In caso di ritardo nella definizione dei contenuti di una convenzione edilizia

Consiglio di Stato, Sentenza|17 febbraio 2021| n. 1448.

In caso di ritardo nella definizione dei contenuti di una convenzione edilizia che abbia comportato il mancato rilascio del permesso di costruire può sussistere un danno da “mero ritardo” ovvero da “affidamento procedimentale mero”, nella particolare configurazione per la quale l’inerzia amministrativa, protrattasi oltre i tempi normativamente previsti (e nonostante un contegno complessivamente affidante in precedenza serbato dall’amministrazione), ha fatto sì che il richiedente non possa più beneficiare in concreto del bene della vita cui ambiva a causa di sopravvenienze di fatto o di diritto contrastanti con la soddisfazione in forma specifica del suo interesse. Occorre cioè valutare se sia imputabile all’amministrazione la violazione dell’affidamento riposto dal privato nella correttezza dell’azione amministrativa avviata a seguito dell’instaurazione di un ‘contatto’ di carattere qualificato. In tale ottica, il contatto tra privato e Pubblica Amministrazione va inteso quale fatto idoneo a produrre obbligazioni “in conformità dell’ordinamento giuridico (art.1173 c.c.), con conseguente emersione di reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione” (art. 1175 c.c., art.1176 c.c. e art 1337 c.c.). Il ritardo, cioè, non assume rilievo risarcitorio autonomo, ma in quanto elemento indicativo e – in qualche misura – costitutivo del comportamento affidante che ne è conseguito.

Sentenza|17 febbraio 2021| n. 1448

Data udienza 12 gennaio 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Urbanistica – Convenzione urbanistica – Obbligazioni a carico del privato – Natura – Risarcimento danni – Danno da ritardo – Danno “da mero ritardo” o da “affidamento procedimentale mero” – Tardività della stipula di convenzione urbanistica – Principi di correttezza e buona fede nelle trattative – Art. 1337 cod. civ. – Applicabilità a fini di quantificazione del danno

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8611 del 2012, proposto dalla Società Ca. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Fa. Mo., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ro. Ci. in Roma, via (…)
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ma. e Pi. Pi., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (…)
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 505/2012
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 e l’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 12 gennaio 2021, in collegamento da remoto in videoconferenza, il Cons. Antonella Manzione.
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con ricorso al T.A.R. per la Liguria n. r.g. 399 del 2006 la Società Ca. S.r.l. (d’ora in avanti, solo la Società ) ha chiesto il risarcimento del danno da ritardo nella definizione di un procedimento di rilascio di un permesso di costruire per la realizzazione di un parcheggio sotterraneo su un terreno di sua proprietà nel Comune di (omissis).
2. Il Tribunale adito, con sentenza n. 505 del 6 aprile 2012, ha respinto il ricorso ritenendo impossibile sindacare l’opportunità delle richieste dell’Amministrazione che hanno comportato la dilatazione dei tempi di definizione della prevista convenzione urbanistica; quanto al richiamo da ultimo al Piano provinciale di bacino, seppure non pienamente efficace, esso sarebbe da ricondurre alla disciplina di cui al[l’art. 17,] comma 6 bis dell’allora vigente l. 18 maggio 1989, n. 183, che abilitava i comitati di bacino a porre in salvaguardia le misure di protezione contenute negli strumenti di pianificazione adottati (in tal senso Cass., SS.UU., 23 maggio 2006, n. 12084).
3. La Società ha impugnato la richiamata sentenza ritenendola erronea per difetto di istruttoria e di motivazione, nonché per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà e eccesso di potere. In particolare, lo sviluppo del procedimento non sarebbe stato affatto “fisiologico”, siccome affermato dal primo giudice, in quanto connotato da un vero e proprio stillicidio di interlocuzioni istruttorie. La formalizzazione della convenzione, siglata solo il 25 novembre 2005, sarebbe sopraggiunta ad un’istanza di rilascio del titolo risalente addirittura all’aprile del 2001, nonché conseguita ad una formale diffida della Società, in data 15 dicembre 2004 (motivo sub A). Nessuna salvaguardia può trovare applicazione con riferimento ad un Piano la cui adozione è sopravvenuta (delibera del 28 febbraio 2006). Il 28 dicembre 2005 -e dunque in ogni caso successivamente all’approvazione della convenzione da parte del Comune- erano stati pubblicati sul B.U.R. solo gli indirizzi procedurali per la sua redazione (motivo sub B). La lesione dell’interesse pretensivo destinato a sfociare nel titolo edilizio richiesto e indebitamente negato, configurerebbe ex se un danno ingiusto. In particolare, il temporeggiamento dopo il riscontro alle ultime richieste istruttorie, avvenuto il 24 febbraio 2004, sarebbe del tutto inescusabile. L’entità del risarcimento viene indicata in euro 1.500.000,00, corrispondente al lucro cessante, determinato in ragione dei mancati ricavi dalla vendita dei posti auto, decurtati dai costi di costruzione, e al danno emergente, pari agli onorari dei due tecnici incaricati, per un totale di euro 67.252,00, dei quali euro 33.427,00 per il rimborso di quello dell’ingegnere e euro 33.825,00, per quello dell’architetto (motivo sub C).
4. Si è costituito in giudizio il Comune di (omissis) con atto di stile. Con successiva memoria in data 11 dicembre 2020, ha eccepito la inammissibilità del ricorso per mancata impugnativa degli atti interlocutori del Comune, in particolare il diniego di rilascio del titolo edilizio contenuto nella nota del 6 febbraio 2006. La richiesta risarcitoria, inoltre, sarebbe tardiva in relazione alla disciplina decadenziale di cui all’art. 30 c.p.a. in quanto riferita ad un procedimento avviato nel 2001, i cui termini di definizione, pertanto, sarebbero spirati da ben più dell’anno indicato allo scopo dalla norma quale dies a quo da cui computare i successivi 120 giorni ivi previsti. Nel merito, il diniego del permesso di costruire sarebbe stato adeguatamente motivato sulla base della necessità di tutelare l’interesse pubblico a prevenire fattori di rischio idrogeologico, immanenti alla segnalazione della Provincia di Imperia del 23 novembre 2005, circa la imminente collocazione dell’area di proprietà della Società in zona “AA”, ovvero “perifluviale inondabile al verificarsi dell’evento di piena”. D’altro canto, nessun diritto al rilascio del titolo potrebbe scaturire dall’avvenuta sottoscrizione di una convenzione, una volta sopraggiunto un fattore di oggettiva impossibilità ad adempiere, siccome previsto dall’art. 1256 c.c. La sola inosservanza del termine di conclusione di un procedimento, ai sensi dell’art. 2 bis, comma 1 bis della l. n. 241 del 1990, darebbe diritto al più al riconoscimento di un indennizzo, non al richiesto risarcimento danni. Mancherebbe nel comportamento del Comune qualsivoglia profilo di colpevolezza, come dimostrato dalla circostanza che esso, proprio allo scopo di salvaguardare i procedimenti in itinere, ha espresso parere negativo nell’ambito di quello di approvazione del Piano provinciale di bacino. Ex parte adversa ha chiesto valutarsi sub specie di comportamento concorrente alla causazione di un danno altrimenti evitabile ex art. 1227 c.c. la già segnalata mancata impugnativa degli atti endoprocedimentali di cui oggi si lamenta l’ingiustizia. Ha infine contestato la quantificazione del lucro cessante, in quanto effettuata in maniera esorbitante, immotivata e priva di supporto documentale.
5. La Società a sua volta ha prodotto memoria, ribadendo la propria prospettazione, e memoria di replica, per controbattere agli argomenti del Comune. In relazione alle eccezioni di inammissibilità, ha precisato nuovamente come il procedimento non è mai stato definito, siccome desumibile dal tenore letterale della corrispondenza intercorsa tra le parti, nonché, ancor prima, proprio della nota del 6 febbraio 2006, che fa riferimento ad un rinvio della pratica “al momento”, essendo necessari “più opportuni approfondimenti, in conformità all’invito della Provincia”.
6. Alla pubblica udienza del 12 gennaio 2021, svoltasi con modalità da remoto ai sensi dell’art. 25, comma 2, del decreto legge n. 137 del 28 ottobre 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

7. La complessa vicenda in esame interseca importanti questioni di diritto già fatte oggetto ad altri fini di approfondimento da parte della Sezione, alle cui conclusioni pertanto si intende fare rinvio, pur con alcune sintetiche precisazioni preliminari.
La Società ha chiesto l’accertamento del proprio diritto al rilascio di un permesso di costruire, non allo scopo di ottenere la condanna dell’Amministrazione a provvedere, bensì per inferirne il risarcimento del danno che afferma di avere subito a cagione della pregressa inerzia della stessa. La mancanza, pertanto, di una contestuale o preliminare istanza demolitoria, ovvero di un’azione avverso il silenzio serbato dal Comune, rendono la relativa istanza collocabile sotto il profilo sistematico tra le richieste di danno da “mero ritardo” ovvero da “affidamento procedimentale mero”, nella particolare configurazione per la quale l’inerzia amministrativa, protrattasi oltre i tempi normativamente previsti (e nonostante un contegno complessivamente affidante in precedenza serbato dall’amministrazione), ha fatto sì che il richiedente non possa più beneficiare in concreto del bene della vita cui ambiva a causa di sopravvenienze di fatto o di diritto contrastanti con la soddisfazione in forma specifica del suo interesse.
Tale inquadramento consente innanzi tutto di respingere le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa civica: le richieste interlocutorie del Comune, seppure reiterate, in quanto meri atti endoprocedimentali, non cagionavano ex se una qualche lesione alla sfera giuridica del privato ovvero un arresto procedimentale in senso proprio; al contrario, valutate nel loro insieme e soprattutto nella loro diluizione nel tempo, rappresentavano al più sintomi della possibile scorrettezza comportamentale dell’Amministrazione procedente.
Perfino la nota del 6 febbraio 2006 (relativa al richiesto rilascio del titolo edilizio), proprio in ragione della sua portata dichiaratamente non definitiva, si risolveva in una mera sospensione procedurale ispirata da esigenze di opportunità, non dalla presunta precettività di una nuova disciplina urbanistica (quella relativa all’imminente approvazione del Piano di bacino) in quella fase solo preannunciata. Da qui la effettiva inconferenza del richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, all’art. 17, comma 6 bis, della l. n. 183 del 1989 (del quale per mero refuso è riportato solo il comma), che prevede effettivamente la possibilità di fissare in salvaguardia l’efficacia delle disposizioni dell’approvando Piano di bacino, secondo un procedimento peraltro rigidamente precostituito, purché tuttavia lo stesso sia stato almeno adottato. D’altro canto, tale è la funzione in genere delle cd. “misure di salvaguardia” che, in una prospettiva esclusivamente cautelare e anticipatoria, sono appunto regole di diritto intertemporale utilizzate in urbanistica allo scopo di evitare che nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione definitiva di un piano, il rilascio di provvedimenti che consentono attività edificatorie (o comunque trasformative) del territorio, alla stregua per lo più di norme maggiormente permissive, possa comprometterne l’assetto per come nuovamente “progettato” e pensato. Esse comportano dunque la doverosa sospensione dei procedimenti finalizzati al conseguimento di ridetti titoli, fino all’approvazione dello strumento urbanistico pianificatorio e in attesa della sua entrata in vigore, alla stregua del quale dovrà assumersi la determinazione definitiva (cfr. Cons. Stato, sez. II, 23 marzo 2020, n. 2012; sez. IV, 20 gennaio 2014, n. 257). Circostanza tuttavia sopravvenuta alla comunicata sospensione, stante che l’adozione del Piano è datata, come già detto, 28 febbraio 2006.
A ciò consegue che la nota del 6 febbraio 2006, reiteratamente invocata da entrambe le parti non senza qualche discrasia ricostruttiva, non rileva in ragione del suo contenuto negativo, bensì quale esternazione dell’ulteriore volontà di differimento della pratica, questa volta comprensibile in termini motivazionali, seppure formalmente non imposta. L’atteggiamento di cautela assunto dal Comune di (omissis) a fronte di una tipologia di strumentazione urbanistica finalizzata alla prevenzione da rischi idraulici nell’utilizzo del territorio, peraltro, stride alquanto con la scelta di provare ad opporsi formalmente ai suoi contenuti, peraltro “proprio al fine di non pregiudicare i progetti edilizi in itinere” (v. pag. 17 della memoria del Comune dell’11 dicembre 2020). Il richiamato parere negativo espresso sul Piano, infatti, se da un lato conferma effettivamente la natura imprevista delle scelte della Provincia, dall’altro pare far emergere una preoccupazione per il loro impatto sulle procedure pendenti comprensibile solo, in termini di comparazione fra interessi in gioco, in ragione della larvata consapevolezza del loro sviluppo tutt’affatto celere.
8. Quanto alla presunta tardività dell’istanza risarcitoria, non può pertanto che convenirsi con l’appellante in ordine alla pendenza, quanto meno alla data di presentazione del ricorso di primo grado, del procedimento di rilascio del permesso di costruire, come meglio chiarito nel prosieguo, proprio in ragione della sostanziale rimessione in termini operata con la più volte richiamata nota soprassessoria del febbraio del 2006.
Al rigetto della relativa eccezione di inammissibilità, peraltro, potrebbe addivenirsi anche per altra via, stante che la normativa invocata, contenuta nell’art. 34 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo), non può essere applicata ai ricorsi incardinati in epoca antecedente alla sua entrata in vigore. Sul punto, infatti, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, A.P., 6 luglio 2015, n. 6) ha già avuto modo di chiarire che “nella specie non viene in rilievo un termine schiettamente processuale ma una fattispecie mista, qualificabile, al pari delle decadenze regolate dal codice civile (art. 2964), come istituto sostanziale a rilievo processuale, naturaliter operante solo per i fatti posteriori alla novità normativa”. Pure far coincidere la decorrenza del termine con l’entrata in vigore del codice “si tradurrebbe, in assenza di una qualsiasi base normativa, non già nell’estensione del termine decadenziale di legge, ancorato alla verificazione del fatto lesivo, ma nella creazione di un termine decadenziale di matrice pretoria, caratterizzato da un diverso dies a quo” (cfr. anche Corte cost. 31 maggio 2015, n. 57, laddove si afferma che l’art. 2 del Titolo II dell’Allegato 3 -Norme transitorie- al codice del processo amministrativo, “non è altrimenti interpretabile che nel senso della sua riferibilità anche (e a maggior ragione) all’ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual è quello di prescrizione, ed un termine processuale precedentemente non previsto, quale appunto il termine di decadenza sub art. 30 citato, essendo una diversa lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo, della sua riferibilità solo a termini processuali “in corso”) innegabilmente contra Constitutionem, per la compromissione, che ne deriverebbe, non solo della tutela ma della esistenza stessa della situazione soggettiva”).
In definitiva, l’eccezione di inammissibilità non può trovare accoglimento.
9. Afferma la difesa civica che nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione la previsione di cui all’art. 2 bis, comma 1 bis, della l. n. 241 del 1990, che prevede un mero indennizzo per la ritardata conclusione del procedimento. Ora, anche a prescindere, pure per tale disciplina, dalle evidenti problematiche di diritto intertemporale, essendo stata la norma de qua introdotta con la l. 18 giugno 2009, n. 69, nonché novellata dall’art. 28 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 9 agosto 2013, n. 98, essa non preclude la astratta configurabilità anche di un’azione di tipo risarcitorio, purché ovviamente sussistano tutti gli elementi della responsabilità civile (Cons. Stato, sez. IV, 22 maggio 2014, n. 2638). Non è irrilevante osservare al riguardo che con decreto del Ministro della Pubblica amministrazione recante “Linee di indirizzo per l’attuazione dell’art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69” si cercò da subito di chiarire proprio tale dibattuta circostanza, ricordando come l’indennizzo, a differenza del danno, sia dovuto anche nell’ipotesi di comportamento scusabile e astrattamente lecito. Quanto detto, peraltro, a prescindere dalla già ricordata difficoltà di individuazione di un termine di conclusione del procedimento, da ultimo “sospeso” in attesa dell’adozione dell’imminente variante al Piano di bacino.
L’eccezione in parola non può quindi trovare accoglimento.
10. Afferma la Società appellante che il diniego -recte, il ritardo nel rilascio- del permesso di costruire sarebbe illegittimo in quanto lo stesso le spettava di diritto, una volta verificata da parte della competente Commissione edilizia la conformità dell’intervento alla vigente disciplina urbanistica. Rileva il Collegio come il richiesto accertamento, ora per allora, della spettanza del bene della vita richiesto, esula dal perimetro dell’odierna decisione (se non nell’ottica di una valutazione di carattere controfattuale finalizzata a verificare il rispetto, da parte dell’amministrazione, dei necessari canoni di correttezza e buona fede nell’esame della domanda di parte). A tale proposito basti ricordare come la parte avrebbe potuto -recte, dovuto- utilizzare tutti i possibili rimedi per compulsare l’Amministrazione dopo la sigla della convenzione, non soltanto prima, onde ottenerne una decisione, esplicita o per silentium, autonomamente azionabile, in tempo utile a prevenire l’effettiva entrata in vigore delle contestate misure di salvaguardia del Piano di bacino provinciale.
Il perimetro dell’odierna controversia va dunque circoscritto alla richiesta di danno “da affidamento procedimentale mero”, intendendosi per tale quello cagionato “attraverso” la gestione procedurale, anche in relazione alla sua eccessiva e ingiustificata protrazione.
In particolare, secondo un recente e condiviso orientamento, si tratta di stabilire se nel caso in esame sia imputabile all’amministrazione la violazione dell’affidamento riposto dal privato nella correttezza dell’azione amministrativa avviata a seguito dell’instaurazione di un’contattò di carattere qualificato.
Si tratta di una tematica in sensibile ascesa nella ricostruzione da ultimo datane dai giudici di legittimità, che ne hanno peraltro affermato la riconduzione alla giurisdizione del G.O., anche con riferimento ad ambiti che comunque lambiscono materie di spettanza esclusiva del giudice amministrativo (cfr. Cass., SS.UU., ordinanza 28 aprile 2020, n. 8236, conseguita proprio ad una richiesta risarcitoria per l’avvenuta approvazione, dopo circa 4 anni dall’avvio del procedimento, di una variante preclusiva rispetto alle aspirazioni di un imprenditore, “deluso” nelle aspettative generate dalla concreta gestione procedurale).
Nel caso di specie, comunque, non si pongono questioni di giurisdizione stante che non è stato proposto un pertinente motivo di appello ex art. 9 c.p.a.
11. Il rilascio del permesso di costruire è, come noto, sottoposto, nell’interesse comune e per la salvaguardia di superiori valori, ad un regime di governo e controllo amministrativo.
La giurisprudenza ha, pertanto, da tempo chiarito che la definizione delle istanze di concessione edilizia (ora permesso di costruire), implicando un accertamento di carattere vincolato, costituito dalla verifica della conformità della richiesta con la normativa urbanistico-edilizia e con le regole recate da norme speciali (ad es. in materia sanitaria, antisismica, paesaggistica, ecc.), non necessita di altra motivazione oltre quella relativa alla rispondenza della stessa alle dette prescrizioni (Cons. Stato,sez. IV, 1 aprile 2011, n. 2050; in tal senso, anche Cons. Stato,sez. V, 30 giugno 2005, n. 3539).
12. Il procedimento di rilascio del permesso di costruire è disciplinato dall’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ne scansiona anche la relativa tempistica, consentendone l’interruzione per una sola volta per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino quelli presentati e che non siano già nella disponibilità dell’Amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. Le lungaggini istruttorie in ambito urbanistico-edilizio costituiscono tuttavia un fattore di criticità spesso portato ad esempio delle difficoltà pratiche connesse all’effettivo utilizzo degli strumenti di semplificazione via via introdotti dal legislatore. La non semplice ricerca di un punto di equilibrio tra la doverosa responsabilizzazione del privato, che deve darsi cura di corredare le proprie istanze con quanto necessario da subito ad attribuire loro consistenza e renderle “esaminabili” dall’Amministrazione e, quale contraltare, l’approccio collaborativo di quest’ultima, si gioca spesso proprio sulla auspicata unicità e tempestività delle richieste di integrazione, evitando la reiterazione dei contatti per il semplice tramite di una valutazione inziale esaustiva e trasparente. La problematica peraltro ha assunto contorni ancor più rilevanti in seguito al mutato significato del decorso del tempo da originario rifiuto del titolo in assenso allo stesso (art. 5, comma 2, lett. a), del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106, che ha riscritto in parte qua l’art. 20 del d.P.R. n. 380/2001). Da un lato, infatti, si pone un’esigenza di corretta individuazione del dies a quo a decorrere dal quale computare la maturazione del provvedimento tacito, non potendosi dare certo rilievo a istanze meramente strumentali in quanto prive finanche del corredo documentale e descrittivo richiesto dalla norma; nonché, all’opposto, di far sì che un atteggiamento ondivago o comunque insistito dell’Amministrazione finisca per vanificare la portata anche responsabilizzante dell’istituto, data la comprensibile ritrosia del privato ad accontentarsi di un atto non ostensibile all’organo di controllo. Da qui la nascita di opinabili prassi certificative, quale risposta all’esigenza di una formalizzazione purché sia, ontologicamente incompatibile con la ratio dell’istituto.
13. Si osserva al riguardo che la convenzione accessiva al titolo edilizio, utilizzata in particolare per regolamentare le possibili alternative alla monetizzazione degli oneri concessori, ha avuto nel tempo una funzione sempre più estesa, connotandosi in maniera anche atipica per la più variegata gamma di contenuti, estesi fino alla cessione di terreni in funzione della realizzazione dell’opera. L’esigenza di ricondurre l’esercizio dello ius aedificandi ad una cornice di buon governo del territorio, rende talvolta conveniente, infatti, per l’Amministrazione “scendere a patti”, richiedendo sforzi aggiuntivi al privato in termini di dare ovvero di facere, onde orientarne la maggiore libertà di movimento verso i propri obiettivi di programmazione, nel contempo ottimizzando le aspirazioni dello stesso a ricavare il massimo vantaggio dalla proprietà . Le varie tipologie di accordi siffatti vengono ormai per lo più ricondotte sotto l’egida dell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, così da iniettare nel paradigma pubblico generale i canoni del diritto civile “ove non diversamente previsto” e “in quanto compatibili” (art. 11, comma 2).
La Sezione ha già avuto modo di occuparsi della evoluzione, normativa, dottrinaria e giurisprudenziale dello schema sinallagmatico o unilaterale a corredo dell’assenso ad un intervento edilizio, alle cui conclusioni si fa qui integrale rinvio (cfr. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 579). Occorre tuttavia ricordare brevemente come la specificità di tali figure (fra cui rientra la convenzione che qui rileva) risieda nel fatto che, pur appartenendo al più ampio genus degli atti negoziali e dispositivi coi quali il privato assume obbligazioni, esse si caratterizzano per essere teleologicamente orientate al rilascio del titolo edilizio nel quale sono destinate a confluire quali “elementi accidentali” dello stesso, mutuando la terminologia di cui alla nota sistematica civilistica che distingue tra essentialia e accidentalia negotii (cfr. sul punto Cons. Stato, ancora sez. II, n. 579/2021, cit. supra; nonché sez. IV, 26 novembre 2013, n. 5628; Cass., Sez. Un., 11 luglio 1994, n. 6527; id., 20 aprile 2007, n. 9360). Si è perciò affermato che la convenzione, stipulata tra un Comune e un privato costruttore, con la quale questi, al fine di conseguire il rilascio di un titolo edilizio, si obblighi ad un facere o a determinati adempimenti nei confronti dell’ente pubblico (quale, ad esempio, la destinazione di un’area ad uno specifico uso), non costituisce un contratto di diritto privato, non avendo specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, configurandosi piuttosto come atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale, dal quale promanano poteri autoritativi della pubblica amministrazione (Cass.civ., sez. II, 10 febbraio 2020, n. 3058; id., 23 febbraio 2012, n. 2742). A valle, dunque, si pone il provvedimento amministrativo; a monte, l’accordo, via via paragonato alla accettazione della proposta pubblica, in quanto finalizzato a perseguire programmati e manifestati obiettivi urbanistici del Comune; ovvero al contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, secondo il modulo semplificato dell’art. 1333 c.c.; ovvero infine ad un mero atto negoziale, funzionale alla definizione consensuale del contenuto del provvedimento finale, che si iscrive nel procedimento di rilascio del titolo abilitativo edilizio ed è dallo stesso recepito.
14. Le norme di attuazione del P.R.G. del Comune di (omissis), approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale n. 39 del 29 febbraio 2000, consentivano la realizzazione di servizi pubblici, utilizzando specifici parametri edilizi, solo previa stipula di apposita convenzione che prevedesse un vincolo decennale di destinazione d’uso pubblico dell’area, nonché la cessione gratuita oppure l’uso pubblico di quella in soprassuolo. Nel caso di specie, pertanto, la necessaria conformità della richiesta del permesso di costruire avanzata dalla Società alla disciplina urbanistica si doveva tradurre prioritariamente nella sigla di un atto bilaterale dai contenuti minimi necessitati, salvo recepire le ulteriori richieste estetiche o funzionali avanzate dall’Amministrazione.
Una volta operata tale contestualizzazione, è possibile esaminare funditus la domanda risarcitoria in questa sede riproposta.
15. La questione della risarcibilità della lesione al tempo quale bene di per sé è oggetto di un dibattito giurisprudenziale e dottrinale dai risultati così complessi da rendere difficoltoso, in questa sede, ogni ulteriore approfondimento. La questione all’esame del Collegio attiene più propriamente alla valutazione in termini di correttezza o meno del comportamento del Comune non tanto e non solo con riferimento al titolo edilizio, isolatamente inteso, ma avuto riguardo alla stipula della convenzione destinata a confluire in esso, il cui ritardo ha finito per pregiudicarne il rilascio.
Più in generale, l’esame della vicenda procedimentale (infine risoltasi con il mancato rilascio del titolo e la mancata realizzazione dell’opera) rileva ai fini dell’indagine circa il rispetto, da parte dell’amministrazione, dei canoni di correttezza e buona fede, nella richiamata prospettiva risarcitoria.
Al riguardo, come già anticipato, la vicenda risarcitoria va inquadrata nell’ambito del c.d. “danno da affidamento procedimentale mero” il quale – secondo recenti e condivisi orientamenti – è configurato come ipotesi di responsabilità da contatto sociale qualificato. Secondo tale impostazione, il contatto tra privato e Pubblica Amministrazione deve essere inteso come il fatto idoneo a produrre obbligazioni “in conformità dell’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.) dal quale derivano reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione” (art. 1175 c.c., art. 1176 c.c. e art 1337 c.c.).
La teorica del danno da “contatto qualificato”, ha avuto un particolare sviluppo nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, anche con riferimento all’ambito della contrattualistica pubblica. Secondo parte della dottrina, tale ambito costituisce il terreno più fertile per lo sviluppo di un sistema istituzionale di diritto comune connotato dalla osmotica utilizzabilità di regole del diritto privato da parte dei titolari di pubblici poteri, quali in particolare i canoni di correttezza e buona fede di cui all’art. 1337 c.c., che impongono di valutare diligentemente le concrete possibilità di positiva conclusione della trattativa e di informare tempestivamente la controparte dell’eventuale esistenza di cause ostative rispetto a tale esito. Ciò in ragione dell’intersecarsi al suo interno di regole pubblicistiche e regole privatistiche, non in sequenza temporale, ma in maniera contemporanea e sinergica, sia pure con diverso oggetto e con diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione. L’equiparazione dell’Amministrazione che agisce nella procedura volta alla conclusione di un contratto ad un contraente privato fa sì che tutte le fasi della procedura si pongano quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale, non rilevando il solo momento successivo alla individuazione del contraente. Da qui la ravvisata necessità di progressiva anticipazione della soglia di rilevanza dei “contatti” cui attribuire astratta significatività a fini risarcitori, ravvisandola anche per quelli verificatisi nella fase antecedente l’aggiudicazione ovvero la pubblicazione del bando di gara (cfr. Cons. Stato, A.P., 4 maggio 2018, n. 5). Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A., dunque, le regole di correttezza e buona fede, che non necessariamente inficiano la validità del provvedimento finale, trasmodano in canoni di valutazione del comportamento complessivamente tenuto, quale fondamento della conseguente responsabilità .
Le acquisizioni appena richiamate sono (almeno in parte) invocabili anche in relazione alla vicenda per cui è causa, nel cui ambito la protrazione di una lunga fase procedimentale e l’intervenuta sottoscrizione di una convenzione testimoniavano l’esistenza di un radicato e qualificato contatto fra il privato e l’amministrazione e l’avanzamento di un procedimento che il privato poteva (e doveva) pretendere svolto secondo i più volte richiamati canoni della correttezza e della buona fede.
La Corte di Cassazione, del resto, pronunciandosi peraltro sulla giurisdizione, ha riconosciuto la risarcibilità del danno all’affidamento che il privato abbia riposto nella condotta procedimentale dell’amministrazione, la quale si sia poi determinata in senso sfavorevole, indipendentemente da ogni connessione con l’invalidità provvedimentale o, come precisato, dalla stessa esistenza di un provvedimento (cfr. Cass., SS.UU., ordinanza n. 8236 del 2020, cit. sub § 10).
16. D’altro canto, il dovere di correttezza ha nel tempo conquistato una funzione (ed un conseguente ambito applicativo) certamente più ampia rispetto a quella concepita dal codice civile del 1942, che lo collocava nella visione economica corporativistica dell’epoca e in tale ridotta accezione imponeva di leggere anche la susseguente solidarietà . Esso, cioè, non è più considerato strumentale solo alla conclusione di un contratto valido e socialmente utile; bensì, alla “tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza” (v. ancora A.P. n. 5/2018). Ciò ha portato la discussione sull’intensità e pregnanza del momento relazionale e della forza dell’affidamento da esso ingenerato necessari a dare rilievo al canone della correttezza come mera modalità comportamentale, distinguendosi altresì i casi in cui la violazione dà vita ad un illecito riconducibile al generale dovere del neminen laedere di cui all’art. 2043 c.c. da quelli in cui pare affiorare una vera e propria obbligazione nascente dal “contatto sociale” qualificato.
17. Come la Sezione ha già avuto modo di rilevare (Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237), anche la legislazione ha assecondato progressivamente tale lettura ampia del dovere delle amministrazioni pubbliche di comportarsi secondo correttezza nei rapporti con i cittadini. Significativa in tale direzione la recentissima modifica dell’art. 1 della l. 7 agosto 1990, n. 241, rubricato “Principi generali dell’attività amministrativa”, mediante l’introduzione del comma 2 bis, che contiene proprio la positivizzazione della regola in forza della quale “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede”, riferendola al procedimento amministrativo più in generale (v. art. 12 della l. 11 settembre 2020, n. 120, con il quale la previsione è stata inserita nel testo originario, modificando sul punto – in sede di conversione – il d.l. 16 luglio 2020, n. 76, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali”, c.d. decreto “Semplificazioni”).
Ciò d’altro canto costituisce il naturale sviluppo, in recepimento dei ricordati arresti giurisprudenziali, di un andamento i cui prodromi erano già ravvisabili nell’importante riforma attuata con la l. 11 febbraio 2005, n. 15, che a sua volta aveva introdotto, all’epoca attraverso la riformulazione del comma 1 della medesima norma, il richiamo ai principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali assume un rilievo primario proprio la tutela dell’affidamento legittimo. Tale principio, infatti, sebbene non espressamente contemplato dai Trattati, è stato più volte affermato dalla Corte di giustizia (a partire dalla sentenza Topfer del 3 maggio 1978, C-12/77), che lo ha elevato al rango di principio dell’ordinamento comunitario.
18. Secondo i richiamati orientamenti, la responsabilità scaturente dalla lesione dell’affidamento del privato entrato in relazione con la Pubblica Amministrazione va configurata come responsabilità da contatto sociale qualificato. In tale ottica, il contatto tra privato e Pubblica Amministrazione va inteso quale fatto idoneo a produrre obbligazioni “in conformità dell’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.), con conseguente emersione di reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione (art. 1175 c.c., art. 1176 c.c. e art 1337 c.c.).
Si è altresì osservato che, nella giurisprudenza amministrativa, la tematica del contatto sociale qualificato è stata particolarmente approfondita nel settore degli affidamenti di appalti pubblici.
19. L’edilizia convenzionata, nell’accezione ampia poc’anzi richiamata, che ha trasceso notevolmente i confini dell’originario modello di cui all’omonima rubrica dell’art. 6 della l.n. 10 del 1977, riferibile agli accordi funzionali a calmierare i prezzi di vendita o di locazione degli immobili ad uso residenziale, presenta – a ben vedere – taluni tratti comuni con la contrattualistica pubblica.
In essa tuttavia ridetto momento decisionale è connotato da maggiore discrezionalità, mancando la rigida procedimentalizzazione a monte che caratterizza finanche la fase di scelta del contraente tipica dell’altro ambito. E tuttavia il fatto stesso che la fase autoritativa sia preceduta da un momento volontaristico e consensuale, accentua, in primo luogo con riferimento allo stesso, l’esigenza di utilizzare i richiamati principi di correttezza relazionale.
20. In sintesi, non solo nel caso di specie si è ingenerata un’aspettativa tutelabile in ragione della lunga gestione procedurale, contrassegnata da continue richieste che lasciavano ben sperare in un esito positivo della valutazione, ma essa è ancor più palese in ragione del collocarsi delle stesse nella fase (a matrice tipicamente consensuale e volontaristica) propedeutica al rilascio del titolo.
Le reiterate interlocuzioni stimolate dal Comune, infatti, del tutto aliene da sopravvenienze di fatto o di diritto che ne giustificassero la proposizione, non potevano non rafforzare l’idea che l’accordo andasse a buon fine (il che è in effetti avvenuto con la stipula della convenzione – novembre 2005) e, conseguentemente, si addivenisse al rilascio del permesso di costruire (il che non è mai avvenuto), essendo la relativa progettualità già stata vagliata positivamente dalla Commissione edilizia. Emblematiche dell’atteggiamento tenuto dal Comune di (omissis) si palesano le richieste concernenti l’assetto del soprassuolo: dopo aver condizionato l’assenso al progetto alla previsione della ” manutenzione e pulizia del giardino a carico del soggetto attuatore e la previsione di Phoenix Dactilifere con adeguamento delle vasche di contenimento terra e congrua fideiussione ” (nota del 29 marzo 2002); ha successivamente richiesto, questa volta “informalmente”, di procedere alla piantumazione nelle aiuole di copertura di dieci di tali palme dattilifere di m. 5 di fusto al posto delle canariensis previste nel progetto e già messe in vaso; salvo poi comunicare (richiesta del 18 luglio 2005) che “sentito il Sindaco, era necessario procedere affinché la proposta di Convenzione ed il progetto fossero riformulati con l’eliminazione dei “giochi bimbi, le sedute in muratura e la fontana”. Con ciò evidenziando anche una non chiara ripartizione delle competenze, essendosi dato rilievo finanche ai desiderata del Sindaco, che comunque avrebbero ben potuto -recte, dovuto- confluire nelle richieste originarie e non sopravvenire a distanza di anni, in assenza peraltro di alcuna esplicitata ragione aggiuntiva. Quanto detto a tacere delle richieste meramente formali, ed egualmente defatiganti, autonomamente avanzate dagli uffici, quali la riferita necessità di mutamenti lessicali (es., sostituzione all’art. 4 della bozza originaria, della frase “affinché ne faccia” in luogo di quella presente “per farne”), sicuramente risolvibili per le vie brevi.
21. In conclusione, il Collegio ritiene di aver sufficientemente chiarito che nel caso di specie si verte nell’ambito di un danno da affidamento procedimentale generato dal comportamento dell’Amministrazione che, unitamente al fattore tempo, ha determinato la legittima aspettativa della Società al rilascio del provvedimento richiesto (e indipendentemente dalla sua effettiva spettanza). Il ritardo con il quale si è addivenuti alla stipula della convenzione, cioè, non assume rilievo risarcitorio autonomo, ma in quanto elemento indicativo e – in qualche misura – costitutivo di tale comportamento affidante.
Anche la inutilità delle trattative si inserisce in tale contesto, tanto più che essa è tale non in relazione all’accordo, alla fine concluso, bensì con riferimento alla inutilizzabilità dello stesso quale condizione di rilascio del titolo edilizio. Ciò consente di escludere suggestivi ipotetici richiami ad una qualche forma di responsabilità precontrattuale, stante che la circostanza che il ritardo attenga alla fase consensuale non consente di elevare la stessa da mezzo a fine dell’azione amministrativa, attesa la sua richiamata collocazione meramente endoprocedimentale, in funzione del futuro titolo edilizio.
Il Collegio ritiene tuttavia di poter mutuare, ai fini della quantificazione del danno, ai principi rivenienti dagli arresti dei giudici di legittimità, che nell’applicare la regola della responsabilità da lesione dell’affidamento, attingono comunque i canoni di correttezza e buona fede sanciti dall’art. 1337 c.c. nel pur diverso ambito della responsabilità di carattere precontrattuale.
L’incolpevole affidamento nel rilascio del permesso, neppure formalmente denegato in via definitiva, ha comportato infatti un pregiudizio economico regolarmente documentato che non può non essere risarcito quale voce di danno emergente, non potendo invece assumere rilievo il mancato guadagno che sarebbe conseguito alla realizzazione dell’opera. E ciò in quanto, come più volte osservato, non emerge in atti che l’appellante avrebbe senz’altro avuto diritto al rilascio dell’invocato titolo edilizio.
Del resto, la sopravvenienza rappresentata dall’adozione – e successiva approvazione – del Piano di bacino ha comportato (e avrebbe comunque comportato, indipendentemente dal contegno del Comune) l’impossibilità di realizzare il progettato intervento.
La Corte di Cassazione ha al riguardo distinto i parametri del risarcimento, affermando appunto che “in tema di responsabilità ex articolo 1337 del c.c., l’ammontare del danno va determinato tenendo conto della peculiarità dell’illecito e delle caratteristiche della responsabilità stessa, la quale, nel caso d’ingiustificato recesso dalle trattative, postula il coordinamento tra il principio secondo il quale il vincolo negoziale sorge solo con la stipulazione del contratto e l’altro secondo il quale le trattative debbono svolgersi correttamente. Pertanto, non essendo stato stipulato il contratto e non essendovi stata la lesione dei diritti che dallo stesso sarebbero nati, non può essere dovuto un risarcimento equivalente a quello conseguente all’inadempimento contrattuale; mentre, essendosi verificata la lesione dell’interesse giuridico al corretto svolgimento delle trattative, il danno risarcibile è unicamente quello consistente nelle perdite che sono derivate dall’aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perdute” (cfr. Cass. civ., Sez. III, 10 giugno 2005, n. 12313).
22. Rispetto alla cifra rivendicata dalla Società, pari ad euro 67.252,00, corrispondenti agli onorari dei due professionisti incaricati, il Collegio ritiene di dovere intervenire in riduzione (non essendone possibile un’esatta quantificazione e in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c.), determinandone l’importo in euro 30.000,00. Ciò in quanto occorre tenere conto del minimo di progettualità iniziale comunque necessaria all’instaurazione del procedimento, parificabile ai costi per il confezionamento dell’offerta in via fisiologica in una gara pubblica, e come tale non computabile, quanto meno nella sua interezza.
Quanto al comportamento tenuto dalla stessa Società nello sviluppo procedimentale, mentre non assume rilievo in termini di concausa del danno la mancata impugnativa delle richieste istruttorie del Comune, siccome pretenderebbe la difesa civica, non può non rilevarsi l’inerzia, quanto meno in termini formali, da essa serbata nel lasso di tempo intercorso tra l’ultima richiesta della Giunta del 2002 e la diffida del 2004, mitigata solo dal riferito costante “monitoraggio” da parte dei tecnici, incontestato dal Comune.
23. In conclusione, dunque, l’appello va accolto in parte e per l’effetto va riconosciuto alla Società, in via equitativa, quale interesse negativo corrispondente alle spese indebitamente affrontate in ragione dell’affidamento riposto nello sviluppo della convenzione edilizia (e in parte ristorabili), l’importo di euro 30.000,00.
24. Le spese del presente giudizio possono invece essere integralmente compensate fra le parti, stante la complessità della vicenda contenziosa e delle questioni esaminate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, e per l’effetto in riforma della sentenza del T.A.R. per la Liguria n. 505/2012, accoglie il ricorso n. r.g. 399 del 2006 limitatamente alla somma indicata in motivazione.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2021, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Claudio Contessa – Presidente
Italo Volpe – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere, Estensore
Cecilia Altavista – Consigliere
Carla Ciuffetti – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *