Corte di Cassazione, sezione sesta penale, Sentenza 4 maggio 2020, n. 13559.
Massima estrapolata:
Integra il reato di truffa ai danni dello Stato, aggravato dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, e non quello di peculato, la condotta del pubblico agente che, non avendo la disponibilità materiale o giuridica del denaro, ne ottenga l’indebita erogazione esclusivamente per effetto degli artifici o raggiri posti in essere ai danni del soggetto cui compete l’adozione dell’atto dispositivo. (Fattispecie in cui è stata qualificata quale truffa aggravata la condotta del pubblico dipendente che, essendo esclusivamente incaricato di predisporre le buste paga, induceva in errore il funzionario deputato al servizio di tesoreria, indicando fraudolentemente due distinti conti correnti ed in tal modo conseguendo l’erogazione di un doppio accredito stipendiale).
Sentenza 4 maggio 2020, n. 13559
Data udienza 11 luglio 2019
Tag – parola chiave: Truffa – Dipendente Iacp – Inganno alla Tesoreria – Pagamento mensile di un doppio stipendio – Reato di truffa aggravata e non peculato
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Presidente
Dott. TRONCI Andrea – Consigliere
Dott. GIORGI Maria Silvia – Consigliere
Dott. COSTANTINI Antonio – Consigliere
Dott. SILVESTRI Pietro – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato ad (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa il 24/05/2018 dalla Corte di appello di Palermo;
udita la relazione svolta dal Consigliere, SILVESTRI Pietro;
udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa CESQUI Elisabetta, che ha chiesto rigetto del ricorso;
udito l’avv. (OMISSIS), difensore della parte civile IACP di Agrigento, che ha concluso riportandosi alle conclusioni depositate;
udito l’avv. (OMISSIS), difensore dell’imputato, che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Palermo ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui (OMISSIS) e’ stato condannato per i reati di peculato (capo a) e falso ideologico in atto pubblico (capo b); all’imputato e’ contestato di avere, nella qualita’ di funzionario addetto all’ufficio personale (OMISSIS) – incaricato alla elaborazione delle buste paga – falsificato ogni mese i tabulati stipendiali propedeutici alla emissione dei mandati di pagamento degli emolumenti di ciascun dipendente e, in particolare, di aver previsto per ciascun mese la emissione a proprio favore di due mandati di pagamento per importi superiori a quelli spettanti: l’imputato avrebbe in tal modo indotto in errore gli altri funzionari dell’ente pubblico, che avrebbero emesso ordini di pagamento con accreditamento degli stipendi su due conti correnti a lui intestati (cosi’ l’imputazione).
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato articolando quattro motivi.
2.1. Con primo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla qualificazione dei fatti di cui al capo a), che, si assume, non sarebbero riconducibili al reato di peculato, ma a quello di truffa aggravata ai sensi dell’articolo 61 c.p., n. 9.
La sentenza sarebbe viziata nella parte in cui, pur avendo affermato che l’imputato non avesse la disponibilita’ materiale delle somme a lui attribuite, ha ritenuto, tuttavia, che (OMISSIS) avesse la disponibilita’ giuridica di quel denaro, in quanto deputato alla predisposizione dei tabulati stipendiali, sui quali nessun effettivo controllo veniva successivamente compiuto da parte dell’Ufficio finanziario dell’ente.
Secondo il ricorrente, invece, la circostanza che (OMISSIS) predisponesse i tabulati stipendiali non consentirebbe di attribuire a questi la disponibilita’ delle somme, alle quali si poteva accedere solo dopo l’apposizione del visto del dirigente responsabile della spese e della emissione del mandato di pagamento.
(OMISSIS) non predisponeva i mandati di pagamento e non era responsabile della gestione e della registrazione degli impegni di spesa; l’imputato avrebbe fatto ricorso ad una condotta fraudolenta.
2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di falso ideologico che, si assume, non sarebbe configurabile in quanto l’elenco riepilogativo dei dipendenti con l’indicazione dei rispettivi stipendi sarebbe stato un atto meramente interno, di nessun rilievo esterno; un atto che avrebbe dovuto essere controllato e vistato dal competente ufficio finanziario prima della emissione del mandato di spesa: l’elenco, dunque, non avrebbe nessuna efficacia legale e sarebbe stato grossolanamente falsificato.
2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio solo di equivalenza alle contestata aggravanti, non avendo il giudice di merito adeguatamente considerato la disponibilita’ dell’imputato a risarcire i danni in favore dello (OMISSIS).
2.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’articolo 62 c.p., n. 6; il ricorrente avrebbe piu’ volte offerto, al fine di risarcire i danni, la cessione di un immobile del valore di 140.000 Euro e tale offerta sarebbe stata ritenuta in maniera non giustificata incongrua dallo (OMISSIS).
La sentenza sarebbe errata nella parte in cui, a fronte di una stima dell’immobile da parte dell’U.T.E. pari ad Euro 117.000, ha ritenuto l’offerta non ristorativa dell’intero danno determinato, in Euro 125.849.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ fondato quanto al primo motivo di ricorso, nei limiti di cui si dira’.
1.1. In punto di fatto, dalle sentenze di merito emerge che: a) (OMISSIS) era un dipendente assegnato all’ufficio personale dello (OMISSIS) di Agrigento ed in tale veste predisponeva e trasmetteva ogni mese al Servizio finanziario il tabulato con gli importi da accreditare a titolo di stipendio al personale dell’ente; il Servizio Finanziario, a sua volta, trasmetteva detto elenco alla Tesoreria per la emissione del mandato di spesa (cosi’ la Corte di appello); b) (OMISSIS) aveva indicato da luglio del 2009 un doppio accredito di stipendio in suo favore, riportando i dati di due distinti conti correnti; c) per effetto di tale operazione, (OMISSIS) aveva percepito somme superiori a quelle a lui dovute.
Secondo la Corte di appello il fatto sarebbe riconducibile al delitto di peculato perche’ (OMISSIS) avrebbe avuto sin dall’inizio la disponibilita’ giuridica delle somme di cui si sarebbe appropriato, cio’ in quanto sarebbe stato deputato a “fissare la quota e la destinazione dei singoli accrediti, di modo che il denaro pubblico venisse rifuso a favore di ciascuno dei dipendenti (compreso se stesso) proprio sulla base delle sue indicazioni” (cosi’ la Corte di appello).
1.2. Si tratta di un assunto non condivisibile.
L’imputato era un soggetto esterno rispetto al Servizio finanziario dell’ente ed alla Tesoreria che procedeva alla procedura che si concludeva con la emissione dei mandati di pagamento; l’imputato predisponeva, in quanto funzionario addetto all’ufficio personale, l’elenco dei dipendenti e, in relazione a ciascuno di essi, indicava gli importi da accreditare a titolo di stipendio; nel compiere detta operazione, il ricorrente indico’ se’ stesso come destinatario di un doppio accredito e, per effetto di tale falsa indicazione ingannevole e dell’evidente disfunzione del sistema di controlli interni all’ente, indusse in errore i soggetti deputati al servizio finanziario ed alla tesoreria, che procedettero all’emissione nei suoi riguardi di un doppio accredito di stipendio.
1.3. Non vi e’ dubbio che nei peculato esista “di per se'” un profilo propriamente “giuridico” di rilevanza del rapporto tra l’agente e la res.
Gia’ in epoca precedente la riforma introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86, la giurisprudenza di legittimita’ aveva interpretato la nozione di possesso assunta dall’articolo 314 c.p., attribuendole un significato piu’ ampio di quello civilistico.
Si e’ ritenuto, infatti, non necessario che il pubblico ufficiale abbia la materiale detenzione o la diretta disponibilita’ del denaro, essendo sufficiente la disponibilita’ giuridica, ossia la possibilita’ di disporne – mediante un atto di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio – e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione (ex plurimis: Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv. 257385; Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012, Bartolotta, Rv. 255529; Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146; Sez, 6, n. 6753 del 04/06/1997, Finocchi, Rv. 211008).
Nella nozione di possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio e’ stato, inoltre, ricompreso non solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilita’ della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525; Sez. 6, n. 9660 del 12/02/2015, Zonca, Rv. 262458; Sez. 6, n. 12368 dei 17/10/2012, Medugno, Rv. 255998). Sez. 6, n. 4129 del 19/02/1993, Resta, Rv. 194522, ha precisato tuttavia che il concetto di disponibilita’ “non puo’ essere allargato fino a comprendervi una qualsiasi relazione, anche mediata ed eventuale con la cosa o con il denaro, valendo invece ad indicare quei soli poteri giuridici che consentono all’agente, che sia privo del corpus del possesso, di esplicare sulla cosa quegli stessi comportamenti, uti dominus, che vengono a substanziare la condotta di appropriazione.” Di conseguenza, sono stati esclusi dal concetto di disponibilita’ quei poteri del pubblico ufficiale che possono assimilarsi non gia’ alle facolta’ del “dominus”, ma a quelle del creditore in un rapporto obbligatorio e che gli consentono di esigere la prestazione della controparte o di adempiere alla propria, ponendo le premesse per l’adempimento altrui.
La giurisprudenza di legittimita’ tende ad ulteriormente ampliare la nozione penalistica di possesso con riferimento alle c.d. procedure complesse, quali le ordinarie procedure di spesa; si infatti ritenuto che il possesso del denaro della pubblica amministrazione puo’ anche essere mediato e far capo congiuntamente a piu’ pubblici ufficiali quando le norme interne dell’ente pubblico prevedono che l’atto dispositivo sia di competenza di un organo collegiale ovvero richieda l’intervento di piu’ organi dello stesso ente (Sez. 6, n. 10680 del 21/09/1988, Barone, Rv. 179605; Sez. 6, n. 5502 del 11/01/1996, Zini, Rv. 204987).
1.5. I principi in questione devono essere posti in connessione con la elaborazione giurisprudenziale relativa ai rapporti tra il delitto di peculato e quello di truffa, aggravata ai sensi dell’articolo 61 c.p., n. 9; si tratta di una distinzione in apparenza chiara e ripetuta in ogni occasione dalla giurisprudenza della Corte.
Nel peculato, la rilevanza penale della condotta appropriativa del denaro o della cosa mobile altrui presuppone il possesso o comunque la disponibilita’, nel senso appena indicato, di tali beni da parte del pubblico ufficiale “per ragione del suo ufficio o servizio”.
Entro tale prospettiva, dunque, l’appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, di cui si abbia il possesso, si traduce sostanzialmente nell’atteggiarsi uti dominus da parte del pubblico ufficiale nei confronti di tali beni, mediante il compimento di atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, cosi’ da realizzare l’interversio possessionis e l’interruzione della relazione funzionale tra il bene e il suo legittimo proprietario.
Il delitto di truffa aggravata dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione postula, invece, che l’agente, inducendo taluno in errore attraverso artifizi o raggiri, consegua per se’ o per altri “un ingiusto profitto”, rappresentato anche dall’impossessamento di un determinato bene, di cui in precedenza non aveva l’autonoma disponibilita’.
E’ al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo, nei senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui gia’ aveva legittimamente la disponibilita’ per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrera’ lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sara’ integrato il paradigma della truffa aggravata.
Cio’ che rileva e’ il modo con il quale si acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato (sul tema, tra le tante, Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282; Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, dep. 2018, Alfieri, Rv. 273395; Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 35852 del 06/07/2008, Savorgnano, Rv. 241186).
1.6. La distinzione diventa tuttavia meno chiara allorche’ si tratta di distinguere il delitto di peculato da quello di truffa aggravata ai sensi dell’articolo 61 c.p., n. 9 commessa in danno dello Stato o di altro ente pubblico (articolo 640 c.p., comma 2) e, in particolare, nei casi di c.d. procedure complesse, nelle quali l’atto che in concreto produce l’effetto di appropriazione spetta ad un organo collegiale, oppure si inserisce in una procedura articolata, ove piu’ soggetti sono chiamati ad intervenire perche’ si determini l’appropriazione.
In tali procedure infatti si inserisce di norma un’attivita’ decettiva che l’agente compie o per nascondere il fatto illecito posto in essere oppure per assicurarsi la cooperazione necessaria dei soggetti che nel procedimento complesso sono coinvolti.
Mentre infatti nel caso del frazionamento di una disponibilita’ materiale risulta concretamente possibile appropriarsi della cosa, non sembra agevole fare altrettanto rispetto al frazionamento di una disponibilita’ giuridica; quando la disponibilita’ ha cioe’ consistenza empirica, se pure ripartita tra piu’ soggetti, e’ agevole immaginare la condotta dell’agente che, con aggressione diretta sulla res, se ne appropri infrangendo l’altrui disponibilita’ concorrente; diversamente, se tale disponibilita’ ha una consistenza (prettamente) giuridica, per il soggetto attivo risulta pur sempre necessario passare “attraverso” l’esercizio di quei poteri e di quelle facolta’ altrui in cui si concreta la concomitante disponibilita’ degli altri soggetti.
Cio’ esplicita la “necessita’”, da parte del soggetto attivo, di ricorrere alle modalita’ fraudolente; da tali presupposti discende la difficolta in dette ipotesi di distinguere il reato di truffa da quello di peculato, tenuto conto che il legislatore ha inteso specificamente punire l’abuso funzionale dell’agente pubblico (articolo 61 c.p., n. 9), e l’ha certamente riferito anche al delitto di truffa, il quale, dal canto proprio, e’ aggravato quando colpisce il patrimonio dello Stato o di un altro ente pubblico (articolo 640 c.p., comma 2, n. 1).
Si tende a distinguere i casi in cui la collaborazione viziata degli altri soggetti coinvolti sia procurata attraverso una condotta fraudolenta da quelli in cui il soggetto sfrutta l’errore altrui.
Di tale distinzione mostra di essere stata consapevole una parte della giurisprudenza della Corte di cassazione le cui massime ufficiali contengono la specificazione espressa della sussistenza del peculato, in luogo della truffa, per avere l’agente conseguito “la disponibilita’ del denaro per effetto dell’omissione di ogni controllo da parte degli altri compossessori, senza averli ingannati od indotti in errore” (Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014, Currao, Rv. 260505; Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971, Bianco, Rv. 119839; nello stesso senso, Sez. 6, n. 1303 del 07/04/1979, Michelazzi, Rv. 144143; Sez. 6, n. 11054 del 26/10/1983, Calamia, Rv. 161838).
In questo contesto si inserisce l’indirizzo giurisprudenziale che, in senso difforme, costruisce nei casi caratterizzati da una codetenzione giuridica della cosa, la responsabilita’ per il delitto di peculato facendo riferimento allo schema dell’autore mediato ex articolo 48 c.p. (Sez. 6, n. 10762 dell’01/02/2018, Gambino Rv. 272761; Sez. 6, n. 40903 del 19/06/2018, Podio”, non massirnata; Sez. 6, Sentenza n. 39039 del 15/04/2013, Rv. 257096; in precedenza, Sez. 6, 186 del 28/01/1970, Rv. 114961; Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971, Rv. 119841; Sez. 6, n. 2064 del 13/01/1984, Rv. 162992).
Si tratta di un’affermazione di principio di indubbia rilevanza, tenuto conto dei contrasti che erano sorti anche in dottrina in ordine alla necessita’ di una dolosa partecipazione dell’intraneus nei delitti propri contro la pubblica amministrazione e, quindi, dei dubbi riguardanti la configurabilita’ di detti reati anche nei casi in cui il pubblico ufficiale che compie il fatto tipico agisca senza dolo in quanto da altri ingannato, secondo il meccanismo previsto dall’articolo 48 c.p..
Si tratta di questioni che tuttavia riguardano tendenzialmente i casi di codetenzione giuridica e che, dunque, non pare possano estendersi anche alle ipotesi, come quella in esame, in cui il soggetto che pone in essere la condotta decettiva – al fine di conseguire la detenzione attraverso la induzione in errore del soggetto intraneo – non abbia in origine nessun rapporto con la cosa, nel senso che di essa non abbia, al momento in cui e’ compiuta la condotta, nessuna disponibilita’ materiale o giuridica.
In tali casi, in cui, cioe’, la condotta ingannevole e’ posta in essere da un soggetto che, ancorche’ interno all’ente, e’ tuttavia privo di disponibilita’ materiale e giuridica della cosa, il fatto deve essere ricondotto al reato di truffa.
Diversamente, se, cioe’, anche in tali ipotesi, fosse configurabile il peculato, si giungerebbe sostanzialmente a superare la elaborazione, di cui si appena detto, relativa ai criteri distintivi tra peculato e la truffa di cui all’articolo 640 c.p., comma 2, aggravata dalla circostanza prevista dall’articolo 61 c.p., n. 9.
Di tale difficolta’ mostra di essere pienamente consapevole Sez. 6 n. 19762 del 2018 che afferma “una volta ammessa l’applicazione del combinato disposto degli articoli 48 e 314 c.p., in riferimento alla condotta di un pubblico agente, non sembrano ipotizzabili nemmeno problemi derivanti dall’astratta configurabilita’ della fattispecie di truffa aggravata a norma dell’articolo 61 c.p., n. 9, in ragione del principio di specialita’. Invero, e’ la disciplina relativa al peculato per induzione in errore a presentarsi come speciale rispetto all’altra, proprio perche’ caratterizzata dalla precedente disponibilita’ giuridica, sia pur concorrente, in ordine al bene oggetto di appropriazione. D’altro canto, in relazione a fatti riferibili alla tipologia di vicende in esame, se si ritenesse configurabile la truffa aggravata, sarebbe sempre preclusa l’applicazione del combinato disposto degli articoli 48 e 314.
Dunque, vi sarebbe sempre peculato in ragione di un rapporto di specialita’ fra le due norme incriminatrici, obiettivamente non di agevole configurazione.
Nel caso di specie, l’imputato era, come detto, estraneo alla procedura di spesa che portava alla emissione del mandato di pagamento, egli non aveva nessun potere istruttorio in detta procedura, “non” vantava alcun autonomo o concorrente potere di spesa; (OMISSIS), addetto all’ufficio personale, indicava i nomi dei dipendenti e la cifra che a questi avrebbe dovuto essere corrisposta a titolo di stipendio e sulla base della falsa indicazione riguardante la propria persona, indusse in errore il servizio finanziario dell’ente che ritenne colposamente di recepire le ingannevoli indicazioni fornite.
L’imputato con una condotta ingannevole indusse in errore i colleghi addetti al servizio finanziario dell’ente ed in tal modo si assicuro’ un ingiusto profitto.
Ne discende che i fatti contestati al capo A) devono essere riqualificati giuridicamente e ricondotti al reato previsto dall’articolo 640 c.p., comma 2, aggravato ai sensi dell’articolo 61 c.p., n. 9.
Ulteriore corollario che ne discende e’ che, in ragione del tempo in cui il reato continuato contestato e’ stato commesso (dal gennaio 2009 sino al settembre 2013), dei limiti edittali di pena, e del termine di prescrizione di sette anni e sei mesi vigente al momento della commissione del fatto, il reato e’ estinto in relazione alle condotte compiute sino all’11 gennaio 2012.
La sentenza deve dunque essere annullata senza rinvio quanto al capo A), limitatamente alle condotte indicate; la Corte di appello di Palermo procedera’ alla rideterminazione della pena.
2. E’ invece inammissibile il secondo motivo di ricorso, atteso il consolidato orientamento, che questo Collegio condivide, secondo cui ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, costituiscono atti pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioe’, sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso “iter” – conforme o meno allo schema tipico ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi. (Sez. 5, n. 38455 del 10/05/2019, Carta, Rv. 277092; Sez. 5, n. 4322 del 06/11/2012, dep. 2013, Camera, Rv. 254388).
Nel caso di specie, l’elenco predisposto dall’imputato aveva una valenza strumentale e, di fatto, non era grossolanamente falsificato.
3. Non diversamente, sono inammissibili il terzo ed il quarto motivo di ricorso. Quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti, la Corte ha chiarito come, proprio la disponibilita’ manifestata dall’imputato a risarcire il danno causato, abbia giustificato la concessione delle attenuanti generiche, aggiungendo, tuttavia, come detto riconoscimento non consenta di operare un giudizio di comparazione di prevalenza, attesa la pervicacia mostrata, la capacita’ manipolatoria evidenziata ed il lasso di tempo in cui la condotta fu compiuta.
A fronte di tale adeguata motivazione, nulla di specifico e’ stato dedotto, avendo il ricorrente reiterato gli stessi argomenti gia’ portati alla cognizione della Corte di appello e motivatamente disattesi.
Per quel che concerne il quarto motivo, relativo al riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’articolo 62 c.p., n. 6, la Corte ha spiegato che l’offerta di risarcimento fu presentata tardivamente, cioe’ dopo l’ammissione dell’imputato al rito abbreviato (sul tema, Sez. 3, n. 2213 del 22/11/2019, dep. 2020, M., Rv. 278380; Sez. 6, n. 20836 del 13/04/2018, Romano, Rv. 272933, Sez. 2, n. 56935 dfel 15/11/2017, Sarracino, Rv. 271666) e che la stessa non aveva un contenuto integralmente ristorativo del danno.
P.Q.M.
Previa riqualificazione del fatto di cui al capo A) ai sensi dell’articolo 640 cpv. c.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata in parte qua limitatamente alle condotte commesse sino all’11 gennaio 2012, per essere il reato estinto per prescrizione. Rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo per la rideterminazione della pena. Dichiara inammissibile nel resto.
Il presente provvedimento, redatto dal Consigliere SILVESTRI Pietro, viene sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per impedimento alla firma dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, articolo 1, comma 1, lettera a).
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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