Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 8 luglio 2020, n. 4377.
La massima estrapolata:
In materia di edilizia economico-popolare il vincolo del prezzo massimo di cessione degli alloggi costruiti in regime di edilizia agevolata ex art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, segue il bene, a titolo di onere reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà . La ratio legis è quella di garantire la casa ai meno abbienti ed impedire operazioni speculative di rivendita; e la clausola negoziale contenente un prezzo difforme da quello vincolato è affetta da nullità parziale e sostituita di diritto, ex artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c., con altra contemplante il prezzo massimo determinato in forza della originaria convenzione di cessione.
Sentenza 8 luglio 2020, n. 4377
Data udienza 2 luglio 2020
Tag – parola chiave: Edilizia economica e popolare – Piano – Alloggi – Cessione – Vincolo del prezzo massimo – Art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 – Onere reale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1899 del 2019, proposto da
Mi. Lu., rappresentato e difeso dall’avvocato Pa. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pi. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione II bis, 7 gennaio 2019, n. 201.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Visti l’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, e l’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 luglio 2020 il consigliere Giuseppe Castiglia;
Con la presenza degli avvocati Pa. Ga. e Pi. Pa. ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 del citato d.l. 28 del 2020;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Nel 1992 il Comune di (omissis) ha stipulato una convenzione edilizia con la società G.A. s.r.l. per la realizzazione di un intervento di edilizia economica e popolare.
Con contratto del 2 marzo 2004 l’attuale appellante ha acquistato la proprietà superficiaria di una delle unità immobiliari costruite in virtù di tale convenzione e la ha rivenduta a un terzo nel 2006.
Con provvedimento n. 5 del 12 luglio 2018, il Comune ha ingiunto all’attuale appellante di pagare la sanzione pecuniaria di euro 318.334,56 per la violazione degli obblighi scaturenti dagli artt. 13 e 10 di tale convenzione, imputandogli di avere venduto il bene nel 2006 per 205.000 euro, cioè a un prezzo superiore a quello massimo di cessione previsto, e di non avere trasmesso all’Amministrazione l’atto di trasferimento ai fini della verifica dei requisiti soggettivi della subentrante.
2. L’interessato ha impugnato il provvedimento avverso proponendo un ricorso che, sulla domanda cautelare, il TAR per il Lazio, sez. II bis, ha respinto con sentenza in forma semplificata 7 gennaio 2019, n. 201, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di lite.
3. L’interessato ha interposto appello avverso la sentenza di primo grado formulando nuovamente una domanda cautelare e, nel merito, riproponendo le censure svolte in primo grado e disattese in quella sede.
I) Insussistenza dei presupposti previsti dall’art. 60 c.p.a. per la definizione del giudizio con una sentenza in forma semplificata. L’istruttoria sarebbe incompleta e inidonea ad accertare la correttezza dei criteri seguiti dal Comune per la determinazione della sanzione, posto che: solo in via postuma, e cioè con la memoria depositata in primo grado, il Comune avrebbe illustrato il percorso seguito, la sanzione non corrisponderebbe a un computo puramente matematico, in quanto gli artt. 10 e 12 della convenzione introdurrebbero una serie di elementi variabili e non prestabiliti nella determinazione del prezzo di cessione; diversamente da quanto ha ritenuto il TAR, non vi sarebbe alcuno schema allegato all’atto di avvio del procedimento.
II) Intervenuta prescrizione del diritto. Il Comune avrebbe fatto valere la propria pretesa dopo 11 anni dall’avvenuta cessione, comunicata dall’appellante in data 6 febbraio 2006. Sarebbe irrilevante la circostanza che la comunicazione non contenesse l’indicazione del prezzo di cessione, in quanto l’Ente avrebbe avuto comunque il dovere di esercitare il proprio potere di controllo verificando il contenuto dell’atto. Inoltre, nel caso di specie, sarebbe applicabile il termine prescrizionale di cinque anni previsto dall’art. 28 del legge n. 689/1981. In ogni caso, per determinare il momento iniziale del decorso del termine prescrizionale sarebbe dirimente la presentazione da parte del cessionario della domanda di trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà (5 gennaio 2010). Infine il Tar avrebbe errato nell’identificare la funzione della comunicazione in oggetto, mentre l’art. 13 della convenzione non contemplerebbe alcuna comunicazione da indirizzare al Comune.
III) Difformità della convenzione edilizia del 1992 rispetto al modello tipo determinato con delibera della Giunta regionale n. 860/1980 e alla normativa di riferimento. I Comuni sarebbero sprovvisti di potestà autonoma in materia. In particolare, l’art. 35 della legge n. 865/1971 non porrebbe alcun limite alla alienabilità del bene né alla determinazione di un prezzo massimo di cessione. Recuperati i costi di costruzione da parte del Comune, i corrispettivi dei successivi trasferimenti andrebbero rimessi al libero mercato, l’appellante non avrebbe conosciuto la convenzione del 1992 e il cessionario non avrebbe mai chiesto il rimborso della pretesa differenza di prezzo. Il primo giudice non avrebbe esaminato il motivo circa l’assorbimento della norma di cui alla legge n. 10/1977 nel d.P.R. n. 380/2001. Sarebbe insufficiente la motivazione sul computo della somma richiesta. Con convenzione stipulata dal Comune il 10 luglio 2017, il cessionario avrebbe liberato il bene da ogni vincolo e, a seguito della intervenuta decadenza della convenzione del 1992, questa non avrebbe più potuto trovare applicazione anche per effetto della normativa sopravvenuta; l’affrancazione del limite massimo di cessione comporterebbe l’estinzione della eventuale pretesa alla differenza di prezzo.
Il Comune si è costituito in giudizio per resistere all’appello e ha svolto le proprie difese in una successiva memoria.
Il Comune eccepisce l’inammissibilità del ricorso di primo per mancata notifica al cessionario controinteressato, che avrebbe diritto alla retrocessione della somma pagata in eccesso, e replica ai motivi dell’appello, che considera in parte inammissibili perché nuovi in questo grado.
Con ordinanza 29 marzo 2019, n. 1632, la Sezione ha respinto la domanda cautelare.
Le parti si sono scambiate memorie e hanno depositato note di udienza.
4. All’udienza pubblica del 2 luglio 2020, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, e dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70.
5. Si può prescindere dalla eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado, già opposta dal Comune e rinnovata nel presente grado, come pure dall’eccezione di inammissibilità di parte dei motivi dell’appello. Infatti, questo è infondato nel merito, così come ora si dirà .
I) E’ infondato il primo motivo in quanto:
– non ha pregio la censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 60 c.p.a., poiché solo al prudente apprezzamento del giudice, e non alla volontà delle parti, spetta valutare la sussistenza dei presupposti per definire il giudizio cautelare con sentenza in forma semplificata (Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre 2012, n. 5904; sez. VI, 4 giugno 2015, n. 2755);
– come attesta il verbale di udienza, l’allora ricorrente non ha obiettato nulla al riguardo e la mancata opposizione gli inibisce comunque la possibilità di censurare in appello la scelta del Collegio giudicante, in quanto ha prodotto l’effetto di convalidare il convincimento di completezza dell’istruttoria (Cons. Stato, sez. V, 17 luglio 2013, n. 3892);
– è questione di merito, da valutare come tale in questa sede, il punto del se il Comune abbia correttamente quantificato l’importo di cui ha ingiunto il pagamento;
– a questo proposito, nella relazione allegata al fascicolo di primo grado l’Amministrazione dettagliatamente indica i criteri con cui è pervenuta alla individuazione della somma indebitamente percepita dall’appellante e quindi al calcolo della sanzione, criteri che non sono stati specificamente contestati per proporne di diversi; la relazione – sia stato o no allegato uno schema all’avviso di avvio del procedimento – non costituisce integrazione postuma della motivazione dell’atto impugnato, ma una spiegazione del modo di procedere che, occorrendo, lo stesso giudice avrebbe potuto richiedere in via istruttoria; nello specifico, il Comune dà conto di avere applicato gli artt. 8, 9 e 12 della convenzione e di avere aggiornato il prezzo alla data di cessione del bene, applicando cioè anche quell’art. 10 di cui l’appellante lamenta la mancata considerazione.
II) Va egualmente respinta la seconda censura, che ripropone l’eccezione di prescrizione, in quanto:
– non è contestato che l’appellante non abbia comunicato al Comune l’avvenuta cessione in violazione degli artt. 11 e 13 della convenzione, che secundum tenorem rationis valgono sia per la prima che per le successive cessioni;
– questa comunicazione non è surrogabile con la comunicazione di cessione del fabbricato del 6 febbraio 2006 che, come ha correttamente rilevato il TAR, assolve una differente funzione e non contiene indicazione di prezzo; non è sostenibile l’assunto che il Comune avrebbe dovuto attivare i propri poteri officiosi di controllo;
– allo stesso modo non costituisce un idoneo equipollente la comunicazione del cessionario del 2010, che neanch’essa contiene l’indicazione del prezzo di acquisto;
– la pretesa del Comune discende dalla convenzione urbanistica del 1992 e poi dal contratto di acquisto della proprietà superficiaria, e non dalla legge; pertanto è inapplicabile il termine prescrizionale previsto dall’art. 28 della legge n. 689/1981;
– in conclusione, solo nel 2017 il Comune ha ricevuto dal cessionario, e per altri fini, il contratto del 2006, e ne ha avuto piena conoscenza;
– pertanto solo da quella data decorreva in concreto il termine prescrizionale, che sino a quel momento era sospeso a norma dell’art. 2941, n. 8, c.c., per avere il debitore, omettendo volontariamente la prescritta comunicazione, frapposto all’esercizio del diritto un ostacolo non sormantabile da parte del Comune con gli ordinari controlli (Cass. civ, sez. lav., 27 febbraio 2020, n. 5413).
III) E’ infine infondato il terzo motivo poiché :
– rispetto alla allegata difformità della convenzione edilizia del 1992 rispetto al modello predisposto dalla Giunta (recte: Consiglio) regionale del Lazio con deliberazione 19 marzo 1980, n. 860, in disparte ogni altro rilievo (il TAR ha ritenuto che la convenzione-tipo valga per le cessioni in proprietà e non anche per le quelle del diritto di superficie), sia l’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 35, sia gli artt. 7 e 8 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, prevedono solo un contenuto minimo necessario della convenzione e non escludono che questo possa essere arricchito con previsioni ulteriori in funzione dell’interesse pubblico perseguito; nulla vi è nella legge che faccia supporre la nullità di pattuizioni convenzionali che introducano, in varia forma, vincoli ulteriori a quelli contemplati dalla legislazione vigente (Cons. Stato, sez. IV, 10 settembre 2018, n. 5300);
– per il resto, vale il consolidato principio per cui il vincolo del prezzo massimo di cessione degli alloggi costruiti in regime di edilizia agevolata ex art. 35 della legge n. 865/1971 segue il bene, a titolo di onere reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà, sicché è irrilevante l’affermata ignoranza del contenuto della convenzione del 1992, peraltro richiamata e data per conosciuta nelle premesse del contratto di compravendita del 2004. La ratio legis è quella di garantire la casa ai meno abbienti ed impedire operazioni speculative di rivendita; e la clausola negoziale contenente un prezzo difforme da quello vincolato è affetta da nullità parziale e sostituita di diritto, ex artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c., con altra contemplante il prezzo massimo determinato in forza della originaria convenzione di cessione (Cass. civ., ss. uu., 16 settembre 2015, n. 18135; e, nel solco di questa, Cass. civ., sez. II, 27 dicembre 2017, n. 30951; Id., 28 maggio 2018, n. 13345; TAR Lazio, sez. II, 14 gennaio 2020, n. 387);
– nella specie non è intervenuta alcuna convenzione di rimozione tra il Comune e l’appellante; questi non può ora giovarsi di una convenzione successiva di 11 anni alla cessione che – pur ammesso che rientri nello schema dell’art. 49 bis, il che pare da escludere, in quanto l’oggetto negoziale è piuttosto la trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà – nella parte in cui sancisce la decadenza dei vincoli e la perdita di efficacia della convenzione del 1992 non ha efficacia retroattiva e resta per lui una res inter alios acta (come si deduce dal punto 9 delle premesse); perciò la normativa sopravvenuta (art. 31, commi 49 bis e quater, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, come – rispettivamente – sostituito e introdotto dall’art. 25 quinquies, comma 1, del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136) appare del tutto irrilevante ai fini della definizione della presente controversia;
– ulteriori articolazioni della censura sono generiche, oscure o ripetitive di altre già esaminate.
6. Dalle considerazioni che precedono discende che – come anticipato – l’appello è infondato e va perciò respinto, con conferma della sentenza impugnata e dell’atto gravato in primo grado.
Le spese del presente grado seguono la regola della soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che liquida nell’importo di euro 3.000,00 (tremila/00), oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Castiglia – Presidente FF, Estensore
Daniela Di Carlo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere
Giuseppa Carluccio – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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