In caso di posizionamento di impianti nel sottosuolo da parte dei gestori dei servizi a rete

Consiglio di Stato, sezione V, Sentenza 11 ottobre 2018, n. 5862

La massima estrapolata:

In caso di posizionamento di impianti nel sottosuolo da parte dei gestori dei servizi a rete, il Comune può prevedere, oltre al pagamento della tassa o del canone per l’occupazione di aree stradali, un contributo aggiuntivo per coprire gli oneri per il ripristino del manto stradale che gravano sul bilancio municipale.

Sentenza 11 ottobre 2018, n. 5862

Data udienza 19 luglio 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale

Sezione Quinta

ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 6682 del 2009, proposto da
En. Di. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gu. Gr., Ma. Mu. e Ca. To., con domicilio eletto presso lo studio legale dell’avvocato Ma. Ca. in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Terza n. 00201/2009, resa tra le parti, concernente contributo aggiuntivo per occupazione temporanea di suolo pubblico.
Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 luglio 2018 il Cons. Valerio Perotti ed udito per le parti l’avvocato Ce. Ma., in dichiarata delega dell’avvocato Gu. Gr.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Risulta dagli atti che con deliberazione consiliare n. 13 del 29 febbraio 2000, il Comune di (omissis) aveva tra l’altro stabilito un contributo aggiuntivo per l’occupazione temporanea di suolo pubblico pari a lire 23.100 al metro lineare di scavo (con un minimo di lire 200.000) ed una maggiorazione di lire 7.700 al mq per gli interventi superiori ad 1 metro di larghezza.
Ciò dopo aver preso atto che il posizionamento e la gestione di impianti nel sottosuolo comunale da parte degli enti gestori dei servizi a rete era causa di oneri periodici di manutenzione del manto stradale gravanti sul bilancio municipale: per l’effetto, l’occupazione temporanea delle aree stradali veniva condizionata al versamento di un contributo aggiuntivo al pagamento della Tosap, con conseguente modifica del regolamento per l’occupazione degli spazi e delle aree pubbliche.
Avverso tale provvedimento En. Di. s.p.a. proponeva ricorso al Tribunale amministrativo della Lombardia, deducendo i seguenti motivi di doglianza:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 63 comma 3 del D.Lgs 15/12/1997 n. 446, del D.Lgs 15/11/1993 n. 507 e dell’art. 23 Cost. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e dei presupposti di fatto e diritto, per illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Secondo la ricorrente, la possibilità di imporre ai soggetti che chiedono di occupare aree e spazi pubblici un contributo per eventuali oneri di manutenzione sarebbe stata consentita solo nel caso in cui i Comuni avessero deciso di sostituire la “tassa” di occupazione prevista dal d.lgs. n. 507 del 1993 con il “canone” di cui all’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997.
Non avendo operato una siffatta opzione il Comune di (omissis), lo stesso non avrebbe avuto il potere di subordinare l’occupazione delle aree pubbliche al pagamento di oneri ulteriori ed aggiuntivi rispetto alla tassa a tal fine prevista dalla legge. La contraddizione di tale principio avrebbe per contro determinato una violazione della riserva di legge prevista dall’art. 23 della Costituzione.
Gli oneri contestati, inoltre, avrebbero costituito una sostanziale duplicazione degli obblighi “di facere” tesi al ripristino del manto stradale, imposti con l’atto di concessione del suolo pubblico.
Il Comune di (omissis) non si costituiva in giudizio.
Con sentenza 23 gennaio 2009, n. 201, il Tribunale amministrativo della Lombardia respingeva il ricorso, sul presupposto che la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Tosap) fosse compatibile con il pagamento di un “canone” concessorio, avendo tale provento – previsto espressamente dall’art. 17, comma 63, della l. 15 maggio 1997 n. 127 – natura e fondamento del tutto diversi dalla “tassa” istituita con il d.lgs. n. 507 del 1993.
Avverso tale decisione la società En. Di. s.p.a. interponeva appello, articolato nei seguenti motivi di impugnazione:
1) Erroneità della sentenza di primo grado per aver ritenuto legittima l’imposizione di una somma (oltre la Tosap) non prevista da alcuna norma di legge (violazione dell’art. 23 Cost.) – Violazione per falsa applicazione dell’art. 17, co. 63, l. n. 127/1997.
2) Erroneità della sentenza di primo grado per aver consentito “l’imposizione di determinate somme di denaro a titolo di rimborso forfettario” – Violazione e falsa applicazione dell’art. 63, comma 3 d.lsg. 15.12.1997, n. 446 – Omessa pronuncia – Difetto di motivazione ed istruttoria.
Il Comune di (omissis) non si costituiva in giudizio.
Successivamente, in data 14 giugno 2018 l’appellante depositava una memoria con la quale ulteriormente precisava le proprie difese. Quindi, all’udienza del 19 luglio 2018, dopo la rituale discussione, la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

Con il primo motivo di appello, En. Di. s.p.a. deduce la violazione dell’art. art. 17 comma 63 della l. 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), limitandosi tale disposizione a precisare che “Il consiglio comunale può determinare le agevolazioni sino alla completa esenzione dal pagamento della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, per le superfici e gli spazi gravati da canoni concessori non ricognitori”.
Tale disposizione, finalizzata ad evitare una doppia imposizione fiscale, presenterebbe analogie con quanto previsto dall’ultima parte del comma 3 dell’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 (istitutivo dell’imposta regionale sulle attività produttive e di riordino della disciplina dei tributi locali).
Tale norma non potrebbe quindi essere interpretata come facoltizzante l’imposizione di nuovi canoni non previsti da altra disposizione, pena una violazione del generale divieto di imporre prestazioni personali o patrimoniali se non in base alla legge, di cui all’art. 23 Cost.
Il motivo è fondato. Invero, la norma richiamata dal giudice di prime cure (par lecito ritenere, ad avviso del Collegio, per refuso) non solo non viene richiamata nelle deliberazioni consiliari che disponevano il canone oggetto di contestazione, ma neppure prevede, a differenza di quella espressamente indicata nelle deliberazioni predette, la possibilità di pretendere un canone di concessione per l’uso o l’occupazione delle strade aggiuntivo rispetto a Cosap o Tosap.
Con il secondo motivo di appello viene invece dedotta una violazione dell’art. 63, comma 3 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, per difetto di presupposti.
In primo luogo, l’amministrazione non avrebbe adeguatamente chiarito cosa intendeva con l’espressione “oneri di manutenzione”, non assimilabili ad una remunerazione per il degrado del manto stradale; inoltre detti oneri non sarebbero stati assolutamente comprovati dal Comune, richiedente piuttosto un corrispettivo a titolo forfetario.
En. Di., peraltro, avrebbe eseguito i lavori di ripristino del manto stradale in precedenza manomesso a regola d’arte, mentre l’amministrazione non avrebbe fornito la prova che il lavoro di copertura delle strade avesse comunque determinato un qualche pregiudizio del tracciato stradale.
In ogni caso, i contributi richiesti non avrebbero potuto essere cumulati con la Tosap, ma al più portati in deduzione da quest’ultima, atteso che l’ultima parte del citato art. 63 comma 3 statuisce che “dalla misura complessiva del canone ovvero della tassa prevista al comma 1 va detratto l’importo di altri canoni previsti da disposizioni di legge, riscossi dal comune e dalla provincia per la medesima occupazione, fatti salvi quelli connessi a prestazioni di servizi”. Nel caso di specie, però, non ricorrerebbe quest’ultima ipotesi, in quanto i contributi imposti a carico dei soggetti autorizzati ad occupare il suolo pubblico erano giustificati esclusivamente dall’esigenza del Comune di rientrare nella maggior parte dei costi sostenuti.
A sostegno del proprio ragionamento, l’appellante richiama anche la circolare del Ministero dell’economia e delle finanze n. 1/DF del 20 gennaio 2009.
Ad un complessivo esame delle risultanze di causa, il motivo non risulta fondato, imponendosi peraltro una più puntuale motivazione del rigetto del ricorso introduttivo, rispetto a quanto argomentato dal giudice di prime cure.
Ritiene infatti il Collegio che possa trovare applicazione, per omogeneità di ratio, il consolidato principio, elaborato in relazione al canone concessorio non ricognitorio di cui all’art. 27, commi 7 ed 8, del d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (Nuovo Codice della Strada), per cui cui è possibile per l’amministrazione comunale pretendere un canone di concessione per l’uso o l’occupazione delle strade, anche nell’ipotesi in cui per la stessa occupazione sia già corrisposta la Tosap o la Cosap (sul punto, anche Cass. civ., Sez. V, 27 ottobre 2006, n. 23244 e 31 luglio 2007, n. 16914), laddove tale entrata patrimoniale sia fondata su una specifica disposizione di legge (ex multis, Cons. Stato, V, 26 marzo 2003 n. 1751; IV, 22 aprile 1996, n. 524; II, 18 gennaio 2017, n. 120; V, 2 novembre 2017, n. 5071; V, 31 dicembre 2014, n. 6459).
Ai fini descrittivi, va detto che il canone concessorio non ricognitorio è un corrispettivo dovuto ad un’amministrazione come controprestazione per l’uso particolare del suolo pubblico, ed è differente da quello definito ricognitorio, determinato senza tener conto dei parametri del beneficio economico (o del danno arrecato, anche in prospettiva futura) relativi all’occupazione del suolo.
Tale possibilità trova fondamento, in termini generali, innanzitutto nel richiamato nell’art. 27, del d.lgs. n. 285 del 1992, per cui “La somma dovuta per l’uso o l’occupazione delle strade e delle loro pertinenze può essere stabilita dall’ente proprietario della strada in annualità ovvero in unica soluzione.
Nel determinare la misura della somma si ha riguardo alle soggezioni che derivano alla strada o autostrada, quando la concessione costituisce l’oggetto principale dell’impresa, al valore economico risultante dal provvedimento di autorizzazione o concessione e al vantaggio che l’utente ne ricava”.
Tale orientamento si fonda, come ricordato dal primo giudice, sulla considerazione della diversità di natura dei due istituti: mentre il canone di concessione trova la sua giustificazione nella necessità per l’ente pubblico proprietario del terreno di trarre un corrispettivo per l’uso esclusivo e per l’occupazione dello spazio concessi contrattualmente o in base a provvedimento amministrativo a soggetti terzi (corrispettivo che può anche corrispondere, in tutto o in parte, al ristoro per l’eventuale deminutio patrimoniale patita dall’amministrazione in conseguenza dell’uso del bene fatto dall’utilizzatore), la tassa di occupazione di spazi e aree pubbliche è istituto di diritto tributario, dovuta al Comune quale ente impositore al verificarsi di determinati presupposti, ritenuti dal legislatore indici seppure indiretti di capacità contributiva.
Ne consegue che al canone concessorio non può essere attribuita natura di prestazione patrimoniale imposta, e quindi non ha fondamento la censura di violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.
Nel caso di specie, come si legge nel preambolo della relativa deliberazione consiliare prodotta in atti, n. 13 del 29 febbraio 2000 (prot. 2811), base normativa del canone contestato dall’appellante era l’art. 18, comma 2 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), recante modifica al comma 3 dell’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, nel quale viene espressamente prevista la possibilità di adottare una maggiorazione di quanto già ordinariamente dovuto a titolo di Tosap o Cosap, in presenza “di eventuali oneri di manutenzione derivanti dall’occupazione del suolo e del sottosuolo”.
Ad avviso dell’appellante, due sarebbero i vizi inficianti la richiesta di pagamento del canone: in primo luogo, gli eventuali oneri aggiuntivi andavano rigorosamente provati dall’amministrazione (ai sensi della l. n. 166 del 2002), il che non si sarebbe verificato nel caso di specie; inoltre, ai sensi del predetto art. 63 comma 3, dalla misura complessiva del Cosap o della Tosap avrebbe comunque dovuto essere detratto “l’importo di altri canoni previsti da disposizioni di legge riscossi dal comune […] fatti salvi quelli connessi a prestazioni di servizi”.
Per l’effetto, ove mai i canoni aggiuntivi richiesti fossero stati previsti da specifiche disposizioni di legge, avrebbero comunque dovuto essere detratti dal canone o dalla tassa precedentemente pagata.
La tesi del ricorrente da ultimo esposta era frutto di un evidente errore nella lettura della norma ed, in parte, anche di una contraddizione con le sue stesse premesse: invero, se la base normativa del canone supplementare richiesto era giustappunto il predetto art. 63 comma 3 (come riconosciuto dalla stessa En. Di. s.p.a. fin dal proprio ricorso introduttivo), certo non si sarebbe potuto sostenere, allo stesso tempo, che detto canone non avesse una precisa base normativa.
Né lo stesso avrebbe comunque dovuto essere portato in detrazione da quanto già corrisposto a titolo di Cosap o Tosap, dal momento che la norma che lo prevede lo qualifica espressamente come aggiuntivo a questi ultimi (in quanto giustificato da maggiori oneri a carico dell’amministrazione per effetto dell’uso o dell’occupazione del suolo pubblico).
La disposizione richiamata dall’appellante, infatti, va riferita – in ragione del tenore testuale della medesima e per evidenti esigenze di coerenza logica – ad altri ipotetici canoni previsti da disposizioni di legge, ovviamente diverse dal predetto art. 63 comma 3, “riscossi dal comune e dalla provincia per la medesima occupazione”.
Circa poi la dedotta mancata dimostrazione di tali maggiori oneri, correttamente la sentenza appellata evidenziava come la stessa risiedesse invece nella relazione dirigenziale allegata alla delibera impugnata, nella quale veniva chiarito che gli oneri aggiuntivi in questione non erano finalizzati all’esecuzione delle opere di copertura degli scavi necessarie per ripristinare nell’immediato il manto stradale, ma costituivano un contributo destinato a coprire la maggiore usura che inevitabilmente deriva dai frequenti interventi di scavo ed interramento a cui esso era sottoposto.
Tale maggior onere, relativo alla costruzione di linee elettriche interrate (comportanti la necessità di scavi con manomissione parziale del manto stradale e successivo ripristino, per quanto possibile, dello stato dei luoghi), viene riferito dalla relazione di cui si è detto a dati di comune esperienza e di carattere presuntivo, quali la circostanza per cui “i ripieni eseguiti non evitino nel termine di uno o due anni successivi, la necessità di risagomare le strade oggetto dell’intervento, ricostruendone la curvatura originale mediante […] la fresatura, il livellamento degli avvallamenti, il rilivellamento di caditoie, camerette, saracinesche ed altri chiusini affioranti sul filo stradale, e in ogni intervento la stesura del nuovo tappetino stradale”.
Ritiene il Collegio che l’onere della prova ricadente sull’amministrazione, ai sensi dell’art. 63, comma 3 primo periodo del d.lgs. n. 446 del 1997 (così come modificato dall’art. 10, comma 2 della l. 1° agosto 2002, n. 166) ben possa essere assolto, come nel caso di specie, con il ricorso a criteri presuntivi, ferma ovviamente la possibilità, per la parte controinteressata, di dimostrare l’erroneità o l’implausibilità di quanto sostenuto dalla parte pubblica.
Dimostrazione che non è stata però fornita dall’appellante, limitandosi quest’ultima a denunciare, in termini generali, la presunta carenza di prova da parte del Comune e l’inidoneità della relazione tecnica allegata al provvedimento impugnato a soddisfare tale esigenza.
Conclusivamente, alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello va dunque respinto confermandosi la sentenza impugnata con la diversa motivazione sopra indicata.
Nulla va invece statuito in merito alle eventuali spese di lite, non essendosi costituito in giudizio il Comune di (omissis).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge nei sensi di ci in motivazione.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 luglio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Roberto Giovagnoli – Presidente FF
Valerio Perotti – Consigliere, Estensore
Federico Di Matteo – Consigliere
Angela Rotondano – Consigliere
Stefano Fantini – Consigliere

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