In tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|26 febbraio 2024| n. 4968.

In tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

In tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, se quest’ultimo, nell’opporsi alla convalida di sfratto per morosità, deduce un controcredito vantato ad altro titolo nei confronti del locatore, allo scopo di escludere la propria morosità e non per ottenere una pronuncia di condanna, la compensazione assume il carattere di mera eccezione riconvenzionale, non già di domanda riconvenzionale.

Ordinanza|26 febbraio 2024| n. 4968. In tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

Data udienza 14 settembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Locazione – Obbligazioni del conduttore – Corrispettivo (canone) – Morosita’ risoluzione per morosità del conduttore – Crediti verso il locatore opposti in compensazione – Natura dell’iniziativa – Eccezione riconvenzionale.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere Rel.

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 21565-2020 proposto da:

Fi.Sa., domiciliato “ex lege” in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria di questa Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato Ce.Em.;

– ricorrente –

contro

St.Ca., domiciliato “ex lege” in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria di questa Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato Gi.Sa.;

– controricorrente –

nonché contro

La.Gi.;

– intimato –

Avverso la sentenza n. 106/2020 della Corte d’appello di Messina depositata il 26/05/2020;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 14/09/2023 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.

In tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

FATTI DI CAUSA

1. Fi.Sa. ricorre, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 106/20, del 26 maggio 2020, della Corte di Appello di Messina, che – accogliendo parzialmente il gravame esperito da St.Ca. avverso la sentenza n. 2370/17, del 28 settembre 2017, del Tribunale di Messina – ha così provveduto. Essa ha confermato la risoluzione, per grave inadempimento del conduttore St.Ca., del contratto di locazione ad uso diverso corrente con il Fi.Sa., nonché la sua condanna al rilascio della “res locata”, dichiarando, però, compensato il credito del locatore, per canoni non corrispostigli dal 1 agosto 2015, fino a concorrenza della somma di Euro 32.347,59, riconosciuta spettante allo St.Ca. per prestazioni professionali, compensando, infine, integralmente tra i due le spese di entrambi i gradi di giudizio.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver concesso in locazione allo St.Ca. – con contratto concluso 21 gennaio 2014 – un immobile sito in Messina, parte del quale il conduttore aveva sublocato a tale La.Gi. Assumendo che lo St.Ca. si fosse reso moroso, dal luglio 2015, nel pagamento dei canoni di locazione, oltre che degli oneri condominiali e di metà delle spese di registrazione del contratto, il Fi.Sa. lo citava in giudizio – e con esso pure, per quanto qui non più di interesse, il subconduttore La.Gi. – perché fosse convalidato lo sfratto per morosità. Costituitisi in giudizio, gli intimati si opponevano alla convalida. In particolare, il La.Gi. eccepiva l’assenza di azione diretta nei suoi confronti da parte del Fi.Sa., mentre, per parte propria, lo St.Ca. deduceva, la nullità del contratto per omessa registrazione annuale, in relazione agli anni 2015 e 2016, ai sensi dell’art. 346 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, nonché l’assenza di morosità, in ragione dell’esistenza di un accordo di compensazione volontaria tra i crediti del locatore e quelli ad esso St.Ca. spettanti, per prestazioni professionali di avvocato.

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Rigettata dall’adito giudicante l’istanza di emissione di ordinanza provvisoria di rilascio e disposta la conversione del rito, all’esito dell’istruttoria lo St.Ca. – ciò che ancora rileva nella presente sede di legittimità – deduceva, solo nelle note conclusionali, la natura giudiziale della compensazione richiesta in via riconvenzionale.

Definita dal primo giudice la presente controversia con la dichiarazione di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento dello St.Ca., oltre che con la sua condanna al pagamento dei canoni di locazione, a far data dal luglio 2016 e fino all’effettivo rilascio, per l’importo di Euro 6.000,00 al mese, venivano, invece, respinte sia la domanda attorea contro il La.Gi., che la riconvenzionale dello St.Ca.

Esperito gravame dallo St.Ca., il giudice di appello lo accoglieva parzialmente, provvedendo nei termini sopra indicati.

3. Avverso la sentenza della Corte peloritana ha proposto ricorso per cassazione il Fi.Sa., sulla base – come detto – di sei motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 36, 416, 418 e 447-bis cod. proc. civ., oltre che dell’art. 14 del D.Lgs.

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1 settembre 2011, n. 150, in ragione della “inammissibilità e di irritualità della domanda/eccezione riconvenzionale di compensazione giudiziale dei compensi professionali con i canoni di locazione”.

La sentenza impugnata avrebbe errato nel qualificare la domanda di compensazione giudiziale, svolta solo nelle note conclusive del giudizio di primo grado, quale eccezione riconvenzionale, e per non averne ritenuto, quindi, la irritualità e tardività ex artt. 416, 418 e 447-bis cod. proc. civ.

Si tratterebbe, infatti, di una domanda riconvenzionale a tutti gli effetti, poiché – sebbene finalizzata a paralizzare la domanda attorea di pagamento somme – ha avuto “ad oggetto il diverso petitum dell’accertamento del credito professionale e della sua liquidazione” (credito, oltretutto, in alcun modo collegato al contratto di locazione, donde la violazione dell’art. 36 cod. proc. civ.), “per il cui svolgimento, espressamente disciplinato dall’art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2011, il giudice monocratico adito non era neppure competente”.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1243 cod. civ., per mancanza di liquidità del credito portato in compensazione.

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Si censura la decisione, adottata dalla Corte messinese, di accogliere – peraltro irritualmente, per le ragioni già illustrate -la domanda di compensazione giudiziale, omettendo di considerare la non liquidità del credito da compensi professionali, proprio perché da proporsi a norma dell’art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2011, nell’ambito o di un procedimento per decreto ingiuntivo, o mediante ricorso ex art. 702-bis cod. proc. civ., davanti al tribunale in composizione collegiale, e, comunque, sulla base delle tariffe di cui al D.M. n. 55 del 2014, che non prevedono più un importo fisso per ogni singola attività, ma parametri per fasi variabili da un minimo ad un massimo.

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – nullità della sentenza ex art. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., per omessa motivazione in relazione ai compensi liquidati, per ciascuno dei quattro (su cinque) procedimenti in relazione ai quali la Corte territoriale, sulla base degli atti dei procedimenti medesimi, ha ritenuto di riconoscere i crediti dell’Avv. St.Ca. per prestazioni professionali.

Il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non avrebbe reso alcuna motivazione in ordine alla scelta di applicare i valori medi (e non quelli minimi) previsti dal D.M. n. 55 del 2014, né indicato quali delle fasi ha liquidato e per quali importi, né, soprattutto, il valore della causa, parametro essenziale al fine di determinare lo scaglione di riferimento, del pari non fatto oggetto di alcuna indicazione.

3.4. Il quarto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., lamentando il vizio di extrapetizione, in quanto la domanda di accertamento e liquidazione dei crediti professionali non è mai stata espressamente formulata dall’appellante, dovendo la stessa ricavarsi implicitamente dalla domanda di compensazione giudiziale.

Si censura, inoltre, la sentenza impugnata – sempre per extrapetizione – in ragione del fatto che essa, nell’accertare un controcredito dello St.Ca. per Euro 32.347,59 (e non di Euro 7.720,00, come richiesto dall’appellante), credito ritenuto certamente superiore all’importo dei canoni dovuti dallo stesso e non corrisposti, ha affermato che costui, “per il suo eventuale maggior credito”, potrà “agire in separata sede”.

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3.5. Il quinto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 2233 cod. civ.

Il ricorrente si duole del fatto che la sentenza impugnata abbia ritenuto assolto l’onere probatorio, gravante sull’appellante, di dimostrare il proprio controcredito, avendo ritenuto “incontestato” il “mancato pagamento (quantomeno per l’intero importo dovuto) dei compensi” spettanti all’Avv. St.Ca.

Assume, infatti, il ricorrente che la Corte territoriale ha omesso di considerare che egli aveva contestato l’an della pretesa, oltre al fatto che l’accertamento del compenso professionale di avvocato doveva essere eseguito nelle forme di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2011.

Si duole, infine, pure del fatto che il giudice d’appello abbia attribuito valore probatorio a quella che definisce, genericamente, la documentazione offerta in comunicazione dall’appellante, dando rilievo a pre-notule o note spese emesse dallo St.Ca., che – in quanto atti unilaterali, privi oltretutto di attestazione di congruità o parere da parte del competente Consiglio dell’Ordine degli Avvocati – risultavano, invece, carenti di efficacia probatoria ex art. 2233 cod. civ.

3.6. Infine, il sesto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 cod. proc. civ., lamentando che, in ragione della soccombenza, le spese andavano poste a carico dell’appellante.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, lo St.Ca., chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

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5. È rimasto solo intimato il La.Gi.

6. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

7. Non consta la presentazione di conclusioni scritte da parte del Procuratore Generale presso questa Corte.

8. Parte ricorrente ha depositato memoria.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

9. In via preliminare, va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dal controricorrente in ragione del fatto che il legale del Fi.Sa. risulta operare, come giudice onorario, presso il Tribunale di Roma, essendo per tale ragione impossibilitato a esercitare la professione forense (ex art. 5, comma 3, del D.Lgs. 13 luglio 2017, n. 116) presso uffici giudiziari – quale viene ritenuta la Corte di Cassazione – compresi nel circondario del Tribunale ove ha sede quello al quale esso risulta assegnata.

L’eccezione è infondata, perché la Corte di Cassazione è ufficio con giurisdizione nazionale, che non può ritenersi ricompreso, per il sol fatto di avere sede in Roma, presso il circondario del Tribunale capitolino, come conferma, a tacer d’altro, la circostanza che ogni competenza in relazione ai magistrati che esercitano funzioni di legittimità (o comunque in servizio in questa Corte) spetta non al Consiglio Giudiziario presso la Corte d’appello di Roma, bensì al Consiglio Direttivo della stessa Suprema Corte.

10. Ciò chiarito, il ricorso va rigettato.

10.1. Il primo motivo – con cui si denuncia l’irritualità della compensazione fatta valere dallo St.Ca. – è inammissibile.

10.1.1. Si legge, alle pagg. 3-4 del ricorso, che l’odierno controricorrente, all’udienza per la convalida dell’intimazione di sfratto per morosità, si costituì ed eccepì in compensazione – non è precisato, se depositando comparsa, oppure svolgendo a verbale la relativa deduzione – il proprio controcredito per prestazioni professionali. Sempre a pag. 4 del ricorso, il Fi.Sa. – nel dare conto dell’avvenuto deposito da parte dell’allora intimato, il 19 dicembre 2016, della memoria integrativa ex art. 426 cod. proc. civ., dopo il mutamento del rito – nuovamente riferisce che, nella stessa, venne svolta “domanda di compensazione”. Ne consegue che la prospettazione del motivo, là dove sostiene che solo nelle note conclusive del 23 settembre 2017 sarebbe stata introdotta la (pretesa) riconvenzionale, è contraddetta da tali enunciazioni, non senza doversi rilevare che del contenuto di tale atto non si offre la riproduzione, come, del resto, pure della memoria del 19 dicembre 2016, ciò che non consente di stabilire con certezza se dall’allora intimato venne introdotta solo un’eccezione di compensazione o una vera e propria domanda.

Da ciò deriva, pertanto, l’inammissibilità del motivo a norma dell’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ., non avendo il ricorrente provveduto ad assolvere quell’onere di “puntuale indicazione” del documento o atto su cui si fonda il ricorso (cfr. Cass. Sez. Un, ord. 18 marzo 2022, n. 8950, Rv. 664409-01), che è richiesto dalla norma suddetta, pur nell’interpretazione “non formalistica” della stessa che – sempre secondo il testé citato arresto delle Sezioni Unite – s’impone alla luce della sentenza della Corte EDU Succi e altri c. Italia, del 28 ottobre 2021.

D’altra parte, l’esito dell’inammissibilità del motivo è imposto, vieppiù, dalle seguenti considerazioni.

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Qualunque fosse, infatti, la natura dell’iniziativa assunta dallo St.Ca. (mera eccezione riconvenzionale, oppure vera e propria domanda), quanto denunciato, in merito ad essa, dall’odierno ricorrente, ovvero l’inosservanza – nel primo caso -del regime delle preclusioni, o all’opposto la violazione – nel secondo caso – delle regole sul rito per la trattazione dell’ipotetica domanda, non risulta più deducibile in questa sede. Il Fi.Sa., infatti, avrebbe dovuto far valere tale (duplice) eccezione entro il giudizio di primo grado, in sede di discussione, e cioè fino al momento in cui essa poteva essere dedotta, trattandosi di questioni rilevabili d’ufficio, per poi riproporla – data la sua vittoria in primo grado – ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ.

Deve, invero, ribadirsi che l’eccezione deducibile dalla parte (o rilevabile d’ufficio dal giudice di prime cure) per tutta la durata del grado in cui si verifica, non soggiace, per tale arco temporale, alla regola dell’art. 157, comma 3, del medesimo codice (che preclude il rilievo della nullità ad opera sia della parte che vi ha dato causa, che di quella che vi ha rinunciato anche tacitamente), norma, quest’ultima, che “confina il suo ambito alle sole nullità determinate dal comportamento di una parte che siano a rilievo non officioso” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 30 agosto 2018, n. 21381, Rv. 650325-01; in senso conforme, tra le più recenti, si vedano Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2021, n. 21529, Rv. 662196-01, nonché, sempre in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 4 novembre 2020, n. 24483; Cass. Sez. Un., sent. 31 gennaio 2019, n. 2841). Difatti, essendo l’esclusione della preclusione suddetta “ancorata all’esistenza del potere officioso del giudice”, risulta “logicamente sostenibile che essa si giustifichi temporalmente solo fino a quando il potere officioso del giudice sussista e sia esercitabile come quello della parte”, giacché, viceversa, allorquando tale potere officioso cessi, non può che venire meno “quell’esigenza logica, per così dire di par condicio fra parte e giudice, che giustifica che i poteri di rilevazione si conservino per entrambi ancorché la nullità sia stata determinata originariamente dalla parte”; verificatasi, pertanto, tale evenienza “la regola dell’art. 157, comma 3, cod. proc. civ. può e deve riespandersi” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 21381 del 2018, cit.).

10.1.2. Solo per completezza espositiva, peraltro, si rileva come la qualificazione dell’iniziativa dello St.Ca. accolta nella sentenza impugnata (eccezione riconvenzionale), trovi conferma nella ricostruzione che, del suo contenuto, fornisce lo stesso ricorrente a pag. 4 del proprio atto di impugnazione.

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Ivi, infatti, si legge che l’allora intimato – nell’opporsi alla convalida dello sfratto – chiese al Tribunale messinese di “Ritenere e dichiarare in via riconvenzionale compensate le somme richieste per canoni di locazione nella misura di quanto richiesto” dal locatore (e pari a Euro 7.720,00), “riservandosi il recupero delle ulteriori somme ingiunte nella misura di Euro 45.911,55”.

Orbene, l’assunto del ricorrente secondo cui quella proposta costituirebbe una domanda (e non un’eccezione) riconvenzionale, è contraddetto dal fatto che lo scopo dell’iniziativa assunta dallo St.Ca. era solo quello di escludere la propria morosità, tanto che l’allora intimato si riservava, in separato giudizio, il recupero del maggior credito ad esso asseritamente spettante.

Ne consegue, pertanto, la correttezza della qualificazione data dalla Corte peloritana, se è vero che la compensazione, “importando un ampliamento della controversia, può assumere o il carattere di una eccezione riconvenzionale, nel caso in cui l’opposizione di un controcredito abbia il solo scopo di paralizzare la pretesa avversaria, ovvero la natura di una domanda riconvenzionale, allorché tenda ad un fine più ampio di quello di una semplice difesa, quando cioè lo stesso controcredito venga dedotto per ottenere una pronuncia di condanna nei confronti dell’altra parte” (Cass. Sez. 3, sent. 9 maggio 1966, n. 1188, Rv. 322375-01; in senso conforme, più di recente, Cass. Sez. 2, sent. 2 marzo 2016, n. 4133, Rv. 639413-01; cfr. anche Cass. Sez. 3, sent. 20 gennaio 1997, n. 538, Rv. 501861-01, secondo cui l’eccezione di compensazione “corrisponde sempre ad una eccezione riconvenzionale allorché venga sollevata dal titolare del credito di importo maggiore, il quale non pretenda di ottenere nello stesso giudizio di pagamento dell’eccedenza”).

D’altra parte, prive di fondamento appaiono pure le censure relative all’irritualità della compensazione, sia in relazione alla eterogeneità del credito opposto dallo St.Ca., rispetto a quello nascente dal contratto di locazione (giacché il carattere tipico della compensazione in senso tecnico è dato dal fatto che essa “postula l’autonomia dei rapporti dai quali nascono contrapposti crediti delle parti”; da ultimo, Cass. Sez. 6-2, ord. 15 dicembre 2020, n. 28469, Rv. 659998-01), sia al mancato espletamento della specifica procedura per la liquidazione dei compensi ai difensori, davanti all’organo giurisdizionale a ciò deputato (il Tribunale in composizione collegiale), giacché qui non si trattava di pronunciarsi su una domanda di pagamento, ma solo di rilevare, in via di eccezione, l’intervenuta compensazione.

10.2. Il secondo motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.

10.2.1. Esso, infatti, non fa che reiterare una delle censure già oggetto del motivo che precede, assumendo che la compensazione non poteva essere dichiarata, per essere illiquido il credito vantato dall’intimato.

Il presente motivo, innanzitutto, lamenta – con doglianza che si è già detto essere inammissibile, prima ancora che infondata, visto che andava reiterata in appello, a norma dell’art. 346 cod. proc. civ. – che la liquidazione di tale credito risultava preclusa, innanzitutto, per ragioni processuali, non essendo avvenuta secondo il procedimento ex art. 14 dl D.Lgs. n. 150 del 2011, devoluto alla cognizione del Tribunale collegiale.

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D’altra parte, quanto al fatto che la natura illiquida del credito ostasse alla compensazione, deve qui ribadirsi il principio affermato da questa Corte nella sua massima sede nomofilattica, ovvero che l’art. 1243 cod. civ. “stabilisce i presupposti sostanziali ed oggettivi del credito opposto in compensazione, ossia la liquidità, inclusiva del requisito della certezza, e l’esigibilità”, sicché, nella loro ricorrenza, “il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione legale, a decorrere dalla sua coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda, mentre, se il credito opposto è certo ma non liquido, perché indeterminato nel suo ammontare, in tutto o in parte, egli può provvedere alla relativa liquidazione, se facile e pronta, e quindi può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale sino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, oppure può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione” (Cass. Sez. Un., sent. 15 novembre 2016, n. 23225, Rv. 641764-02).

10.3. Pure il terzo motivo di ricorso è inammissibile.

10.3.1. Al pari, infatti, di quelli che lo precedono, anch’esso è affetto da carenza descrittiva, deducendo un vizio di apparenza della motivazione, senza nulla precisare circa l’atteggiarsi del contraddittorio tra le parti, in primo grado e in appello, sui controcrediti opposti dall’intimato.

D’altra parte, il profilo di apparenza di motivazione, denunciato dal ricorrente, è pretestuoso, atteso che gli importi di cui ragiona la Corte territoriale sono quelli ricavabili, implicitamente, dalla documentazione versata in atti, come si desume dal fatto che, per un credito per cui era stata prodotta solo la nota spese, venne disattesa la richiesta di compensazione.

Poiché, dunque, la sentenza impugnata mostra di essersi basata, per tutti gli altri crediti, sulla produzione degli atti, toccava al ricorrente dedurre l’insussistenza di tali atti.

D’altra parte, in aggiunta a quanto appena osservato, deve ribadirsi – quanto, in particolare, alla doglianza secondo cui la Corte messinese avrebbe dovuto motivare in ordine alla scelta dei valori medi dei compensi – che “l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo” (tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 13 luglio 2021, n. 19989, Rv. 661839-03).

Quanto, invece, alla censura secondo cui la sentenza impugnata non avrebbe indicato il valore dei singoli procedimenti, in relazione ai quali ha determinato il credito per compensi professionali dello St.Ca. (e, di riflesso, neppure lo scaglione di riferimento), essa è inammissibile, ex art. 366, comma 1, n. 3), cod. proc. civ.; e ciò in applicazione del principio secondo cui, in tema di liquidazione degli onorari agli avvocati, colui che “intenda contestare l’applicazione di un determinato scaglione, deve, a pena d’inammissibilità, indicare il valore della controversia, trattandosi di presupposto indispensabile per consentire l’apprezzamento della decisività della censura” (Cass. Sez. 2, ord. 19 agosto 2021, n. 23132, Rv. 662070-02).

10.4. L’inammissibilità ex art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ. inficia, parimenti, il quarto motivo di ricorso.

10.4.1. Dal momento, infatti, che il ricorrente – come si è illustrato nell’esaminare il primo motivo della presente impugnazione – non ha soddisfatto l’onere di riprodurre il contenuto degli atti idonei a rivelare se quella proposta dallo St.Ca. fosse una domanda o un’eccezione riconvenzionale, questa Corte non è stata posta in condizione di stabilire se sussista pure il denunciato vizio di extrapetizione.

Se è vero, infatti, che – nel caso in cui il ricorso per cassazione denunci un “error in procedendo”, rispetto al quale questa Corte giudica pure il “fatto processuale” – “il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda”, resta, nondimeno, inteso che l’ammissibilità del sindacato demandato a questa Corte è comunque subordinata alla condizione che “la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dagli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ.” (Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01).

In ogni caso, deve escludersi che la Corte territoriale abbia violato l’art. 112 cod. proc. civ., giacché “la riserva” dell’azione per l’eccedenza è fondata sul fatto che essa ha giudicato dei controcrediti solo in via di eccezione ed al fine di paralizzare il credito principale.

10.5. Per le medesime ragioni già illustrate nello scrutinare il motivo che precede, è inammissibile – per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ. – pure il quinto motivo.

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10.5.1. In ogni caso, anche le modalità di formulazione delle singole censure corroborano tale conclusione.

Inammissibile è, infatti, la censura di violazione dell’art. 2697 cod. civ., che investe – irritualmente – l’apprezzamento del risultato probatorio, e non invece la ripartizione dell’onere probatorio.

Difatti, la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 31 agosto 2020, n. 18092, Rv. 658840-01); evenienza, quella appena indicata, che non risulta lamentata nel caso di specie, restando, invece, inteso che “laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti”, come avvenuto nel caso che occupa, essa “può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360” (Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 2013, n. 15107, Rv. 626907-01), ovviamente “entro i limiti ristretti del “nuovo”” suo testo (Cass. Sez. 3, ord. n. 13395 del 2018, cit.).

Quanto, invece, all’assunto secondo cui la Corte peloritana -in violazione dell’art. 2233 cod. civ. – avrebbe dato rilievo, tra i documenti utilizzati per liquidare i compensi dovuti all’Avv. St.Ca., ad atti unilaterali predisposti dallo stesso legale, deve notarsi, come già sopra osservato, che la sentenza impugnata, semmai, accredita l’esatto contrario. Nella stessa, infatti, si legge che per l’unico dei procedimenti, in relazione al quale il giudice di appello non ha ritenuto provato il credito del legale, agli atti del giudizio risultava “solo la nota spese”, mancando – diversamente che per gli altri – “gli atti del procedimento al fine di valutare l’attività effettivamente prestata”.

In tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

10.6. Infine, anche il sesto motivo è inammissibile.

10.6.1. Esso – anche in ragione del suo carattere puramente assertorio – non reca alcuna specifica censura sulle ragioni della disposta compensazione delle spese dei due gradi di giudizio, esaurendosi nel rilievo per cui, essendo stato l’appellante “soccombente” (ma tale egli non era, essendo stato parzialmente accolto il suo gravame), avrebbe dovuto sopportare l’onere economico del giudizio.

Si è, pertanto, al cospetto di un “non motivo” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 11 gennaio 2005, n. 359, Rv. 579564-01; in senso analogo anche Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, 17330, Rv. 636872-01, nonché, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 20 marzo 2017, n. 7074, non massimata sul punto; conforme anche Cass. Sez. 1, ord. 24 settembre 2018, n. 22478, Rv. 650919-01), per ciò solo inammissibile.

11. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico del ricorrente e liquidate come da dispositivo.

12. A carico del ricorrente, stante il rigetto del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

In tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando Fi.Sa. a rifondere, a St.Ca., le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.400,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi il 14 settembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2024.

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