Un intervento di demolizione e successiva ricostruzione

Consiglio di Stato, sezione seconda, Sentenza 20 maggio 2019, n. 3208.

La massima estrapolata:

Un intervento di demolizione e successiva ricostruzione può essere qualificato come di ristrutturazione edilizia solo laddove vi sia una certa continuità tra la nuova opera e quella precedente alla demolizione. Il criterio discretivo tra l’intervento di “demolizione e ricostruzione” e la “nuova costruzione” è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a “nuova costruzione”, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzioné si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi 

Sentenza 20 maggio 2019, n. 3208

Data udienza 9 aprile 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8165 del 2009, proposto dal signor Lu. Di Na., rappresentato e difeso dagli avvocati Di. Va. ed Er. Ro., elettivamente domiciliato presso lo studio del primo in Roma, (…),
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco in carica pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ma. e Pa. Be., elettivamente domiciliato presso lo studio del primo in Roma, via (…),
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano, Sezione II, n. 3939 del 9 giugno 2009, resa inter partes, concernente diniego di condono edilizio e conseguente ordinanza di ingiunzione alla demolizione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 aprile 2019 il consigliere Giovanni Sabbato e uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati M. Po., su delega dell’avv. Va., e A. Ma.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso n. 1880 del 2007, integrato da motivi aggiunti, proposto innanzi al T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano, il signor Lu. Di Na. aveva chiesto l’annullamento dei seguenti atti:
a) il diniego di condono edilizio di cui alla comunicazione prot. 33360/2007 del 30 maggio 2007, con il quale si evidenziava che il preesistente fabbricato rurale sarebbe stato completamente demolito e che il nuovo edificio risulterebbe realizzato in posizione parzialmente ruotata e non coincidente con il preesistente fabbricato;
b) l’ordinanza di ingiunzione alla demolizione delle opere anzidette n. 018 del 10 febbraio 2009 prot. 9024/2009 (atto impugnato con motivi aggiunti).
2. A sostegno della proposta impugnativa, il signor Di Na. aveva dedotto quanto segue:
– nei riguardi del diniego della domanda di condono, avanzata in data 10 dicembre 2004:
i) l’Amministrazione non avrebbe considerato che parte del muro perimetrale del rustico era stata incorporata nella muratura del nuovo edificio tanto da integrare la fattispecie dell’ampliamento così come descritto nella domanda di condono;
ii) si sarebbe formato il silenzio assenso essendo decorsi i prescritti due anni dalla data di presentazione della documentazione integrativa della domanda di condono;
– nei riguardi dell’ordinanza di demolizione, oltre all’illegittimità derivata dalle predette censure:
iii) l’Amministrazione non avrebbe debitamente valutato le osservazioni dell’interessato a seguito dell’avviso di avvio del procedimento sanzionatorio;
iv) sarebbe stato violato l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 per avere l’Amministrazione indicato, quale oggetto dell’acquisizione al patrimonio comunale, l’intero fabbricato, l’intera area di sedime e la relativa area di pertinenza, senza considerare l’area occupata dall’edificio preesistente, che avrebbe dovuto essere decurtata da quella acquisita.
3. Costituitasi al fine di resistere l’Amministrazione comunale, il Tribunale adìto, Sezione II, ha così deciso il gravame al suo esame:
– ha respinto il ricorso ed i motivi aggiunti, reputando infondate tutte le censure articolate;
– ha condannato il ricorrente alla rifusione delle spese di lite (E. 2.000,00 oltre IVA e CPA).
4. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che:
– non ricorre la fattispecie dell’ampliamento in quanto del “rustico preesistente, demolito per intero, è stato conservato solo un muro (se non qualche mattone) incorporato nella nuova muratura, neppure riconoscibile nella sua fisicità in quanto “imbottito” (si assume) con nuovi mattoni tagliati a misura per aumentarne lo spessore”;
– “nel silenzio del Comune il titolo in sanatoria si forma solo al decorso di 24 mesi dal 31 ottobre 2005, con la conseguenza che il diniego di condono, emesso tempestivamente il 30 maggio 2007, ha precluso la formazione del titolo tacito”;
– “la confutazione delle deduzioni del ricorrente sta nella motivazione del diniego”;
– “Poiché la sanzione va commisurata all’abuso commesso, l’estensione dell’immobile da acquisire deve essere parametrata alla nuova costruzione, a prescindere dalla preesistenza”.
5. Avverso tale pronuncia il signor Di Na. ha interposto appello, notificato il 5 ottobre 2009 e depositato il 15 ottobre 2009, lamentando, attraverso quattro motivi di gravame (pagine 6 – 17) con i quali ha criticamente reiterato i motivi di primo grado, quanto di seguito sintetizzato:
I) il Tribunale non si sarebbe avveduto che – in base all’art. 10, comma 1, lettera c), del T.U. Edilizia e all’art. 27, comma 1, lettera d), della legge regionale n. 12 del 2005 – ben può esserci ampliamento con parziale demolizione dell’esistente al fine di consentire l’inserimento della parte ampliata;
II) avrebbe errato il Tribunale nel ritenere non consumato il termine di ventiquattro mesi per la formazione del silenzio assenso, in quanto decorrente dalla domanda secondo una interpretazione adeguatrice dell’art. 32, comma 37, del D.L. n. 297 del 2003;
III) avrebbe errato il Tribunale nel ricondurre la censura della mancata disamina delle osservazioni rese in sede endoprocedimentale al diniego di condono invece che al successivo ordine demolitorio;
IV) avrebbe errato il Tribunale nel non aver considerato che l’acquisizione del fabbricato e della relativa area di sedime andava decurtata della porzione di fabbricato preesistente.
6. In data 6 novembre 2009 il Comune di (omissis) si è costituito con memoria, al fine di resistere, evidenziando, inter alios, che il manufatto, oltre che rototraslato, è stato integralmente demolito.
7. In vista della trattazione nel merito del ricorso le parti hanno svolto difese scritte insistendo per le rispettive conclusioni.
8. Il ricorso, discusso alla pubblica udienza del 9 aprile 2019, non merita accoglimento.
8.1. Infondato è il primo mezzo, reiterativo del primo motivo del ricorso originario (pagina 4), in quanto le opere edilizie realizzate, contrariamente a quanto descritto nella domanda di condono, non risultano qualificabili in termini di ampliamento essendo stato interamente demolito il manufatto preesistente; di questo infatti, all’esito dei lavori, è residuato soltanto un modesto lacerto del muro perimetrale privo di consistenza architettonica e strutturale. Non si tratta quindi di una demolizione soltanto parziale, come afferma l’appellante, bensì di una demolizione che ha interessato la struttura preesistente nella sua interezza così da impedire la configurabilità dell’intervento di ampliamento descritto nella domanda di sanatoria. Né può darsi rilevanza, come assume l’appellante, al fatto che una parte dei mattoni sia stata “riciclata” ai fini della nuova edificazione attraverso il loro posizionamento all’interno dei muri perimetrali, in quanto, come correttamente osservato dal giudice di prime cure, tale preesistenza non solo non ha autonoma dignità strutturale, valendo soltanto come massa di inerti riutilizzati, ma è privo di ogni impatto estetico.
8.1.1. La rilevata integrale demolizione del manufatto, con conseguente totale discontinuità del realizzato con il preesistente, consente l’assorbimento di ogni altra deduzione afferente alla modifica dell’area di sedime.
8.1.2. L’appellante, nel motivo in esame, affida i propri rilievi ad un’ulteriore osservazione che impinge nella qualificazione giuridica dell’intervento realizzato, riconducibile, secondo le sue prospettazioni, alla fattispecie di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, laddove annovera tra gli interventi edilizi anche quelli di ristrutturazione c.d. pesante, che portano alla realizzazione di un organismo edilizio diverso dal preesistente. Tale intervento, tuttavia, anche nella sua versione cosiddetta “pesante”, è da intendere come un intervento di recupero, che nel caso di specie non si configura dal momento che, come sopra precisato, il manufatto preesistente risulta interamente demolito. A sua volta il concetto stesso di ampliamento non può prescindere dalla permanenza in situ di una parte del manufatto preesistente nella sua consistenza edilizia originaria, nel caso di specie insussistente. Infatti un intervento di demolizione e successiva ricostruzione può essere qualificato come di ristrutturazione edilizia solo laddove vi sia una certa continuità tra la nuova opera e quella precedente alla demolizione. Il criterio discretivo tra l’intervento di “demolizione e ricostruzione” e la “nuova costruzione” è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a “nuova costruzione”, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto “proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzioné si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi” per cui “la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 9 agosto 2018, n. 4880).
Nel caso di specie, tale conformità con il preesistente non sussiste e pertanto emergono i presupposti per ritenere le opere de quibus non suscettibili di sanatoria, avuto riguardo a quanto statuito dall’art. 2 della legge Regione Lombardia n. 31 del 2004, che, nell’introdurre una disciplina più restrittiva rispetto all’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003, consente la sanabilità degli “ampliamenti entro
i limiti massimi del 20 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, di 500 metri cubi”ed esclude, invece, dal condono “le opere abusive relative a nuove costruzioni, residenziali e non, qualora realizzate in assenza del titolo abilitativo edilizio e non conformi agli strumenti urbanistici generali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”. La natura dell’intervento quale opera di “nuova costruzione” invece che di ampliamento, come afferma parte appellante, comporta quindi che esso non è riconducibile all’alveo applicativo del condono come regolato dalla disciplina regionale, promulgata a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2004.
8.2. Infondato è anche il secondo mezzo, col quale si reitera la corrispondente seconda censura di primo grado (pagina 7 del ricorso introduttivo della lite) articolata avverso il diniego di condono, in ordine alla pretesa formazione del silenzio assenso per il decorso del termine biennale. Parte appellante a tal uopo valorizza la previsione di cui di cui all’art. 32, comma 37, D.L. n. 269 del 2003, secondo il quale “il pagamento degli oneri di concessione, la presentazione della documentazione di cui al comma 35, della denuncia in catasto, della denuncia ai fini dell’imposta comunale degli immobili di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nonché, ove dovute, delle denunce ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e per l’occupazione del suolo pubblico, entro il 31 ottobre 2005, nonché il decorso del termine di ventiquattro mesi da tale data senza l’adozione di un provvedimento negativo del comune, equivalgono a titolo abilitativo edilizio in sanatoria. Se nei termini previsti l’oblazione dovuta non è stata interamente corrisposta o è stata determinata in forma dolosamente inesatta, le costruzioni realizzate senza titolo abilitativo edilizio sono assoggettate alle sanzioni richiamate all’articolo 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e all’articolo 48 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”. Anche in tal caso sono meritevoli di condivisione le osservazioni rese sul punto dal Tribunale, in quanto, è sufficiente ripercorrere il tratto testuale della predetta norma (“da tale data”) per avvedersi che il dies a quo è invariabilmente fissato alla data del 31 ottobre 2015; di conseguenza, il diniego di condono è stato emesso tempestivamente dal Comune il 30 maggio 2017, cioè prima del decorso del previsto biennio e ciò osta alla formazione del titolo in forma tacita.
8.3. Infondato è anche il terzo mezzo, col quale, nel reiterare la corrispondente censura di primo grado (pagina 10 dei motivi aggiunti), si lamenta che l’emissione dell’ordine demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla necessaria partecipazione procedimentale. La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione procedimentale. Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17 ottobre 2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29 novembre 2017, n. 5595, nonché Cons. Stato n. 2799/18), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12 dicembre 2016, n. 5198), né un’ampia motivazione”.
Peraltro, come correttamente rilevato dal Tribunale, le osservazioni presentate dall’appellante avverso l’ordinanza di demolizione riproponevano sostanzialmente argomenti già confutati dall’Amministrazione con il diniego di condono, osservazioni che, quindi, non hanno imposto all’Amministrazione di ripercorrere anche nella (consequenziale) ordinanza di demolizione quanto già controdedotto nel precedente diniego. Dagli atti di causa è peraltro dato rilevare che, a seguito del diniego di condono del 30 maggio 2007, il Comune di (omissis) ha comunicato al signor Lu. Di Na. l’avviso di avvio procedimentale del 28 maggio 2008, a seguito del quale questi ha fatto pervenire, in data 1° luglio 2008, le sue controdeduzioni a proposito delle quali l’Amministrazione, nel corpo dell’ingiunzione a demolire, evidenzia che “quanto osservato non trova riscontro negli atti d’ufficio e nella documentazionedepositata presso questa Amministrazione”. Da tale sia pur sintetica locuzione si evince che l’Amministrazione si è soffermata sul contributo partecipativo reso dal destinatario del provvedimento demolitorio.
8.4. Infondato è anche il quarto mezzo, atteso che non emerge quanto prospettato dal ricorrente nel senso della natura soltanto ampliativa delle opere, avendo esse comportato, come sopra osservato, la integrale demolizione del manufatto preesistente.
9. In conclusione, l’appello in esame è infondato e pertanto deve essere respinto.
10. Le spese di giudizio, regolamentate secondo il criterio della soccombenza, sono liquidate nella misura stabilita in dispositivo secondo i parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto (R.G. n. 8165/2009), lo respinge.
Condanna l’appellante alla rifusione, in favore del Comune di (omissis), delle spese del presente giudizio che liquida in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 aprile 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Fulvio Rocco – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere, Estensore
Cecilia Altavista – Consigliere
Francesco Guarracino – Consigliere

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