza che la mutata valutazione delle dichiarazioni de quibus non ne ha riguardato il senso, ovvero l’attendibilita’, bensi’ soltanto la possibile rilevanza, ingiustificatamente negata dal Tribunale.
4.2.3.2. In presenza di siffatta situazione, l’esame del dichiarante non andava riassunto in appello.
Invero, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787), sia pure con riferimento al testo dell’articolo 603 c.p.p. vigente fino al 3.8.2017, hanno enunciato il seguente principio di diritto:
“E’ affetta da vizio di motivazione ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), per mancato rispetto del canone di giudizio “al di la’ di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’articolo 533 c.p.p., comma 1, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilita’ dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni”.
Hanno, peraltro, precisato, in motivazione, che il predetto principio vale soltanto nei casi in cui di differente “valutazione” del significato della prova dichiarativa si possa effettivamente parlare: “non percio’ quando il documento che tale prova riporta risulti semplicemente “travisato”, quando, cioe’, emerga che la lettura della prova sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformita’ cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato) e, percio’, non puo’ sorgere alcuna esigenza di rivalutazione di tale contenuto attraverso una nuova audizione del dichiarante”.
Nel caso in esame, si era in presenza di un c.d. errore “per omissione”, avendo il Tribunale ingiustificatamente negato la possibile rilevanza delle dichiarazioni de quibus.
4.2.3.3. Ancor piu’ chiaramente, il nuovo comma 3-bis, inserito nell’articolo 603 c.p.p. dalla L. n. 103 del 2017, e vigente a partire dal 3.8.2017, impone testualmente – nei casi de quibus – la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale soltanto “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”.
“Motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” che, nel caso di specie, come fin qui illustrato, non ricorrono.
5. Il quarto motivo – seconda parte e’ fondato.
5.1. I ricorrenti lamentano inosservanza degli articoli 43, 51 e 648 c.p., nonche’ articolo 21 Cost. e articolo 10 Conv. EDU quanto al mancato riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto.
5.1.1. Detta conclusione era stata espressamente formulata all’udienza 9.4.2018 dalla difesa dell’imputato (OMISSIS) attraverso il richiamo alle note di udienza all’uopo depositate, che trattavano la questione.
Peraltro, il Tribunale (f. 30 s. della sentenza di primo grado) aveva espressamente posto a fondamento del pronunziato verdetto assolutorio perche’ il fatto non costituisce reato (poi riformato in appello) anche le seguenti argomentazioni:
– “la divulgazione di una notizia di interesse pubblico, per quanto ottenuta in modo illecito, rappresenta un interesse giuridicamente tutelato”;
– “anche alla preliminare attivita’ di raccolta delle informazioni de(ve) essere estesa la tutela garantita dall’articolo 10 CEDU al fine di non svuotarla di significato”.
Cio’, sia in ossequio a quanto disposto dall’articolo 530 c.p.p., comma 3, sia per la gia’ evidenziata esigenza, in rito, che la disposta mutatio del verdetto del Tribunale fosse legittimata da una motivazione “rafforzata”, avrebbe comunque imposto alla Corte di appello la disamina della questione inerente alla configurabilita’ o meno della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, nei confronti di entrambi gli imputati.
5.2. La giurisprudenza di questa Corte ha inizialmente negato la compatibilita’ della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca con il delitto di ricettazione, avendo osservato che “le scriminanti dell’esercizio del diritto di critica e del diritto di cronaca rilevano solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima” (Sez. 1, n. 27984 del 07/04/2016, Rv. 267053 – 01: in applicazione del principio, e’ stato rigettato il ricorso dell’imputato del reato di cui all’articolo 650 c.p., il quale, nella sua qualita’ di giornalista, aveva violato il divieto prefettizio di stazionare e circolare in una determinata zona nella quale lo stesso si era introdotto al fine di acquisire notizie utili per la realizzazione di una trasmissione radiofonica, in differita, sulle manifestazioni del movimento “NO TAV”).
5.2.1. A tale orientamento sembrerebbe essersi inconsapevolmente rifatta la Corte di appello che, pur non avendo esplicitamente esaminato la questione – in ordine alla quale e’ rimasta del tutto silente – a f. 15 della sentenza impugnata osserva che non sarebbe in nessun caso consentita la commissione di reati nell’esercizio della fondamentale attivita’ di informazione al pubblico.
5.2.2. Una prima apertura nel senso della compatibilita’ tra la predetta causa di giustificazione ed il predetto reato si e’, peraltro, avuta con Sez. 2, n. 25363 del 15/05/2015, n.m. sul punto, che ha riconosciuto l’astratta compatibilita’ tra la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca ed il delitto di ricettazione, salvo ritenere immune da censure la valutazione della Corte di appello che aveva escluso la configurabilita’, nel caso concreto, della predetta causa di giustificazione.
5.3. I giudici della Corte di Strasburgo negli ultimi decenni hanno in piu’ occasioni esaminato il tema, in relazione alla generale garanzia della liberta’ di esprimersi, sancita dall’articolo 10 Conv. EDU.
5.3.1. In particolare, il tema e’ stato compiutamente esaminato dalla CORTE EDU, Grande Chambre, sentenza 21 gennaio 1999, caso (OMISSIS) et (OMISSIS) c. Francia.
5.3.2. Nel predetto caso, i ricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS), rispettivamente direttore e giornalista del settimanale satirico (OMISSIS), condannati per il reato di ricettazione di fotocopie di dichiarazioni dei redditi provenienti dalla violazione del segreto professionale da parte di un non identificato funzionario dell’Ufficio delle imposte, per avere pubblicato, in occasione di un’agitazione sindacale all’interno di un’azienda automobilistica di rilievo nazionale (causata, tra l’altro, dal rifiuto del suo Presidente e della direzione di concedere aumenti salariali agli operai), i predetti documenti coperti dal segreto fiscale, dai quali erano risultati desumibili i plurimi aumenti salariali percepiti dal predetto Presidente nel triennio antecedente, avevano lamentato che la condanna riportata avrebbe violato la loro liberta’ di espressione, garantita dall’articolo 10 Conv. EDU.
5.3.3. In quella occasione, la Grande Chambre ha preliminarmente ribadito, sulla scia dei propri precedenti, che:
– la liberta’ di espressione costituisce uno dei cardini essenziali di una societa’ democratica ed una delle condizioni primarie del suo progresso e dello sviluppo di ciascuno, e “copre” anche le “informazioni” e le “idee” che possano offendere, ferire o turbare qualcuno, perche’ cosi’ esigono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non vi e’ una “societa’ democratica”;
– la stampa ha una funzione rilevante in una societa’ democratica: benche’ non debba travalicare alcuni limiti, in particolare relativamente alla protezione della reputazione e dei diritti altrui, nonche’ alla necessita’ d’impedire la divulgazione di informazioni riservate, le compete nondimeno il compito di comunicare, nel rispetto dei propri doveri e responsabilita’, informazioni ed idee su tutti i temi d’interesse generale;
– alle autorita’ nazionali puo’ essere attribuito il potere di valutare se ragioni di “prevalente necessita’ sociale” legittimino restrizioni all’esercizio della liberta’ di espressione, ma, “di regola”, la “necessita’” d’imporre restrizioni all’esercizio della liberta’ di espressione deve essere provata in modo convincente: tuttavia, il predetto potere si pone in conflitto con l’interesse della societa’ democratica ad assicurare e mantenere integra la liberta’ di stampa e, per tale ragione, quando si tratti di valutare se le restrizioni imposte dalle autorita’ siano proporzionali rispetto allo scopo perseguito, e’ opportuno conferire alla liberta’ di stampa grande rilevanza.
Trattasi di affermazioni di principio non sempre delineate con tratti netti, talora anche paradossali (se solo “di regola”, la “necessita’” di imporre restrizioni all’esercizio della liberta’ di espressione deve essere provata “in modo convincente”, si ammette implicitamente che ci siano casi – non indicati, e la cui individuazione e’ quindi rimessa all’interprete – in cui le suddette restrizioni possono risultare legittime pur se motivate in modo non convincente, il che sembrerebbe legittimare l’elusione della garanzia convenzionale de qua), ma dalle quali e’ comunque desumibile con certezza che, nel bilanciamento tra i valori in conflitto, alla liberta’ di stampa va sempre riconosciuto un rango apicale, naturalmente a patto che le informazioni divulgate:
– corrispondano al vero;
– riguardino temi d’interesse generale;
– non si concretizzino unicamente in attacchi personali.
5.3.4. Con specifico riferimento alla vicenda esaminata, la Grande Chambre ha osservato che la pubblicazione dell’articolo che divulgava l’informazione in contestazione, pur illegittimamente acquisita, “apportava un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale; il suo scopo non era di arrecare pregiudizio alla reputazione del signor (OMISSIS), ma, piu’ ampiamente, di dibattere una questione di attualita’ che interessava la collettivita’”; doveva, inoltre, considerarsi che “alla funzione della stampa, che consiste nel diffondere informazioni e idee su temi di interesse pubblico, si aggiunge il diritto per la collettivita’ di riceverle”, e, nel caso esaminato, i problemi dell’occupazione e della remunerazione suscitano tradizionalmente notevole interesse nella collettivita’.
5.3.4.1. Quanto alla provenienza illegittima dei documenti dai quali erano state desunte le informazione pubblicate (della quale entrambi i giornalisti francesi erano certamente consapevoli), la Grande Chambre ha osservato che, in linea di principio, la garanzia di cui all’articolo 10 Conv. EDU non puo’ esonerare i giornalisti dall’obbligo di rispettare le leggi penali di diritto comune, considerato anche che lo stesso articolo 10 cit., nel § 2, legittima l’imposizione di limiti all’esercizio della liberta’ di espressione.
Tuttavia, quando il giornalista si sia procurato le notizie d’interesse pubblico divulgate attraverso la commissione di una ricettazione (la Grande Chambre parla di “origine opinabile dei documenti”), occorre accertare se, nelle particolari circostanze del caso, l’interesse d’informare la collettivita’ prevalesse sui “doveri e responsabilita’” che gravano sui giornalisti.
5.3.4.2. Nel caso esaminato, chiamata a verificare se l’obiettivo della salvaguardia del segreto fiscale – di per se’ legittimo – offrisse una giustificazione pertinente e sufficiente alla limitazione della liberta’ di stampa, la Grande Chambre ha ritenuto che non sussistesse l’interesse a mantenere segrete le informazioni de quibus, le quali, pur non essendo divulgabili, erano comunque accessibili a singoli contribuenti del medesimo comune di residenza dell’interessato (i quali potevano a loro volta comunicarle a terzi, e cosi’ via), attraverso la consultazione dell’elenco comunale dei soggetti d’imposta, che contiene l’indicazione, per ciascun contribuente, del reddito imponibile e dell’ammontare dell’imposta; d’altro canto, uno dei ricorrenti si era difeso affermando anche che i dati in ipotesi illegittimamente divulgati erano correntemente pubblicati sulle riviste specializzate del settore finanziario, e su cio’ non erano state mosse contestazioni.
Per tali ragioni, “benche’ la pubblicazione delle denunzie dei redditi fosse proibita nella fattispecie, le informazioni che contenevano non erano piu’ segrete”, e, conseguentemente, “la protezione delle informazioni in quanto riservate non costituiva una necessita’ preponderante”.
Non essendo state messe in discussione ne’ la materialita’ dei fatti riferiti, ne’ le buona fede dei giornalisti nel riferirle, e non avendo la pubblicazione delle informazioni intenti meramente diffamatori, ma riguardando anzi vicende di rilevante interesse pubblico che si innestavano all’interno di un dibattito sociale in corso, si e’ conclusivamente ritenuto che la condanna dei due giornalisti non costituisse un mezzo ragionevolmente proporzionato al perseguimento degli scopi legittimi avuti di mira attraverso le restrizioni indirettamente imposte (attraverso il divieto di pubblicazione di documenti ricettati) alla liberta’ di stampa nel caso di specie, “tenuto conto dell’interesse della societa’ democratica ad assicurare e mantenere la liberta’ della stampa”, e che vi era stata, quindi, violazione dell’articolo 10 Conv. EDU.
5.3.5. In seguito, la Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 10 dicembre 2007, caso Stoll c. Svizzera, ha precisato che le limitazioni previste dalla legge alla liberta’ di espressione, ai sensi dell’articolo 10 Conv. EDU, possono essere opposte per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali, sia da parte di chi le ha ricevute direttamente, sia da parte della stampa, e che la divulgazione da parte della stampa di un documento segreto non e’ illecita in se’, ma solo quando essa possa apportare un considerevole pregiudizio agli interessi nazionali (in applicazione del principio, la Grande Chambre, capovolgendo la sentenza della Chambre semplice del 25 aprile 2006, ha ritenuto illegittima la divulgazione delle notizie delle quali in quella occasione si discuteva, perche’ potenzialmente in grado di compromettere seriamente un negoziato diplomatico in corso).
5.4. Per quanto riguarda l’efficacia nel diritto interno delle norme della Convenzione EDU (con i Protocolli addizionali), e delle decisioni della Corte EDU, la giurisprudenza costituzionale, nel sottolineare la differenza tra le norme della Convenzione EDU e quelle dell’Unione Europea (o, in passato, comunitarie), ha evidenziato che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, “sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudizi nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto” (Corte Cost., n. 348 del 2007).
Ne consegue che la disapplicazione della disposizione di legge interna da parte del giudice che reputasse una determinata disciplina non conforme alle previsioni della Convenzione EDU, sarebbe illegittima, perche’ in contrasto con la stessa Costituzione.
Alle norme della predetta Convenzione deve, invece, assegnarsi il rango di “fonti interposte”, destinate ad integrare il parametro di cui all’articolo 117 Cost., il cui comma 1 impone al legislatore, nazionale e regionale, di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Proprio perche’ si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, e’ necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi: “le norme della Convenzione EDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte Europea; la verifica di compatibilita’ costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in se’ e per se’ considerata. Si deve pertanto escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalita’ delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali (imposto dall’articolo 117 Cost., comma 1) e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione” (Corte Cost., n. 348 del 2007 e n. 349 del 2007, cc.dd. “sentenze gemelle”).
Pertanto, in materia di rapporti tra l’articolo 117 Cost., comma 1 e le norme della Convenzione EDU, tenuto conto della ricostruzione ermeneutica della Corte EDU e della giurisprudenza costituzionale, ormai consolidata (cfr., da ultimo, Corte Cost., n. 303 del 2011 e n. 264 del 2012), deve conclusivamente ritenersi che, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della Convenzione EDU non possa essere risolto in via interpretativa, deve escludersi che possa essere direttamente applicata la norma convenzionale interposta “obliterando il contrario disposto di una norma interna” (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, in motivazione; conforme, in precedenza, Sez. U, n. 34472 del 19/04/2012, Ercolano, Rv. 252934, e n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, in motivazione: in questo caso, dovra’ essere sollevato l’incidente di costituzionalita’, e la Corte costituzionale dovra’ accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte Europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano, perche’ “il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla Convenzione EDU e’ subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiche’ tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione EDU. Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, e’ fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia percio’ tenuto a sollevare questione di legittimita’ costituzionale della legge di adattamento” (Corte Cost., n. 49 del 2015).
La Corte costituzionale, se non puo’ prescindere dall’interpretazione data delle disposizioni della Convenzione EDU dalla Corte di Strasburgo (ai sensi dell’articolo 32, § 1, della Convenzione, infatti, la competenza della predetta Corte “si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa”), puo’, nondimeno, a sua volta interpretare la Convenzione, purche’ nel rispetto sostanziale della giurisprudenza Europea formatasi al riguardo, ma “con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarita’ dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale e’ destinata a inserirsi” (sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011).
In sintesi, al Giudice delle leggi spettano, in materia, i seguenti poteri:
(a) “verificare se la norma della Convenzione EDU, nell’interpretazione data dalla Corte Europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione” (sentenza n. 311/09), ” ipotesi nella quale dovra’ essere esclusa la idoneita’ della norma convenzionale a integrare il parametro considerato” (sentenza n. 113 del 2011)…;
(b)… ovvero “valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte Europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. Infatti, la norma CEDU – nel momento in cui va ad integrare l’articolo 117 Cost., omma 1, – da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto cio’ che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte e’ chiamata in tutti i giudizi di sua competenza” (sentenza n. 317 del 20/09).
5.4.1. Altro problema e’ quello degli effetti delle sentenze della Corte EDU nell’ordinamento interno.
L’articolo 46 Convenzione EDU impegna, nel § 1, gli Stati contraenti “a conformarsi alle sentenze definitive della Corte (Europea dei diritti dell’uomo) sulle controversie di cui sono parti”; soggiungendo, nel § 2, che “la sentenza definitiva della Corte e’ trasmessa al Comitato dei ministri che ne controlla l’esecuzione”.
Puo’ ritenersi consolidata, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’affermazione che “quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico, non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie” (tra le tante, Corte EDU, Grande Chambre, 17 settembre 2009, caso Scoppola c. Italia, § 147 ss.; 1 marzo 2006, caso Sejdovic c. Italia, § 119; 8 aprile 2004, caso Assanidze’ c. Georgia, § 198).
La Corte costituzionale (sentenza n. 113 del 2011) ha, in proposito, osservato che “la finalita’ delle misure individuali che lo Stato convenuto e’ tenuto a porre in essere e’, per altro verso, puntualmente individuata dalla Corte Europea nella restitutio in integrum in favore dell’interessato. Dette misure devono porre, cioe’, “il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza della Convenzione”. In quest’ottica, lo Stato convenuto e’ chiamato anche a rimuovere gli impedimenti che, a livello di legislazione nazionale, si frappongano al conseguimento dell’obiettivo: “ratificando la Convenzione”, difatti, “gli Stati contraenti si impegnano a far si’ che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima” e, dunque, anche ad “eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato ripristino della situazione del ricorrente” (…). Con particolare riguardo alle infrazioni correlate allo svolgimento di un processo, e di un processo penale in specie, la Corte di Strasburgo, muovendo dalle ricordate premesse, ha identificato nella riapertura del processo il meccanismo piu’ consono ai fini della restitutio in integrum, segnatamente nei casi di accertata violazione delle garanzie stabilite dall’articolo 6 Convenzione. (…) I Giudici di Strasburgo hanno affermato, in specie (…) – con giurisprudenza ormai costante – che, quando un privato e’ stato condannato all’esito di un procedimento inficiato da inosservanze dell’articolo 6 Convenzione, il mezzo piu’ appropriato per porre rimedio alla violazione constatata e’ rappresentato, in linea di principio, “da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento, su domanda dell’interessato””, nel rispetto di tutte le condizioni di un processo equo (…). Cio’, pur dovendosi riconoscere allo Stato convenuto una discrezionalita’ nella scelta delle modalita’ di adempimento del proprio obbligo, sotto il controllo del Comitato dei ministri e nei limiti della compatibilita’ con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte”.
La lacuna in proposito esistente nell’ordinamento italiano e’ stata, alfine (ponendo termine alle numerose incertezze derivanti dal pur lodevole tentativo della giurisprudenza di legittimita’ di porvi rimedio, ma in difetto di un sicuro riferimento normativo), colmata dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 113 del 2011) che ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 630 c.p.p.” nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando cio’ sia necessario, ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell’uomo”.
E la Corte di cassazione (Sez. U, n. 34472 del 2012 cit.) ha anche ritenuto che “le decisioni della Corte EDU che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto – non correlata in via esclusiva al caso esaminato – della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU, assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale e’ intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale”.
A prescindere dalla tematica (in questa sede non rilevante) dell’efficacia delle cc.dd. sentenze-pilota (il nuovo testo dell’articolo 61 Regolamento della Corte EDU, introdotto il 1 aprile 2011 prevede in modo formale la possibilita’ – in precedenza gia’ ritenuta dalla giurisprudenza della Corte EDU, ma in difetto di una base legale – per la medesima Corte di avviare la relativa procedura in tutti i casi nei quali ci si trovi in presenza di ricorsi ripetitivi, scaturenti da un problema strutturale o sistematico dell’ordinamento interno del singolo Stato convenuto, per incompatibilita’ con i principi della Convenzione, che lo Stato puo’ risolvere adottando misure ad hoc, e di esaminare soltanto uno o piu’ ricorsi seriali, rinviando l’esame di casi omogenei), la giurisprudenza sembra allo stato ferma nel ritenere che, data la natura eminentemente casistica delle sentenze della Corte EDU, “che per di piu’ si riferiscono a una pluralita’ di ordinamenti, il vincolo per il giudice nazionale sussiste esclusivamente con riguardo a un orientamento convenzionale “consolidato” ovvero a una decisione “pilota” in senso stretto, la quale, cioe’, con riferimento a un determinato ordinamento nazionale, ne evidenzi lacune o contrasti strutturali con la Convenzione EDU” (Sez. U, n. 27620 del 2016 cit.; Corte Cost., n. 49 del 2015 cit.).
Tuttavia, la possibilita’ di limitare l’efficacia delle sentenze della Corte EDU (a prescindere da quelle “pilota”, sempre vincolanti) ai soli “orientamenti consolidati” e’ stata decisamente smentita dalla Corte EDU, Grande Chambre, 28 giugno 2018, casi G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia (§ 252: “the Court would emphasise that its judgments all have the same legal value. Their binding nature and interpretative authority cannot be therefore depend on the formation by which the were rendered”), chiara nell’evidenziare che non esistono suoi orientamenti “consolidati” o “non consolidati”, perche’ le decisioni della Corte EDU hanno tutte lo stesso valore giuridico, la stessa efficacia vincolante e la stessa “autorita’ interpretativa”, a prescindere dal fatto che siano emesse dalla Grande Chambre o da sezioni semplici.
Naturalmente, in forza del gia’ richiamato articolo 32, § 1, Conv. EDU, cio’ vale soltanto con riguardo all’interpretazione delle norme convenzionali, non anche quanto all’interpretazione di quelle norme interne.
Deve, per completezza, rilevarsi che, nonostante questo inequivocabile monito, il riferimento all’efficacia vincolante delle sole sentenze della Corte EDU espressive di “orientamenti consolidati” e’ riemerso anche nella piu’ recente giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte Cost., sentenza n. 25 del 2019).
5.4.2. Riepilogando l’attuale assetto dei rapporti tra norme penali interne, diritto dell’Unione Europea e norme della Convenzione EDU, puo’ in sintesi dirsi che:
– il diritto dell’Unione Europea (nell’interpretazione – sempre vincolante – fornitane dalla Corte di Giustizia UE: la norma Europea puo’ essere autonomamente interpretata dai giudici interni solo in difetto di una interpretazione della CGUE), escludendo eventuali nuove incriminazioni, trova diretta applicazione nel diritto interno, previa disapplicazione, se del caso, della norma interna difforme da parte del giudice, e con efficacia limitata alla decisione assunta in concreto, e comunque il giudice, a prescindere dai casi di disapplicazione della norma interna difforme, ha comunque l’obbligo di interpretazione conforme della norma interna a quella Europea;
– le norme della Convenzione EDU e dei Protocolli addizionali (nell’interpretazione sempre vincolante – fornitane dalla Corte EDU: la norma convenzionale puo’ essere autonomamente interpretata dai giudici interni solo in difetto di una interpretazione della Corte EDU), ove risulti impossibile un’interpretazione conforme della norma interna, non trovano diretta applicazione nel diritto interno, ma possono unicamente legittimare il giudice a sollevare un incidente di legittimita’ costituzionale della norma interna in contrasto con quella convenzionale, in relazione al combinato disposto dell’articolo 117 Cost. e della norma convenzionale che di volta in volta si assuma violata;
– ai sensi dell’articolo 52 CDFUE, § 3, infine, andra’ in via mediata riconosciuta l’efficacia diretta delle disposizioni della Convenzione EDU (cosi’ come interpretate dalla Corte EDU) corrispondenti a disposizioni della CDFUE, quando si versi nell’ambito di applicazione del diritto UE.
Come incisivamente ricordato, di recente, dalla dottrina, il giudice nazionale, una volta accertato che una data norma Europea e’ potenzialmente rilevante per la decisione di un caso concreto, dovra’ in primo luogo chiedersi se essa sia direttamente applicabile e possa comportare la disapplicazione delle norme interne contrastanti; in secondo luogo, esclusa la diretta applicazione della norma in questione, dovra’ verificare se sia esperibile un’interpretazione delle norme interne in modo da evitare un risultato applicativo in contrasto con la norma Europea (c.d. obbligo di interpretazione conforme al diritto Europeo); infine, nel caso in cui nemmeno tale interpretazione conforme sia praticabile, e la norma interna da applicare risulti irrimediabilmente incompatibile con la norma Europea, dovra’ sollevare questione di legittimita’ costituzionale della norma interna per contrasto con l’articolo 117 Cost., comma 1, e – se del caso – articolo 11 Cost.
Come e’ evidente, “l’interpretazione conforme e’ operazione sussidiaria rispetto alla diretta applicazione della norma Europea, ma ha per converso la precedenza logica rispetto alla formulazione di una questione di legittimita’ costituzionale, la cui stessa ammissibilita’ e’ condizionata al previo (e infruttuoso) esperimento di un tentativo di interpretazione conforme della norma interna impugnata”.
5.5. Ai sensi dell’articolo 51 c.p., comma 1, prima parte, “l’esercizio di un diritto… esclude la punibilita’”.
La ratio dell’istituto viene generalmente identificata nel principio di non contraddizione: se l’ordinamento riconosce ad un soggetto la possibilita’ di esercitare un diritto, non puo’ al tempo stesso sanzionarne l’esercizio (qui iure suo utitur neminem laedit).
Il diritto “scriminante” puo’ essere attribuito da una qualsiasi fonte dotata di efficacia normativa (assoluta, ovvero anche soltanto inter partes) che attribuisca il potere di agire; il suo esercizio scrimina soltanto quando il diritto e’ esercitato dal suo titolare (ovvero, ove si tratti di diritti non personali, dal rappresentante del titolare), e nei limiti entro i quali esso puo’ ritenersi legittimo, “essendo necessario che l’attivita’ posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facolta’ inerenti al diritto in questione” (Sez. U, n. 32009 del 27/06/2006, n.m. sul punto).
L’esercizio scriminante del diritto incontra, infatti, limiti che vanno desunti dalla sua stessa fonte, oltre che dall’intero ordinamento: quando tali limiti sono superati, sono configurabili ipotesi di abuso del diritto, ed il comportamento dell’agente esula dall’ambito consentito dall’articolo 51 c.p..
Le fonti dell’UE (come premesso, ontologicamente distinte dalla Convenzione EDU) potrebbero prevedere, con efficacia immediatamente vincolante per il giudice interno, nuove cause di giustificazione, attribuendo diritti il cui esercizio potrebbe scriminare l’agente ex articolo 51 c.p.: questo caso e’ stato discusso, in giurisprudenza di merito, da Pret. Lodi 17 maggio 1984, che ha ritenuto non punibile lo straniero comunitario, accusato di esercizio abusivo della professione veterinaria ex articolo 348 c.p. – cui era abilitato unicamente nello Stato di appartenenza – in applicazione (all’epoca) dell’articolo 52 Trattato CE, comma 2 e articolo 57 Trattato CE, che riconoscono il diritto di stabilimento.
Peraltro, l’ordinamento statale non si apre incondizionatamente alla normazione sovranazionale, giacche’ in ogni caso vige il limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno e dei diritti inalienabili della persona umana (ad es., il diritto alla salute, tutelato dall’articolo 32 Cost.), con conseguente sindacabilita’, sotto tale profilo, della legge di esecuzione del Trattato (Corte Cost., n. 232/89).
5.6. Sulla base delle considerazioni che precedono, ritiene il collegio che la causa di giustificazione di cui all’articolo 51 c.p., sub specie di esercizio del diritto di cronaca, sia compatibile con il delitto di ricettazione.
5.6.1. Deve premettersi che, nel caso in esame, non si pone il problema di valutare l’introduzione nell’ordinamento interno di una causa di giustificazione di origine sovranazionale, quanto quello di valutare i limiti intrinseci ed estrinseci della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, gia’ prevista dall’ordinamento, alla luce dell’interpretazione che la Corte EDU da’ della garanzia di cui all’articolo 10 Conv. EDU.
5.6.2. Cio’ premesso, per quanto riguarda i primi limiti, ad avviso del collegio, l’articolo 10 Conv. EDU, come univocamente interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU a partire dalla citata sentenza emessa dalla Grande Chambre il 21 gennaio 1999 nel caso (OMISSIS) et (OMISSIS) c. Francia, impone oggi d’interpretare l’articolo 51 c.p., comma 1, prima parte, nel senso che la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca puo’ essere configurata non soltanto in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche in relazione ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima.
5.6.2.1. Risulta, invero, senz’altro esperibile un’interpretazione delle norme interne, ed in particolare dell’articolo 51 c.p., comma 1, prima parte, che eviti un risultato applicativo (nel caso di specie, l’inapplicabilita’ della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca a reati diversi da quelli commessi attraverso la pubblicazione dell’articolo) in contrasto con l’articolo 10 Conv. EDU, come interpretato dalla Corte EDU, in ossequio al menzionato obbligo di interpretazione conforme delle norme interne al diritto Europeo.
5.6.2.2. Tale interpretazione non si pone neppure astrattamente in contrasto con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione, ed anzi appare maggiormente in sintonia con la garanzia di cui all’articolo 21 Cost. (liberta’ di manifestazione del pensiero); in proposito, puo’, infatti, ritenersi tradizionalmente consolidato l’orientamento della Corte costituzionale (sentenze n. 94 del 1977, n. 225 del 1974, n. 105 del 1972), risalente ma mai messo in discussione, secondo il quale non puo’ dubitarsi che sussista, e sia implicitamente tutelato dall’articolo 21 Cost., un interesse generale della collettivita’ all’informazione, di tal che i grandi mezzi di diffusione del “pensiero” (nella sua piu’ lata accezione, comprensiva delle “notizie”) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse.
5.6.3. Residua, peraltro, la valutazione della violazione o meno degli eventuali limiti estrinseci.
5.6.3.1. L’articolo 10, § 2, della Convenzione EDU legittima l’imposizione di limiti alla liberta’ di stampa soltanto se finalizzati a tutelare la sicurezza nazionale, l’integrita’ territoriale, la pubblica sicurezza, a prevenire la commissione di reati, a proteggere la salute e la morale pubblica, la reputazione o i diritti dei terzi, ad impedire la divulgazione di informazioni riservate, a garantire l’autorita’ e l’imparzialita’ del potere giudiziario.
Tenuto conto delle peculiarita’ del caso concreto, e dell’interpretazione che la Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 10 dicembre 2007, caso Stoll c. Svizzera, ha fornito del riferimento convenzionale alla divulgazione di notizie riservate o confidenziali, le uniche possibili ragioni giustificative della compressione del diritto di cronaca potrebbero risiedere nella tutela della reputazione dei titolari di (OMISSIS), peraltro in ipotesi offuscata non da comportamenti pur sempre giuridicamente leciti (come nel caso (OMISSIS) et (OMISSIS)), bensi’ dall’accertamento del fatto che essi avessero a loro volta commissionato intercettazioni illecite per controllare l’operato dei propri dipendenti, in violazione delle piu’ elementari garanzie sindacali.
5.6.3.2. In particolare, ferme restando:
– la consapevolezza che gli odierni ricorrenti avevano della provenienza illecita delle notizie pubblicate;
– la corrispondenza al vero delle notizie pubblicate, ai fini della configurabilita’ in concreto della causa di giustificazione de qua occorrera’ valutare:
– se la pubblicazione degli articoli in contestazione apportasse un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale (quello della tutela dei diritti dei lavoratori in relazione ai controlli occulti) oppure avesse unicamente lo scopo di arrecare pregiudizio a (OMISSIS), concorrente commerciale di (OMISSIS) e quindi del (OMISSIS);
– se, essendosi gli odierni ricorrenti procurati le notizie d’interesse pubblico divulgate attraverso la commissione di una ricettazione, nelle particolari circostanze del caso concreto l’interesse d’informare la collettivita’ prevalesse sui “doveri e responsabilita’” che gravano sui giornalisti;
– se, ai predetti fini, possa assumere rilievo la procurata intromissione di un terzo (il defunto (OMISSIS)).
5.6.4. Trattasi di valutazioni di natura squisitamente fattuale, di necessita’ rimesse al sindacato del giudice del merito, ma alle quali non ha compiutamente provveduto la Corte di appello, e non puo’ provvedere ex novo il giudice della legittimita’.
5.7. La predetta statuizione assorbe – allo stato – la doglianza formulata in via gradata (la valorizzazione della specifica finalita’ della condotta dei due giornalisti avrebbe dovuto comunque indurre la Corte d’appello a qualificare il fatto accertato ex articolo 648 c.p., comma 2, oppure almeno ad una riduzione della pena irroganda).
6. Il sesto motivo e’ fondato.
6.1. Deve premettersi che le doglianze proposte nell’interesse dei ricorrenti con i due ricorsi presentati contro la sentenza impugnata (che ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati in ordine al reato di calunnia di cui al capo C), perche’ estinto per prescrizione, con conferma delle relative statuizioni civili) riguardano, a parere del collegio, le sole statuizioni civili, e non anche la statuizione valida agli effetti penali, ovvero la declaratoria di estinzione per prescrizione del predetto reato.
6.1.1. A cio’ inducono, a parere del collegio, pur in presenza di un coacervo di argomentazioni di portata – quanto all’oggetto di doglianza – non sempre univoca, i seguenti elementi, gli unici che risulta possibile individuare con certezza:
– le intitolazioni del V motivo sia del ricorso (OMISSIS) che del ricorso congiunto (OMISSIS)/ (OMISSIS), che richiamano, nei medesimi termini, unicamente la “ritenuta responsabilita’ degli imputati per il delitto di calunnia” e poi la “ritenuta sussistenza del delitto di calunnia in capo al ricorrente sotto il profilo materiale e soggettivo”: tale decisione, ovvero l’affermazione di responsabilita’ dell’imputato/la ritenuta sussistenza del delitto di calunnia, e’ stata, invero, assunta dalla Corte di appello ai soli effetti civili, poiche’ la Corte di appello, agli effetti penali, si e’ limitata ad affermare l’impossibilita’ di addivenire ad un piu’ favorevole proscioglimento degli imputati per ragioni di merito;
– le preliminari richieste articolate nell’incipit del V motivo sia del ricorso (OMISSIS) che del ricorso congiunto (OMISSIS))/ (OMISSIS) (“la sentenza impugnata deve essere riformata anche nella parte in cui ha ritenuto il ricorrente/i ricorrenti responsabile/i del delitto di calunnia, dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, con conseguente conferma dei capi civili, deliberati dal GUP”), per la medesima ragione, ovvero perche’ l’affermazione di responsabilita’ dell’imputato e’ stata pronunciata dalla Corte di appello ai soli effetti civili;
– l’insistito riferimento, nel corpo delle argomentazioni proposte a sostegno del V motivo sia del ricorso (OMISSIS) che del ricorso congiunto (OMISSIS))/ (OMISSIS), alla disciplina dettata dall’articolo 578 c.p.p. (f. 34 s. e 37 s. del ricorso (OMISSIS) e f. 35 del ricorso congiunto), di per se’ irrilevante agli effetti penali.
6.1.2. Tali indiscutibili indicazioni consentono di ritenere non decisivi alcuni fugaci riferimenti all’articolo 129 c.p.p., pure esistenti all’interno del V motivo di entrambi i ricorsi de quibus, ma estremamente generici quanto all’eventuale petitum, a confronto della specificita’ con la quale i predetti motivi contestano, in piu’ punti – come in precedenza illustrato -, l’intervenuta affermazione di responsabilita’, tale potendo essere considerata, formalmente, lo si ripete, soltanto quella intervenuta agli effetti civili.
6.2. Cio’ premesso, i ricorrenti lamentano violazione dell’articolo 578 c.p.p. nonche’ plurimi vizi di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilita’ degli imputati, agli effetti civili, in ordine al delitto di calunnia di cui al capo C): la Corte di appello si sarebbe, in concreto, limitata a brevi rilievi riepilogativi delle argomentazioni del primo giudice, evidenziando agli effetti penali le ragioni del mancato proscioglimento con formula ampia, senza esaminare compiutamente i plurimi motivi di gravame, cui doveva comunque essere data compiuta risposta per legittimare la concorrente affermazione di responsabilita’ agli effetti civili; in particolare, mancherebbe del tutto la disamina riguardante in necessario dolo di calunnia, in riferimento alla necessaria consapevolezza che i due giornalisti dovevano avere della contestata falsita’, essendosi la Corte di appello limitata a valorizzare il mero dato oggettivo – ma inerente soltanto alla materialita’ del reato, non anche all’elemento psicologico – della sussistenza della contestata falsita’.
6.3. Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273 ss.) hanno esaminato il problema dell’ambito del sindacato, in sede di legittimita’, sui vizi della motivazione, in presenza di cause di estinzione del reato, del quale avevano gia’ avuto modo di occuparsi in passato (avevano, infatti, gia’ affermato che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimita’ i vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto l’inevitabile rinvio della causa al giudice di merito dopo la pronunzia di annullamento risulterebbe comunque incompatibile con l’obbligo della immediata declaratoria di proscioglimento per intervenuta estinzione del reato: Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Marino ed altri, Rv. 192471).
In linea con l’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza intervenuta successivamente sulla questione, il principio e’ stato ribadito (sostanzialmente nei medesimi termini, come e’ confermato dalle quasi speculari massime estratte dalle due citate decisioni delle Sezioni Unite) anche dalla sentenza Tettamanti, a parere della quale la Corte di cassazione, ove rilevi la sussistenza di una causa di estinzione del reato, non puo’ rilevare eventuali vizi di legittimita’ della motivazione della decisione impugnata, poiche’ nel corso del successivo giudizio di rinvio il giudice sarebbe comunque obbligato a rilevare immediatamente la sussistenza della predetta cause di estinzione del reato, ed alla conseguente declaratoria.
Esso opera anche in presenza di mere cause di nullita’ di ordine generale, assolute ed insanabili, identica essendo la ratio, fondata sull’incompatibilita’ del rinvio per nuovo giudizio di merito con li principio dell’immediata applicabilita’ della causa estintiva.
A conclusioni diverse deve giungersi soltanto nel caso in cui l’operativita’ della causa di estinzione del reato presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, nel qual caso assumerebbe rilievo pregiudiziale la nullita’, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio.
La stessa sentenza Tettamanti ha infine, chiarito che, “all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorieta’ o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilita’, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l’impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell’articolo 530 c.p.p., comma 2” (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Rv. 244273 – 01).
Il principio e’ stato successivamente ribadito, piu’ o meno nei medesimi termini, da:
– Sez. VI, n. 23594 del 19/03/2013, Rv. 256625 (secondo la quale “Nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che ha dichiarato la prescrizione del reato, non sono rilevabili ne’ nullita’ di ordine generale, ne’ vizi di motivazione della decisione impugnata, anche se questa abbia pronunciato condanna agli effetti civili, qualora il ricorso non contenga alcun riferimento ai capi concernenti gli interessi civili”);
– Sez. 2, n. 38049 del 18/07/2014, Rv. 260586 – 01 (massimata nei medesimi termini della citata decisione delle Sezioni Unite);
– Sez. 4, n. 20568 del 11/04/2018, Rv. 273259 – 01 (per la quale, in particolare, “all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilita’, salvo il caso in cui il giudice, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, sia chiamato a valutare, ai sensi dell’articolo 578 c.p.p. il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, senza limitarsi al criterio di economia processuale ex articolo 129 c.p.p.”), e n. 53354 del 21/11/2018, Rv. 274497 – 01 (per la quale, in particolare, “all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorieta’ o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilita’, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l’impugnazione del pubblico ministero proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell’articolo 530 c.p.p., comma 2”), e merita senz’altro di essere condiviso ed ulteriormente ribadito.
6.4. Cio’ premesso, nel caso in esame la Corte di appello, nonostante il fatto che la conferma delle statuizioni civili disposte dal Tribunale comportasse una affermazione di responsabilita’ “piena” agli effetti civili, ha limitato la propria disamina delle doglianze formulate dagli appellanti sul punto alla considerazione che gli elementi acquisiti e gia’ valorizzati dal primo giudice, riportati a f. 11 ss. della sentenza impugnata, dimostrano che l’articolo pubblicato sul quotidiano (OMISSIS) in data (OMISSIS) “contiene un evidente documento “falso” (falsita’ “ideologica”)”, la pubblicazione delle cui risultanze senza adeguata verifica di veridicita’ avrebbe esposto la parte civile (OMISSIS) ad una accusa calunniosa.
6.4.1. Peraltro i due giornalisti non avevano in concreto contestato la materialita’ del fatto contestato (che pure aveva costituito l’unico profilo esaminato dalla Corte di appello), ma avevano protestato con forza la propria inconsapevolezza (argomentata attraverso plurimi riferimenti fattuali che appare inutile riportare) circa la falsita’ del predetto documento, e tale circostanza avrebbe potuto in astratto assumere rilievo ai fini del diverso punto della decisione riguardante la configurazione del dolo di calunnia, pure necessaria onde legittimare le statuizioni pronunciate agli effetti civili.
Ciononostante, le relative doglianze sono rimaste senza risposta.
7. I rilievi che precedono assorbono ogni diversa doglianza o prospettazione dei coimputati e delle parti civili.
8. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata:
– limitatamente al delitto di ricettazione, con riferimento alla valutazione circa la sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca;
– limitatamente alle statuizioni civili relative al delitto di calunnia, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, che si atterra’ al principio di diritto enunciato nel § 5.6.2. di queste Considerazioni di diritto, provvedendo alle valutazioni fattuali indicate nei §§ seguenti, e colmera’ il deficit motivazionale evidenziato nel § 6.4.1. di esse.
8.1. Il rinvio va disposto al giudice penale, riguardando (nell’ambito del simultaneus processus) anche un capo penale della sentenza impugnata (quello riguardante l’affermazione di responsabilita’ in ordine al reato di ricettazione).
8.1.1. In proposito, questa Corte (Sez. 5, n. 10097 del 15/01/2015, Rv. 262633 – 01), con orientamento che il collegio condivide e ribadisce, ha gia’ chiarito che, nel caso di annullamento di una sentenza sia agli effetti penali sia agli effetti civili, il rinvio deve essere disposto unitariamente davanti al giudice penale, posto che il rinvio al giudice civile, di cui alla seconda parte dell’articolo 622 c.p.p., e’ limitato alla sola ipotesi di accoglimento del ricorso della parte civile proposto ai soli effetti civili e di contestuale mancata presentazione o rigetto di ricorsi rilevanti agli effetti penali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al delitto di ricettazione, con riferimento alla valutazione circa la sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, nonche’ limitatamente alle statuizioni civili relative al delitto di calunnia, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo giudizio.
Rigetta nel resto i ricorsi.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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