Sentenza 20/2019
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: LATTANZI – Redattore: ZANON
Udienza Pubblica del 20/11/2018; Decisione del 23/01/2019
Deposito del 21/02/2019; Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 14, c. 1°-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14/03/2013, n. 33.
Massime:
Atti decisi: ord. 167/2017
Corte Costituzionale
Data udienza 4 luglio 2018
SENTENZA N. 20
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, con ordinanza del 19 settembre 2017, iscritta al n. 167 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti l’atto di costituzione di R. A. e altri, nonché l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 novembre 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Micaela Grandi e Stefano Orlandi per R. A. e altri e l’Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 19 settembre 2017, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 5 della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
Le indicate disposizioni – inserite dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) – vengono censurate «nella parte in cui prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettere c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali».
1.1.– Il TAR Lazio espone che i ricorrenti nel giudizio a quo – dirigenti di ruolo inseriti nell’organico dell’ufficio del Garante per la protezione dei dati personali – agiscono per l’annullamento: della nota del Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 34260/96505 del 14 novembre 2016; delle note del medesimo organo, n. 37894/96505, n. 37897/96505, n. 37899/96505, n. 37892/96505, n. 37893/96505, n. 37898/96505, del 15 dicembre 2016, «previa eventuale disapplicazione dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33», oppure previa rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea o alla Corte costituzionale «della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni sopra citate con la normativa europea e costituzionale».
Il medesimo TAR rileva che la nota n. 34260/96505 del 14 novembre 2016 del Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali – in adempimento delle prescrizioni previste all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino nel proprio sito web alcuni dati relativi ai titolari di incarichi dirigenziali – ha invitato i ricorrenti a inviare entro un dato termine la relativa documentazione, e precisamente: copia dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando i dati eccedenti; dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la pubblicità della situazione patrimoniale, da rendersi secondo uno schema allegato alla richiesta; dichiarazione di negato consenso per il coniuge non separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, in caso di avvenuta prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei redditi dei suddetti soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicità delle rispettive situazioni patrimoniali; dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre cariche presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica assunte dagli interessati.
Ricorda poi che alla violazione dell’obbligo di comunicazione consegue, ai sensi dell’art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, una sanzione amministrativa, parimenti soggetta a pubblicazione, a carico del singolo dirigente responsabile della mancata comunicazione.
1.2.– Il TAR Lazio ricostruisce, nel suo sviluppo storico, il quadro normativo pertinente agli obblighi di trasparenza gravanti sui dirigenti pubblici, fino allo stato attuale, risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 97 del 2016.
Quest’ultimo ha equiparato gli obblighi di trasparenza gravanti sui dirigenti a quelli imposti ai titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo di livello statale, regionale e locale, attraverso l’introduzione del censurato comma 1-bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, a norma del quale «[l]e pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione».
Il comma 1 dell’art. 14 appena citato indica come oggetto dell’obbligo di comunicazione i seguenti dati: a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti; e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti; f) le dichiarazioni e le attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n. 441 (Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti) – relative alla dichiarazione dei redditi e alla dichiarazione dello stato patrimoniale, quest’ultima concernente il possesso di beni immobili o mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie –, limitatamente al soggetto interessato, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano, con la previsione che venga data evidenza al mancato consenso.
1.3.– In questo contesto, il rimettente rileva che, secondo i ricorrenti, il livello di trasparenza richiesto dalla normativa appena illustrata determinerebbe il trattamento giuridico dei dati indicati a carico di un notevolissimo numero di soggetti, approssimativamente stimati in circa centoquarantamila unità, senza contare né i coniugi né i parenti fino al secondo grado, in base a elaborazioni attribuite all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Ricorda che essi sottolineano il carattere limitativo della riservatezza individuale di un trattamento che non troverebbe rispondenza in alcun altro ordinamento nazionale, ponendosi in contrasto con il «principio di proporzionalità di derivazione europea». Il trattamento in questione si fonderebbe «sull’erronea assimilazione di condizioni non equiparabili fra loro (dirigenti delle amministrazioni pubbliche e degli altri soggetti cui il decreto si applica e titolari di incarichi politici)», prescindendo «dall’effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta».
1.4.– Riferisce il TAR Lazio che, con ordinanza n. 1030 del 2 marzo 2017, la domanda di sospensione interinale dell’esecuzione degli atti gravati, incidentalmente formulata in ricorso, è stata accolta.
1.5.– Il rimettente, in via preliminare, articola un’ampia motivazione per rigettare l’eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione, avanzata, nel giudizio a quo, dal Garante per la protezione dei dati personali, sulla scorta dell’espressa previsione della devoluzione delle controversie al giudice ordinario prevista dall’art. 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella formulazione vigente al momento della proposizione del ricorso.
In particolare osserva che, nel giudizio in esame, si discute non dell’applicazione di norme del d.lgs. n. 196 del 2003 o di provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o di loro mancata adozione, bensì di questioni e provvedimenti che afferiscono alle norme in materia di trasparenza, di cui al d.lgs. n. 33 del 2013, con conseguente applicabilità dell’art. 50 del testo legislativo da ultimo citato, a norma del quale «[l]e controversie relative agli obblighi di trasparenza previsti dalla normativa vigente sono disciplinate dal decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104». Ne deriverebbe la giurisdizione del giudice amministrativo, dal momento che l’art. 133, comma 1, lettera a), numero 6, dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) indica, tra le materie di giurisdizione esclusiva attribuite al giudice amministrativo, il «diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa».
1.6.– Rigettate altre eccezioni preliminari, il rimettente enumera le fonti sovranazionali rilevanti nel caso di specie, soffermandosi, in particolare, sugli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, ed evidenziando come i principi da essi espressi siano stati confermati nella nuova normativa in materia di protezione dei dati personali di cui al regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), entrato in vigore il 24 maggio 2016, pur con efficacia differita al 25 maggio 2018.
Dalle illustrate disposizioni il rimettente ricava il principio secondo cui la tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, non osta a una normativa nazionale che imponga la raccolta e la divulgazione dei dati sui redditi dei dipendenti pubblici, a condizione, però, che sia provato che la divulgazione, laddove puntuale, ovvero riferita anche ai nominativi dei dipendenti, risulti necessaria e appropriata per l’obiettivo di buona gestione delle risorse pubbliche.
Secondo il TAR Lazio, infatti, i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza costituiscono il canone complessivo che governa il rapporto tra esigenza, privata, di protezione dei dati personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza.
1.7.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia la necessità di adottare un sistema rigido di prevenzione della corruzione, la cui percezione è da intendersi anche come carenza di trasparenza, ma afferma che ciò dovrebbe avvenire sempre nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza delle misure adottate.
Afferma, in particolare, che «la denunzia di incompatibilità con la normativa europea e costituzionale formulata dai ricorrenti in relazione ai contestati dati oggetto di divulgazione risulta non manifestamente infondata», sotto i profili di seguito elencati.
1.8.– Quanto alla equiparazione dei dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici (originari destinatari della previsione di cui all’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013) e all’assenza di qualsiasi differenziazione tra le figure dirigenziali, il rimettente osserva che la previsione normativa violerebbe l’art. 3 Cost. perché assimilerebbe condizioni che, «all’evidenza, non sono equiparabili fra loro», per «genesi, struttura, funzioni esercitate e poteri statali di riferimento».
A tale proposito evidenzia che i rapporti e le responsabilità che correlano le due figure ai cittadini si collocano su piani non comunicanti, ciò che renderebbe «del tutto implausibile la loro riconduzione, agli esclusivi fini della trasparenza, nell’ambito di un identico regime».
1.9.– La mancata differenziazione tra le categorie dirigenziali soggette alla misura, in base, ad esempio, all’amministrazione di appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai compensi percepiti, sarebbe parimenti «indice di una non adeguata calibrazione della disposizione in parola», tenuto conto della molteplicità delle categorie dirigenziali rinvenibili nell’ordinamento vigente e della connessa varietà ed estensione dei segmenti di potere amministrativo esercitato: la misura riguarderebbe, secondo le elaborazioni dell’ARAN, oltre centoquarantamila dirigenti, senza alcuna considerazione dell’effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta.
1.10.– Altro sintomo di irragionevolezza della disciplina viene individuato nel fatto che la divulgazione on line di una quantità enorme di dati comporterebbe dei rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione per fini diversi, che potrebbero frustrare le esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, alla base della normativa.
Le stesse modalità di diffusione dei dati reddituali e patrimoniali (relativi ai dirigenti, ai coniugi e ai parenti entro il secondo grado, ove essi acconsentano, e salva la menzione dell’eventuale mancato consenso), desunti dalla dichiarazione dei redditi, non supererebbero il test di proporzionalità condotto sulla misura in esame. Infatti, ai sensi degli artt. 7-bis e 9 del d.lgs. n. 33 del 2013, le amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli o di renderli non consultabili. Tali modalità di pubblicazione renderebbero quest’ultima «indubbiamente foriera di usi da parte del pubblico che possono trasmodare […] dalla finalità della trasparenza, sino a giungere alla messa a rischio della sicurezza degli interessati».
Osserva a tale proposito il TAR Lazio che la «pubblicazione di massicce quantità di dati» non si traduce automaticamente nell’agevolazione della ricerca di quelli più significativi a determinati fini, soprattutto da parte dei singoli cittadini, i quali anzi non avrebbero a disposizione efficaci strumenti di lettura e di elaborazione di dati sovrabbondanti o eccessivamente diffusi. Il regime di trasparenza in funzione di contrasto alla corruzione dovrebbe invece essere finalizzato, a parere del rimettente, a tutelare l’intera collettività e non solo i soggetti «complessi» a vario titolo operanti nell’ordinamento vigente. Allo stato, solo questi ultimi sarebbero in possesso di strumenti idonei «a decrittare importanti masse di informazioni», e sarebbero perciò i soli in grado di trarre, dai dati oggetto degli obblighi informativi imposti dalle disposizioni censurate, «conclusioni coerenti con quanto complessivamente reso disponibile e con gli obiettivi propri della legislazione di cui trattasi». Ne deriverebbe la frustrazione dell’esigenza di consentire quella forma diffusa di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, che pure costituisce la finalità perseguita dal d.lgs. n. 33 del 2013.
1.11.– Le disposizioni censurate, sotto i profili in precedenza segnalati, si porrebbero, dunque, in contrasto con diversi parametri costituzionali.
1.11.1.– In primo luogo sarebbe leso l’art. 117, primo comma, Cost., che vincola la potestà legislativa esercitata dallo Stato e dalle Regioni al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, tra cui si collocano i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali.
1.11.2.– In secondo luogo sarebbe violato l’art. 3 Cost., per il contrasto con il «principio di uguaglianza formale e sostanziale», in conseguenza sia dell’irragionevole parità di trattamento che la disposizione riserva ai titolari di incarichi politici e ai titolari di incarichi dirigenziali, categorie ritenute non assimilabili in quanto soggette a regimi giuridici incomparabili, sia per l’irragionevole parificazione di tutti gli incarichi dirigenziali, effettuata senza distinguere, conformemente alla natura dell’interesse pubblico perseguito dalla norma, la portata degli obblighi di pubblicità on line in ragione delle caratteristiche delle loro tipologie, ovvero in riferimento al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’entità delle risorse pubbliche assegnate all’ufficio della cui gestione il soggetto interessato deve rispondere.
1.11.3.– Sarebbero altresì violati gli artt. 2 e 13 Cost., che tutelano i diritti inviolabili dell’uomo e la libertà personale, stante la «suscettibilità della prescrizione imposta ai dirigenti di comunicare, ai fini della loro pubblicazione, i dati in contestazione, desunti dalla dichiarazione dei redditi, invece che una loro ragionata elaborazione, più funzionale alle finalità perseguite dalla trasparenza amministrativa e atta a scongiurare incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati, per un verso, superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro verso, suscettibili di interpretazioni distorte».
1.12.– Il TAR Lazio si mostra consapevole del fatto che la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri), ha ritenuto che gli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE – che hanno «trovato conferma» nelle disposizioni del regolamento n. 2016/679/UE – sono direttamente applicabili, nel senso che essi possono essere fatti valere da un singolo dinanzi ai giudici nazionali per evitare l’applicazione delle norme di diritto interno contrarie a tali disposizioni.
Esclude tuttavia che la norma contestata sia suscettibile di essere disapplicata «per contrasto con normative comunitarie», posto che non sarebbe individuabile una «disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio».
Ritiene, infatti, che i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza di fonte europea invocati dai ricorrenti nel giudizio principale non sarebbero altro che «criteri in base ai quali effettuare una ponderazione della conformità» ad essi della disciplina censurata. Ma tale operazione necessariamente sconterebbe «i differenti caratteri e la diversa portata dell’interesse pubblico generale che si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza, e che può avere una configurazione diversa, a seconda del sistema nazionale considerato».
Il TAR Lazio evidenzia, dunque, che le strade percorribili sarebbero due: un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea oppure la rimessione di una questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.
Tra i due rimedi opta per la rimessione alla Corte costituzionale «della questione di costituzionalità relativa all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all’art. 14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali».
1.13.– In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il rimettente ribadisce che gli atti impugnati nel giudizio principale costituiscono diretta applicazione della norma sospettata di contrasto con la Costituzione, sicché solo dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata potrebbe derivare il richiesto accoglimento del ricorso per illegittimità derivata degli atti impugnati.
1.14.– Il rimettente ritiene non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale del comma 1-ter del medesimo art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, secondo cui «[c]iascun dirigente comunica all’amministrazione presso la quale presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in relazione a quanto previsto dall’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. L’amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l’ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente».
A suo parere, infatti, l’oggetto della pubblicazione prevista dall’ultimo periodo del predetto comma 1-ter costituirebbe un dato aggregato che contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso articolo e potrebbe, anzi, corrispondere del tutto a quest’ultimo, laddove il dirigente non percepisca altro emolumento diverso dalla retribuzione per l’incarico assegnato.
Di qui la decisione «di estendere, d’ufficio, ai sensi dell’art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale, la questione di legittimità costituzionale anche al comma 1-ter dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013, limitatamente alla prescrizione di cui all’ultimo periodo», a norma del quale «[l]’amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l’ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente».
In ordine alla motivazione in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della ulteriore questione sollevata, il rimettente si limita a richiamare «integralmente le argomentazioni già esposte in ordine all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33».
2.– Si sono costituite le parti private R. A. e altri, le quali hanno ripercorso, nelle loro difese, la vicenda amministrativa e poi giudiziaria che ha condotto alla proposizione delle questioni di legittimità costituzionale.
2.1.– Preliminarmente, esse hanno contestato la negazione, da parte del TAR Lazio adito, del carattere self-executing del diritto europeo richiamato nel ricorso introduttivo del giudizio, in considerazione del fatto che tale carattere sarebbe stato, invece, espressamente riconosciuto, quantomeno agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, dalla citata sentenza del 20 maggio 2003 della Corte di giustizia.
A sostegno hanno richiamato altre decisioni della Corte di Lussemburgo in materia di protezione dei dati personali, dalle quali traggono la convinzione che spetti al giudice amministrativo adito pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto europeo self-executing della norma censurata.
Hanno tuttavia riconosciuto, «[i]n alternativa», che, venendo in rilievo norme della CDFUE (artt. 7 e 8), «alla luce di quanto da ultimo deciso con sentenza n. 269/2017», spetti alla Corte costituzionale pronunciarsi anche sulla compatibilità della norma censurata con tali parametri.
2.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate nell’ordinanza di rimessione, le parti private hanno sviluppato gli argomenti già illustrati dal TAR Lazio, concludendo per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013.
2.3.– In subordine, le parti private hanno chiesto alla Corte costituzionale di sollevare, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione della direttiva 95/46/CE.
2.4.– Tali parti hanno, infine, chiesto «l’anonimizzazione dei dati degli esponenti in sede di pubblicazione degli atti, ai sensi dell’art. 52 D. Lgs. 196/2003».
3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
3.1.– In relazione alla prospettata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., secondo l’Avvocatura generale, «la stessa categoria del “trattamento dei dati personali” non pare ragionevolmente riferibile alla pubblicazione dei compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, degli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici», che è oggetto dell’obbligo imposto dall’art. 14, comma 1-bis, lettera c), del d.lgs. n. 33 del 2013.
Si tratterebbe, al contrario, di informazioni pubbliche, «in quanto concernenti l’uso di risorse pubbliche», sicché i «cittadini-contribuenti» avrebbero «diritto – ed interesse – a sapere come le risorse pubbliche sono gestite da parte delle pubbliche amministrazioni».
3.2.– In via generale l’Avvocatura osserva che il legislatore nazionale dispone di un margine di apprezzamento – attribuito agli Stati membri dallo stesso ordinamento europeo in materia di protezione dei dati personali – nel ponderare il proprio regime di trasparenza nel settore pubblico in rapporto alla tutela dei dati personali.
Ciò premesso, l’Avvocatura generale ritiene che il legislatore nazionale, nell’adozione delle norme di cui al d.lgs. n. 33 del 2013 oggetto di censura, abbia operato correttamente il dovuto bilanciamento «alla luce dei test di proporzionalità, non eccedenza, pertinenza, finalità e ragionevolezza».
3.3.– L’Avvocatura generale ricorda che la commissione incaricata dell’attuazione della delega contenuta nella legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) ha messo in evidenza che l’adozione delle norme in materia di trasparenza nasce dall’esigenza di applicare un sistema rigido di prevenzione della corruzione, «in virtù dei numerosi moniti provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali (Onu, Greco, OCSE) e dalla stessa Unione europea, che hanno raccomandato più volte all’Italia l’adozione di misure severe e drastiche, soprattutto ispirate a una logica di integrità e trasparenza».
L’Avvocatura generale richiama anche «le classifiche stilate dall’organizzazione “Transparency International” che hanno classificato l’Italia tra i Paesi in cui è più elevata la percezione della corruzione (da intendersi anche come carenza di trasparenza)».
In questo contesto, appunto, sarebbero stati calati i canoni di proporzionalità, pertinenza, non eccedenza e ragionevolezza, che il legislatore italiano avrebbe utilizzato nel bilanciamento tra l’interesse pubblico alla trasparenza e l’interesse individuale alla riservatezza, giungendo all’adozione di misure di trasparenza «ampie e rigorose».
3.4.– L’interveniente richiama gli studi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) in tema di gestione del conflitto di interessi e di asset disclosure per i funzionari pubblici, evidenziando che il livello di divulgazione dei dati, in media, sarebbe strettamente correlato alla posizione dirigenziale. Di qui la conclusione che «i manager tendono ad avere più obblighi in materia di pubblicità rispetto ai funzionari».
3.5.– Con riferimento alla prospettata violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale osserva che «è proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica, «quanto se non più che per i titolari di incarichi politici».
Quanto all’assenza di gradualità degli obblighi di pubblicazione in relazione alla tipologia di incarico dirigenziale, l’Avvocatura generale suggerisce un’interpretazione costituzionalmente orientata – che porterebbe alla declaratoria d’infondatezza della questione posta sotto tale peculiare profilo – che sarebbe, del resto, già stata operata in sede esecutiva, attraverso apposite linee guida emanate dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), laddove si prevede, ai sensi dell’art. 3, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, che per i dirigenti di Comuni sotto i quindicimila abitanti si provveda alla pubblicazione dei dati di cui all’art. 14, comma 1, lettere da a) ad e), ma non di quelli previsti alla lettera f), vale a dire le attestazioni patrimoniali e la dichiarazione dei redditi, con estensione della medesima disciplina in favore dei dirigenti scolastici.
3.6.– Sarebbe parimenti infondata, a giudizio dell’interveniente, anche la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 2 e 13 Cost.
Il prospettato sacrificio della libertà personale a causa della pubblicazione dei dati (anziché di una loro «ragionata elaborazione») desumibili dalla dichiarazione dei redditi sarebbe scongiurato dal fatto che – in sede applicativa – sarebbe «comunque dovuto il necessario coordinamento delle disposizioni di cui all’art. 14 cit. con le vigenti norme di rango primario in materia di tutela dei dati personali».
Infine, con riferimento al nucleo familiare, «è la stessa legge a prevedere la pubblicazione dei dati solo su base volontaria», sicché sarebbe esclusa la violazione dei parametri costituzionali evocati.
3.7.– Inammissibile per difetto di rilevanza sarebbe, infine, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, sollevata d’ufficio, in quanto il giudizio principale verterebbe su atti che non danno applicazione a tale comma, sicché la decisione del caso concreto prescinderebbe dalla norma in questione.
In ogni caso, militerebbero per l’infondatezza anche di tale ulteriore questione le argomentazioni addotte con riferimento alle censure mosse all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013.
4.– Le parti private, in prossimità dell’udienza pubblica del 20 novembre 2018, hanno depositato memoria illustrativa, nella quale hanno ripreso il contenuto dell’atto di costituzione e controdedotto rispetto agli argomenti illustrati dall’Avvocatura generale dello Stato.
In primo luogo esse hanno ribadito che il punto nodale della vicenda è costituito dai «rapporti tra le fonti dei diritti fondamentali», essendo violate insieme norme sia della CDFUE (artt. 7 e 8), sia della Costituzione, sia della CEDU, nell’ambito di una questione di legittimità costituzionale sollevata con l’evocazione, come parametri interposti, anche di altre norme di diritto dell’Unione – la direttiva 95/46/CE (le cui disposizioni sono poi state riprodotte nel regolamento n. 2016/679/UE) – che, al pari della CDFUE, pure avrebbero efficacia diretta.
Secondo le parti private, di fronte ai prospettati dubbi di compatibilità della disciplina italiana con tale complessiva cornice normativa dell’Unione europea, il TAR Lazio avrebbe dovuto, in base all’art. 267 del TFUE, disapplicare le norme nazionali oppure operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo.
Ciò posto, le parti private hanno chiesto alla Corte costituzionale di valutare se dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale per l’immediata applicabilità del diritto europeo violato dalla normativa censurata, oppure adire con un rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia, ovvero, ancora, ritenere «assorbente» la questione di legittimità costituzionale.
Con riferimento agli argomenti addotti dall’Avvocatura generale dello Stato, le parti private contrastano la tesi secondo cui i dati indicati dalla lettera c) dell’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013 non sarebbero dati personali, quanto piuttosto informazioni concernenti l’uso di risorse pubbliche e, come tali, naturalmente pubbliche.
Le parti private, poi, contestano gli argomenti dell’interveniente fondati sul margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nazionali nel dettare discipline in materia di trasparenza amministrativa. Esse affermano, infatti, che le norme della direttiva 95/46/CE, prima, e del regolamento n. 2016/679/UE, dopo, non lascerebbero agli Stati membri alcuna libertà di disciplinare, con margini di autonomia, i principi in esse indicati.
In ogni caso, anche il bilanciamento effettuato dal legislatore nazionale tra valori aventi tutti un rilievo costituzionale sarebbe viziato dalla prevalenza assoluta riconosciuta alla trasparenza amministrativa rispetto alla tutela della riservatezza delle persone. A sostegno di tale conclusione, le parti private riportano ampi stralci dell’atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017 trasmesso dall’ANAC al Parlamento ed al Governo.
Le parti private, infine, controdeducono rispetto alla possibilità d’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina censurata suggerita dall’interveniente e fondata sulla possibilità che l’ANAC intervenga, con proprie linee guida, ad introdurre una sorta di graduazione degli obblighi di pubblicazione, differenziando le categorie di dirigenti che sono ad essi soggette. Ritengono, infatti, che non spetti ad un’autorità amministrativa «“correggere il tiro” (e non di poco) di una disposizione legislativa (che si ritiene emendabile)», in quanto l’unica via percorribile a tal fine, ricorrendone i presupposti, sarebbe la disapplicazione della norma interna in contrasto con il diritto europeo o la pronuncia d’illegittimità costituzionale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
Le disposizioni censurate sono state inserite nell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche).
In particolare, l’art. 14, comma 1-bis, estende a tutti i titolari di incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione, a qualsiasi titolo conferiti, gli obblighi di pubblicazione di una serie di dati, obblighi già previsti dal citato art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013 a carico dei titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di livello statale, regionale e locale.
Il rimettente censura la disposizione nella parte in cui stabilisce che le pubbliche amministrazioni pubblichino, per i dirigenti, i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici (art. 14, comma 1, lettera c); le dichiarazioni e attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n. 441 (Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti), ovvero la dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche e quella concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società, anche in relazione al coniuge non separato ed ai parenti entro il secondo grado, ove essi vi acconsentano, dovendosi in ogni caso dare evidenza al mancato consenso (art. 14, comma 1, lettera f).
L’art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013 è censurato limitatamente all’ultimo periodo, nella parte in cui prevede che l’amministrazione pubblichi sul proprio sito istituzionale l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti da ciascun dirigente a carico della finanza pubblica.
1.1.– Ritiene il giudice a quo che le indicate disposizioni contrastino, innanzitutto, con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 5 della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.
Evidenzia il tribunale amministrativo rimettente come tali disposizioni stabiliscano principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, confermati anche dalla nuova normativa in materia di protezione dei dati personali di cui al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), definendo così il quadro sovranazionale di riferimento per ogni disciplina del rapporto tra esigenza (privata) di protezione di tali dati ed esigenza (pubblica) di trasparenza.
Sottolinea come la necessaria tutela delle persone fisiche rispetto al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali non osterebbe a una normativa nazionale che imponga la raccolta e la divulgazione di informazioni relative al patrimonio e al reddito dei dirigenti pubblici, alla condizione, però, che la divulgazione di tali dati, in quanto riferiti puntualmente e specificamente ai nominativi dei dipendenti, risulti necessaria e appropriata al raggiungimento degli obiettivi della corretta informazione dei cittadini e della buona gestione delle risorse pubbliche.
Sostiene che i principi desumibili dai parametri europei risulterebbero invece lesi dalla disciplina censurata, anche a causa della quantità di dati da pubblicare e delle modalità della loro divulgazione, dovendosi in particolare considerare che, ai sensi degli artt. 7-bis e 9 del d.lgs. n. 33 del 2013, le amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte a impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli, o di renderli non consultabili attraverso questi ultimi.
1.2.– Le disposizioni di cui all’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, sarebbero altresì in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto due distinti profili.
In primo luogo, vi sarebbe violazione del principio di uguaglianza per la circostanza che gli obblighi di pubblicazione in esame graverebbero su tutti i dirigenti pubblici, senza alcuna distinzione. Il giudice a quo osserva che la previsione normativa assimilerebbe, in tal modo, cariche dirigenziali che, «all’evidenza, non sono equiparabili fra loro», per «genesi, struttura, funzioni esercitate e poteri statali di riferimento».
La mancata differenziazione tra le categorie dirigenziali soggette alla misura, in base, ad esempio, all’amministrazione di appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai compensi percepiti, sarebbe «indice di una non adeguata calibrazione della disposizione in parola», tenuto conto della molteplicità delle categorie dirigenziali rinvenibili nell’ordinamento vigente, e della connessa varietà ed estensione dei segmenti di potere amministrativo esercitato: la misura riguarderebbe, secondo le elaborazioni dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), oltre centoquarantamila dirigenti, senza alcuna considerazione dell’effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta, anche in relazione all’entità delle risorse pubbliche assegnate all’ufficio della cui gestione il soggetto interessato deve rispondere.
Violerebbe il principio di uguaglianza anche l’equiparazione, prevista dalle disposizioni censurate, dei dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici. Sottolinea il rimettente che la comune soggezione dei titolari di incarichi politici e dei dirigenti a identici obblighi di pubblicità, stante la diversa durata temporale che, di norma, caratterizza lo svolgimento delle relative funzioni, si risolverebbe in una misura particolarmente pervasiva per i secondi, assoggettati alla disciplina in esame per un periodo corrispondente all’intera durata del rapporto di lavoro, ponendosi nei loro confronti, diversamente che per i titolari di incarichi politici, alla stregua di una «condizione della vita».
La lesione dell’art. 3 Cost. emergerebbe anche sotto il profilo dell’intrinseca irragionevolezza della disciplina censurata. La divulgazione on line di una quantità enorme di dati comporterebbe rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione di questi ultimi per finalità diverse da quelle per le quali la loro raccolta e trattamento sono previsti, con frustrazione delle esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, alla base della normativa.
Le stesse modalità di diffusione dei dati non supererebbero il test di ragionevolezza e proporzionalità, riguardando dati reddituali e patrimoniali – relativi non solo ai dirigenti, ma anche ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado, ove acconsentano, e salva la menzione dell’eventuale mancato consenso – desunti dalla dichiarazione dei redditi e dunque particolarmente dettagliati, senza che, come già ricordato, le amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati possano disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte a impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli, o di renderli non consultabili attraverso questi.
Osserva a tale proposito il rimettente che la «pubblicazione di massicce quantità di dati» non si tradurrebbe automaticamente nell’agevolazione della ricerca di quelli più significativi a determinati fini, soprattutto da parte dei singoli cittadini, rispetto ai quali è anzi lecito supporre la mancanza di disponibilità di efficaci strumenti di lettura e di elaborazione di dati sovrabbondanti ed eccessivamente diffusi.
1.3.– Le disposizioni in esame si porrebbero altresì in contrasto con gli artt. 2 e 13 Cost., poiché i diritti inviolabili dell’uomo e la libertà personale risulterebbero lesi da obblighi di pubblicazione funzionali bensì a esigenze di trasparenza amministrativa, ma non idonei a scongiurare «la diffusione di dati sensibili», per un verso superflui ai fini perseguiti dalla disciplina, per altro verso «suscettibili di interpretazioni distorte».
1.4.– Infine, il TAR Lazio ritiene di «estendere, d’ufficio, ai sensi dell’art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87» le descritte questioni di legittimità costituzionale anche all’art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, limitatamente all’ultimo periodo e, dunque, alla parte in cui prevede che l’amministrazione pubblichi sul proprio sito istituzionale l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti da ciascun dirigente a carico della finanza pubblica.
Sostiene, infatti, il rimettente che oggetto della pubblicazione prevista da tale ultimo periodo della disposizione sarebbe un dato aggregato, che contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso art. 14, e potrebbe anzi corrispondere del tutto a quest’ultimo, se il dirigente non percepisca altro emolumento diverso dalla retribuzione per l’incarico conferitogli.
2.– Va preliminarmente considerato che il giudice rimettente è consapevole della circostanza per cui, trattando le norme censurate della pubblicazione in rete di dati reddituali e patrimoniali relativi a dirigenti delle pubbliche amministrazioni (e ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado), viene in rilievo un trattamento di dati personali soggetto anche alla disciplina del diritto (comunitario, prima, e ora) dell’Unione europea.
Del resto, la stessa ordinanza di rimessione, lamentando che le disposizioni censurate violino l’art. 117, primo comma, Cost., indica, quali parametri interposti, norme del diritto europeo sia primario che derivato: argomenta, infatti, l’asserita lesione del diritto alla vita privata, di quello alla protezione dei dati personali, dei principi di proporzionalità e pertinenza, sanciti dagli articoli 7, 8 e 52 della CDFUE e dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE.
Al tempo stesso ritiene che la disciplina legislativa sia in contrasto anche con parametri costituzionali interni, sostenendo che essa lede l’art. 3 Cost., sotto diversi profili, e gli artt. 2 e 13 Cost.
Il giudice rimettente è altresì consapevole della circostanza che, in fattispecie analoga a quella al suo esame, la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/0120, Österreichischer Rundfunk e altri) – pur avendo ritenuto, a seguito di rinvio pregiudiziale, che gli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della ricordata direttiva 95/46/CE contengono norme direttamente applicabili – ha stabilito che la valutazione sul corretto bilanciamento tra il diritto alla tutela dei dati personali e quello all’accesso ai dati in possesso delle pubbliche amministrazioni doveva essere rimessa al giudice del rinvio, escludendo perciò che fosse stata definitivamente compiuta dalla normativa europea.
Su questi presupposti, ritiene (punto 17 dell’ordinanza) che le disposizioni interne censurate non possano essere disapplicate «per contrasto con normative comunitarie», posto che non sarebbe realmente individuabile una disciplina self-executing di matrice europea applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio.
Afferma, in particolare, che i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza in tema di trattamento dei dati personali – presidiati dalle norme europee, primarie e derivate, indicate quali parametri interposti – si presenterebbero non già quali disposizioni idonee a regolare la fattispecie al suo esame, bensì quali «criteri» di riferimento per effettuare una «ponderazione della conformità» della disciplina censurata, mostrando di intendere che tale operazione sia di segno diverso dalla semplice applicazione o non applicazione di una norma al fatto.
Escludendo dunque che la normativa europea offra una soluzione del caso concreto, scartando inoltre la via di un rinvio pregiudiziale, proprio perché in occasione analoga la Corte di giustizia aveva devoluto al giudice nazionale la valutazione sul corretto bilanciamento tra i due diritti potenzialmente confliggenti – quello alla tutela dei dati personali e quello ad accedere ai dati in possesso delle pubbliche amministrazioni – decide di sollevare questioni di legittimità costituzionale sulle disposizioni al suo esame, ritenendo che la valutazione sul bilanciamento in parola non possa che spettare a questa Corte.
2.1.– Alla luce della descritta prospettazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, sotto lo specifico profilo appena esaminato, sono ammissibili.
Questa Corte (sentenza n. 269 del 2017) ha già rilevato che i principi e i diritti enunciati nella CDFUE intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e che la prima costituisce pertanto «parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale». Ha aggiunto che, fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea, occorre considerare la peculiarità delle situazioni nelle quali, in un ambito di rilevanza comunitaria, una legge che incide su diritti fondamentali della persona sia oggetto di dubbi, sia sotto il profilo della sua conformità alla Costituzione, sia sotto il profilo della sua compatibilità con la CDFUE.
Ha concluso che in tali casi – fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 – va preservata l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato.
Questo orientamento va confermato anche nel caso di specie, nel quale principi e diritti fondamentali enunciati dalla CDFUE intersecano, come meglio si chiarirà, principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
Peraltro, tra i parametri interposti rispetto alla denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., il giudice rimettente evoca, oltre a disposizioni della CDFUE, anche i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, previsti in particolare dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE.
Ciò non induce a modificare l’orientamento ricordato.
I principi previsti dalla direttiva si presentano, infatti, in singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o attuazione, ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito “modello” per quelle norme, e perciò partecipano all’evidenza della loro stessa natura, come espresso nelle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in cui si legge, in particolare nella «Spiegazione relativa all’art.8 – Protezione dei dati di carattere personale», che «[q]uesto articolo è stato fondato sull’articolo 286 del trattato che istituisce la Comunità europea, sulla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati […], nonché sull’articolo 8 della CEDU e sulla convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale del 28 gennaio 1981, ratificata da tutti gli Stati membri. […]. La direttiva e il regolamento [(CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio] succitati definiscono le condizioni e i limiti applicabili all’esercizio del diritto alla protezione dei dati personali».
2.2.– L’ammissibilità, sempre sotto lo specifico profilo ora in esame, delle questioni sollevate, emerge anche alla luce della circostanza che la disciplina legislativa censurata, che estende a tutti i dirigenti delle pubbliche amministrazioni obblighi di pubblicazione di dati già in vigore per altri soggetti, opera, come si diceva, su un terreno nel quale risultano in connessione – e talvolta anche in visibile tensione – diritti e principi fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione che dal diritto europeo, primario e derivato.
Da una parte, il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del 1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti. Un diritto che trova riferimenti nella Costituzione italiana (artt. 2, 14, 15 Cost.), già riconosciuto, in relazione a molteplici ambiti di disciplina, nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 173 del 2009, n. 372 del 2006, n. 135 del 2002, n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme europee e convenzionali evocate dal giudice rimettente. Nell’epoca attuale, esso si caratterizza particolarmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e si giova, a sua protezione, dei canoni elaborati in sede europea per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali. Si tratta dei già ricordati principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in virtù dei quali deroghe e limitazioni alla tutela della riservatezza di quei dati devono operare nei limiti dello stretto necessario, essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura possibile sul diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati.
Dall’altra parte, con eguale rilievo, i principi di pubblicità e trasparenza, riferiti non solo, quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost.), a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., al buon funzionamento dell’amministrazione (sentenze n. 177 e n. 69 del 2018, n. 212 del 2017) e, per la parte che qui specificamente interessa, ai dati che essa possiede e controlla. Principi che, nella legislazione interna, tendono ormai a manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della pubblica amministrazione, come del resto stabilisce l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013. Nel diritto europeo, la medesima ispirazione ha condotto il Trattato di Lisbona a inserire il diritto di accedere ai documenti in possesso delle autorità europee tra le «Disposizioni di applicazione generale» del Trattato sul funzionamento dell’Unione, imponendo di considerare il diritto di accesso ad essi quale principio generale del diritto europeo (art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE e art. 42 CDFUE).
I diritti alla riservatezza e alla trasparenza si fronteggiano soprattutto nel nuovo scenario digitale: un ambito nel quale, da un lato, i diritti personali possono essere posti in pericolo dalla indiscriminata circolazione delle informazioni, e, dall’altro, proprio la più ampia circolazione dei dati può meglio consentire a ciascuno di informarsi e comunicare.
Non erra, pertanto, il giudice a quo quando segnala la peculiarità dell’esame cui deve essere soggetta la disciplina legislativa che egli si trova ad applicare, e quando sottolinea che tale esame va condotto dalla Corte costituzionale.
2.3.– La “prima parola” che questa Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco.
Resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria.
In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione.
Questa Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti.
3.– Passando, dunque, al merito delle questioni sollevate con riferimento all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, il giudice rimettente prospetta il contrasto della disposizione anche con più parametri costituzionali interni.
Questa Corte, avendo la facoltà di decidere l’ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 148 e n. 66 del 2018), ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3 Cost., evocato sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza.
Come si è ricordato, si è in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
In valutazioni di tale natura, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del cosiddetto test di proporzionalità, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014, richiamata, da ultimo, dalle sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 23 del 2015 e n. 162 del 2014).
Nella specifica materia in oggetto, del resto, anche la giurisprudenza europea segue le medesime coordinate interpretative.
3.1.– La Corte di giustizia dell’Unione europea ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali: deroghe e limitazioni alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti dello stretto necessario, e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto legittimamente perseguiti (sentenze 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri, e 9 novembre 2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert).
Nella pronuncia da ultimo richiamata, in particolare, si afferma che non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali (punto 85).
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha influenzato lo stesso legislatore europeo, che ha avviato un ampio processo di revisione del quadro di regole in materia di protezione dei dati personali, concluso con l’emanazione di un unico corpus normativo di carattere generale, costituito dal regolamento n. 2016/679/UE, divenuto efficace successivamente ai fatti dai quali originano le questioni di legittimità costituzionale in esame, ma tenuto in debita considerazione dal giudice a quo. Esso detta le regole fondamentali per il trattamento dei dati personali, nozione che include anche la trasmissione, la diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione dei dati (art. 4, comma 1, numero 2).
I principi che devono governare il trattamento sono sanciti nell’art. 5, comma 1, del citato regolamento (che contiene una disciplina sostanzialmente sovrapponibile a quella delineata dall’art. 6 della ricordata direttiva 95/46/CE) e, tra di essi, assumono particolare rilievo quelli che consistono: nella limitazione della finalità del trattamento (lettera b) e nella «minimizzazione dei dati», che si traduce nella necessità di acquisizione di dati adeguati, pertinenti e limitati a quanto strettamente necessario alla finalità del trattamento (lettera c).
Ancora, un riferimento al necessario bilanciamento tra diritti si trova nelle premesse al regolamento n. 2016/679/UE (considerando n. 4), ove si legge che «[i]l diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità».
In definitiva, la disciplina europea, pur riconoscendo un ampio margine di regolazione autonoma e di dettaglio agli Stati membri con riguardo a certe tipologie di trattamento (tra i quali quello connesso, appunto, all’esercizio del diritto di accesso: art. 86 del regolamento), impone loro il principio di proporzionalità del trattamento che, come accennato, rappresenta il fulcro della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia.
In virtù di tutto quanto precede, lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal legislatore sulla questione della pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti amministrativi va condotto alla stregua del parametro costituzionale interno evocato dal giudice a quo (art. 3 Cost.), come integrato dai principi di derivazione europea. Essi sanciscono l’obbligo, per la legislazione nazionale, di rispettare i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al cospetto dell’esigenza di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso della pubblica amministrazione.
4.– Ai fini di uno scrutinio così precisato, giova ricordare l’evoluzione normativa che ha condotto alla disposizione censurata.
4.1.– Allo stato, il d.lgs. n. 97 del 2016 costituisce, infatti, il punto d’arrivo del processo evolutivo che ha condotto all’affermazione del principio di trasparenza amministrativa, che consente la conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
La legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come progressivamente modificata, allo scopo di abbattere il tradizionale schermo del segreto amministrativo, ha disciplinato il diritto di accesso ai documenti amministrativi, costruendolo quale strumento finalizzato alla tutela di colui che ne abbia interesse avverso atti e provvedimenti della pubblica amministrazione incidenti sulla sua sfera soggettiva.
Viene dunque inaugurato, per non essere più abbandonato, un modello di trasparenza fondato sulla “accessibilità” in cui i dati in possesso della pubblica amministrazione non sono pubblicati, ma sono conoscibili da parte dei soggetti aventi a ciò interesse, attraverso particolari procedure, fondate sulla richiesta di accesso e sull’accoglimento o diniego dell’istanza da parte dell’amministrazione.
A tale sistema viene però affiancato, attraverso progressive modifiche normative, un regime di “disponibilità”, in base al quale tutti i dati in possesso della pubblica amministrazione, salvo quelli espressamente esclusi dalla legge, devono essere obbligatoriamente resi pubblici e, dunque, messi a disposizione della generalità dei cittadini.
In questa prospettiva, il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) offre una prima definizione di trasparenza, «intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche […]» (art. 11, comma 1).
Oggetto di tale forma di trasparenza non sono più il procedimento, il provvedimento e i documenti amministrativi, ma le «informazioni» relative all’organizzazione amministrativa e all’impiego delle risorse pubbliche, con particolare riferimento alle retribuzioni dei dirigenti e di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico-amministrativo.
Tale modello è confermato dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), con la quale la trasparenza amministrativa viene elevata anche al rango di principio-argine alla diffusione di fenomeni di corruzione.
La cosiddetta “legge anticorruzione”, tuttavia – affacciandosi possibili tensioni tra le esigenze di trasparenza, declinata nelle forme della «accessibilità totale», e quelle di tutela della riservatezza delle persone – stabilisce limiti generali alla pubblicazione delle informazioni, che deve infatti avvenire «nel rispetto delle disposizioni in materia […] di protezione dei dati personali» (art. 1, comma 15), e delega il Governo ad adottare un decreto legislativo per il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità (art. 1, comma 35).
La delega è stata esercitata con l’approvazione del d.lgs. n. 33 del 2013, il cui art. 1 enumera finalità che riecheggiano quelle già enunciate dall’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 (contestualmente abrogato): in particolare, l’accessibilità totale alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, sempre con la garanzia della protezione dei dati personali, mira adesso anche allo scopo di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche».
Si giunge, infine, all’approvazione del d.lgs. n. 97 del 2016, ove, pur ribadendosi che la trasparenza è intesa come «accessibilità totale», il legislatore muta il riferimento alle «informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni», sostituendolo con quello ai «dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (art. 2 del d.lgs. n. 97 del 2016, modificativo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013)».
Inoltre, la stessa novella estende ulteriormente gli scopi perseguiti attraverso il principio di trasparenza, aggiungendovi la finalità di «tutelare i diritti dei cittadini» e «promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa».
4.2.– Rilievo cruciale, anche ai fini del presente giudizio, hanno le modalità attraverso le quali le ricordate finalità della normativa sulla trasparenza vengono perseguite.
In base alle disposizioni generali del d.lgs. n. 33 del 2013, le pubbliche amministrazioni procedono all’inserimento, nei propri siti istituzionali (in un’apposita sezione denominata «Amministrazione trasparente»), dei documenti, delle informazioni e dei dati oggetto degli obblighi di pubblicazione, cui corrisponde il diritto di chiunque di accedere ai siti direttamente e immediatamente, senza autenticazione né identificazione (art. 2, comma 2).
Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, di utilizzarli e riutilizzarli (art. 3, comma 1).
Le amministrazioni non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzare ed effettuare ricerche all’interno della sezione «Amministrazione trasparente» (art. 9).
Gli obblighi di pubblicazione dei dati personali “comuni”, diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari (questi ultimi, come tali, sottratti agli obblighi di pubblicazione), comportano perciò la loro diffusione attraverso siti istituzionali, nonché il loro trattamento secondo modalità che ne consentono la indicizzazione e la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web, e anche il loro riutilizzo, nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati personali. In particolare, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti (art. 7-bis, comma 1).
Si tratta perciò di modalità di pubblicazione che privilegiano la più ampia disponibilità dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ivi inclusi quelli personali. Di questi ultimi, solo quelli sensibili e giudiziari vengono sottratti alla pubblicazione, in virtù di tale loro delicata qualità, mentre per gli altri dati resta il presidio costituito dall’obbligo, gravante sull’amministrazione di volta in volta interessata, di rendere inintelligibili quelli «non pertinenti», in relazione alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza.
Va precisato che, nel presente giudizio di legittimità costituzionale, è all’esame una disposizione in cui è invece il legislatore ad aver effettuato, ex ante e una volta per tutte, la valutazione circa la pertinenza, rispetto a quelle finalità, della pubblicazione di alcuni dati personali di natura reddituale e patrimoniale concernenti i dirigenti amministrativi e i loro stretti congiunti. Lo stesso legislatore ne ha dunque imposto la diffusione, assoggettando, con il censurato comma 1-bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, anche i dirigenti all’obbligo di pubblicazione, con le modalità appena descritte, dei dati di cui alle lettere c) ed f) del precedente comma 1.
Questa Corte è perciò investita del compito di decidere se, ed eventualmente in quale misura, questa scelta legislativa superi il test di proporzionalità, come più sopra descritto.
5.– Così prospettata, la questione è parzialmente fondata, nei termini che saranno di seguito precisati, per violazione, sia del principio di ragionevolezza, sia del principio di eguaglianza, limitatamente all’obbligo imposto a tutti i titolari di incarichi dirigenziali, senza alcuna distinzione fra di essi, di pubblicare le dichiarazioni e le attestazioni di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013.
5.1.– Nella versione originaria, il citato art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, al comma 1, già imponeva alle amministrazioni interessate la pubblicazione di una serie di documenti e informazioni, ma tale obbligo si riferiva solo ai titolari di incarichi politici di livello statale, regionale e locale. I documenti e le informazioni da pubblicare, in relazione a questi ultimi, erano (e restano): a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo percepiti; e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti; f) i documenti previsti dall’art. 2 della legge n. 441 del 1982, ossia, per quanto qui d’interesse, una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società e l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società, nonché la copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF), con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi abbiano consentito e salva la necessità di dare evidenza al mancato consenso.
I destinatari originari di questi obblighi di trasparenza sono titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi.
La novella di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 aggiunge all’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi commi, tra i quali, appunto, quello censurato, che estende gli obblighi di pubblicazione ricordati, per quanto qui interessa, ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli attribuiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione.
In tal modo, la totalità della dirigenza amministrativa è stata sottratta al regime di pubblicità congegnato dall’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 2013 – che per essi prevedeva la pubblicazione dei soli compensi percepiti, comunque denominati – ed è stata attratta nell’orbita dei ben più pregnanti doveri di trasparenza originariamente riferiti ai soli titolari di incarichi di natura politica.
5.2.– In nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni, «allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013).
Resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche.
Proprio da questo punto di vista, risultano non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico dirigenziale di pubblicare i dati di cui alla lettera c) dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, e dunque i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici.
La disciplina anteriore alla novella operata dal d.lgs. n. 97 del 2016 già contemplava la pubblicità dei compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro dirigenziale, proprio per agevolare la possibilità di un controllo diffuso, da parte degli stessi destinatari delle prestazioni e dei servizi erogati dall’amministrazione, posti così nelle condizioni di valutare, anche sotto il profilo in questione, le modalità d’impiego delle risorse pubbliche.
Il regime di piena conoscibilità di tali dati risulta proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa, con conseguente esclusione della prospettata violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione a tutti i parametri interposti evocati.
Si tratta, infatti, di consentire, in forma diffusa, il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e permettere la valutazione circa la congruità – rispetto ai risultati raggiunti e ai servizi offerti – di quelle utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della pubblica amministrazione.
Quanto ai restanti parametri costituzionali (artt. 2 e 13 Cost.) evocati dal rimettente, in disparte la stringatezza delle argomentazioni utilizzate a sostegno delle censure, non si vede come la pubblicazione di tali dati possa mettere a rischio la sicurezza o la libertà degli interessati, danneggiandone la dignità personale: si tratta, infatti, dell’ostensione di compensi o rimborsi spese direttamente connessi all’espletamento dell’incarico dirigenziale.
Di qui, la non fondatezza delle questioni sollevate anche in riferimento agli artt. 2 e 13 Cost.
5.3.– A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo, senza alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali.
Anche per essi, oltre che per i titolari di incarichi politici, è ora prescritta la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale.
Si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
L’Avvocatura generale dello Stato, nelle proprie memorie, giustifica le disposizioni censurate, evidenziando che, in riferimento ai titolari d’incarichi dirigenziali, il legislatore avrebbe correttamente adottato misure «ampie e rigorose» al fine, soprattutto, di contrastare il fenomeno della corruzione nella pubblica amministrazione, anche in considerazione dei numerosi moniti in tal senso provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali e dalla stessa Unione europea, e delle rilevazioni internazionali che hanno classificato l’Italia tra i Paesi in cui è più elevata la percezione della corruzione (da intendersi anche come carenza di trasparenza).
Tale giustificazione appare plausibile, ma non conclusiva.
L’Avvocatura generale ha anche opportunamente ricordato che, in virtù delle numerose clausole di garanzia della tutela dei dati personali previste dallo stesso d.lgs. n. 33 del 2013, le pubbliche amministrazioni, nel richiedere ai propri dirigenti la trasmissione dei dati di cui ora si tratta per fini di pubblicità istituzionale, consentono l’oscuramento dei dati sensibili e giudiziari, nonché di quelli valutati non pertinenti rispetto alle finalità di trasparenza perseguite.
A tale cautela risulta essersi uniformata l’autorità datrice di lavoro nei confronti dei ricorrenti nel giudizio a quo, ai quali è stato richiesto di oscurare, nella dichiarazione dei redditi destinata alla pubblicazione, alcuni dati considerati “eccedenti”: codice fiscale; scelta del destinatario relativa all’otto e al cinque per mille dell’IRPEF; ammontare delle spese sanitarie; riepilogo delle spese; sottoscrizioni autografe del dichiarante.
Occorre tuttavia valutare se e in che misura – al netto di queste operazioni di preventiva scrematura, pure imposte dalla legge – la conoscenza indiscriminata del residuo, pur sempre ampio, ventaglio di informazioni e dati personali di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione appaia necessaria e proporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza.
Ebbene, la disposizione censurata non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità: l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano.
Viola perciò l’art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca, imporre a tutti indiscriminatamente i titolari d’incarichi dirigenziali di pubblicare una dichiarazione contenente l’indicazione dei redditi soggetti all’IRPEF nonché dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, delle azioni di società, delle quote di partecipazione a società e dell’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società (con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza, in ogni caso, al mancato consenso).
5.3.1.– L’onere di pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione.
La norma impone la pubblicazione di una massa notevolissima di dati personali, considerata la platea dei destinatari: circa centoquarantamila interessati (senza considerare coniugi e parenti entro il secondo grado), secondo le rilevazioni operate dall’ARAN e citate dal Garante per la protezione dei dati personali (nel parere reso il 3 marzo 2016 sullo schema di decreto legislativo che, successivamente approvato dal Governo, come d.lgs. n. 97 del 2016, ha introdotto la disposizione censurata).
Non erra il giudice rimettente laddove, considerata tale massa di dati, intravede un rischio di frustrazione delle stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a base della normativa sulla trasparenza.
La pubblicazione di quantità così massicce di dati, infatti, non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi a determinati fini (nel nostro caso particolare, ai fini di informazione veritiera, anche a scopi anticorruttivi) se non siano utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non è ragionevole supporre siano a disposizione dei singoli cittadini.
Sotto questo profilo, la disposizione in esame finisce per risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango» (sentenza n. 143 del 2013). Nel caso in esame, alla compressione – indiscutibile – del diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione.
Tutt’al contrario, la stessa autorità preposta alla lotta al fenomeno della corruzione, segnala, non diversamente da quella preposta alla tutela dei dati personali, che il rischio è quello di generare “opacità per confusione”, proprio per l’irragionevole mancata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti.
Sono le stesse peculiari modalità di pubblicazione imposte dal d.lgs. n. 33 del 2013 ad aggravare il carattere, già in sé sproporzionato, dell’obbligo di pubblicare i dati di cui si discute, in quanto posto a carico della totalità dei dirigenti pubblici.
L’indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, con l’ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. Tali forme di pubblicità rischiano piuttosto di consentire il reperimento “casuale” di dati personali, stimolando altresì forme di ricerca ispirate unicamente dall’esigenza di soddisfare mere curiosità.
Si tratta di un rischio evidenziato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Alla luce dello sviluppo della tecnologia informatica e dell’ampliamento delle possibilità di trattamento dei dati personali dovuto all’automatizzazione, la Corte EDU si è soffermata sulla stretta relazione esistente tra tutela della vita privata (art. 8 CEDU) e protezione dei dati personali, interpretando anche quest’ultima come tutela dell’autonomia personale da ingerenze eccessive da parte di soggetti privati e pubblici (Corte EDU, Grande camera, sentenze 16 febbraio 2000, Amann contro Svizzera, e 6 aprile 2010, Flinkkilä e altri contro Finlandia).
In una significativa pronuncia (sentenza 8 novembre 2016, Magyar contro Ungheria), la Grande camera della Corte EDU ha osservato come l’interesse sotteso all’accesso a dati personali per fini di interesse pubblico non può essere ridotto alla “sete di informazioni” sulla vita privata degli altri («The public interest cannot be reduced to the public’s thirst for information about the private life of others, or to an audience’s wish for sensationalism or even voyeurism»: § 162).
5.3.2.– Anche sotto il secondo profilo, quello della necessaria scelta della misura meno restrittiva dei diritti fondamentali in potenziale tensione, la disposizione censurata non supera il test di proporzionalità.
Esistono senz’altro soluzioni alternative a quella ora in esame, tante quanti sono i modelli e le tecniche immaginabili per bilanciare adeguatamente le contrapposte esigenze di riservatezza e trasparenza, entrambe degne di adeguata valorizzazione, ma nessuna delle due passibile di eccessiva compressione.
Alcune di tali soluzioni – privilegiate, peraltro, in altri ordinamenti europei – sono state ricordate anche dal giudice rimettente: ad esempio, la predefinizione di soglie reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per far scattare l’obbligo di pubblicazione; la diffusione di dati coperti dall’anonimato; la pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo scaglioni; il semplice deposito delle dichiarazioni personali presso l’autorità di controllo competente.
Quest’ultima soluzione, del resto, era quella adottata prima del d.lgs. n. 97 del 2016, nell’ambito di una disciplina (art. 13, commi 1 e 3, del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, contenente «Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», e tuttora vigente) che impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di fornire alle amministrazioni di appartenenza, con onere di aggiornamento annuale, le informazioni sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, che però non erano rese pubbliche (se non su apposita istanza), e, comunque, non con le modalità previste dal d.lgs. n. 33 del 2013 e in precedenza illustrate.
Non spetta a questa Corte indicare la soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, rientrando la scelta dello strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità del legislatore.
Tuttavia, non si può non rilevare sin d’ora – e in attesa di una revisione complessiva della disciplina – che vi è una manifesta sproporzione del congegno normativo approntato rispetto al perseguimento dei fini legittimamente perseguiti, almeno ove applicato, senza alcuna differenziazione, alla totalità dei titolari d’incarichi dirigenziali.
5.4.– La disposizione censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati. Il legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale. Eppure, è manifesto che tale livello non può che influenzare, sia la gravità del rischio corruttivo – che la disposizione stessa, come si presuppone, intende scongiurare – sia le conseguenti necessità di trasparenza e informazione.
La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio».
A questa stregua, è corretto l’insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti.
Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare.
Con riguardo ai titolari di incarichi dirigenziali, la stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), nell’atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017, ha ritenuto di suggerire al Parlamento e al Governo una modifica normativa che operi una graduazione degli obblighi di pubblicazione proprio in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta dai dirigenti.
Non prevedendo invece una consimile graduazione, la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 3 Cost.
6.– Questa Corte non può esimersi, tuttavia, dal considerare che una declaratoria d’illegittimità costituzionale che si limiti all’ablazione, nella disposizione censurata, del riferimento ai dati indicati nell’art. 14, comma 1, lettera f), lascerebbe del tutto privi di considerazione principi costituzionali meritevoli di tutela.
Sussistono esigenze di trasparenza e pubblicità che possono non irragionevolmente rivolgersi nei confronti di soggetti cui siano attribuiti ruoli dirigenziali di particolare importanza.
Ha osservato l’Avvocatura generale dello Stato che «è proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica.
Sorge, dunque, l’esigenza di identificare quei titolari d’incarichi dirigenziali ai quali la disposizione possa essere applicata, senza che la compressione della tutela dei dati personali risulti priva di adeguata giustificazione, in contrasto con il principio di proporzionalità.
È evidente, a questo proposito, che le molteplici possibilità di classificare i livelli e le funzioni, all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, anche in relazione alla diversa natura delle amministrazioni di appartenenza, impediscono di operare una selezione secondo criteri costituzionalmente obbligati.
Non potrebbe essere questa Corte, infatti, a ridisegnare, tramite pronunce manipolative, il complessivo panorama, necessariamente diversificato, dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con le quali tali obblighi debbano essere attuati.
Ciò spetta alla discrezionalità del legislatore, al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi.
Nondimeno, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore.
Da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati.
Tali commi individuano due particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4).
Le competenze spettanti ai soggetti che ne sono titolari, come elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attività di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente.
L’attribuzione a tali dirigenti di compiti – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa – di elevatissimo rilievo rende non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza di cui si discute.
Come si è detto, l’intervento di questa Corte non può che limitarsi all’eliminazione, dalla disposizione censurata, dei profili di più evidente irragionevolezza, salvaguardando provvisoriamente le esigenze di trasparenza e pubblicità che appaiano, prima facie, indispensabili.
Appartiene alla responsabilità del legislatore, nell’ambito dell’urgente revisione complessiva della materia, sia prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4, modalità meno pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate dal d.lgs. n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali.
In definitiva, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Restano assorbiti tutti gli altri profili di censura.
7.– Vanno, infine, dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto il comma 1-ter dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013.
La disposizione prevede l’obbligo di pubblicazione degli «emolumenti complessivi» percepiti da ogni dirigente della pubblica amministrazione a carico della finanza pubblica: a parere del rimettente, tale pubblicazione costituirebbe un dato aggregato che contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso articolo e che potrebbe, anzi, corrispondere del tutto a quest’ultimo, laddove il dirigente non percepisca altro emolumento se non quello corrispondente alla retribuzione per l’incarico assegnato.
Le questioni sono inammissibili, in quanto i provvedimenti impugnati nel giudizio principale non sono stati adottati in applicazione del comma 1-ter, ma del solo precedente comma 1-bis dell’art. 14 citato.
Per costante giurisprudenza costituzionale, sono inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni sollevate su disposizioni di cui il giudice rimettente non deve fare applicazione (ex multis, sentenze n. 36 del 2016 e n. 192 del 2015; ordinanze n. 57 del 2018 e n. 38 del 2017).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche);
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, riferite agli artt. 2, 3, 13 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 5 della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera c), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, riferite agli artt. 2, 3, 13 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 7, 8 e 52 CDFUE, all’art. 8 CEDU, all’art. 5 della Convenzione di Strasburgo n. 108 del 1981, nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE, sollevate dal TAR Lazio, sezione prima quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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