Consiglio di Stato
sezione III
sentenza 3 maggio 2016, n. 1743
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9196 del 2015, proposto dalla s.r.l. Ca. Re., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Ma. Cr. Le., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, U.T.G. – Prefettura di Caserta, in persona del Prefetto pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Campania, Sede di Napoli, Sez. I, n. 4279/2015, resa tra le parti, concernente il riesame e l’aggiornamento dell’interdittiva informativa antimafia;
visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Interno e dell’U.T.G. – Prefettura di Caserta;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nell’udienza pubblica del giorno 31 marzo 2016 il Cons. Massimiliano Noccelli e uditi per l’odierna appellante Ca. Re. s.r.l. l’Avv. An. Cl., su delega dichiarata dell’Avv. Ma. Cr. Le., e per il Ministero dell’Interno appellato l’Avvocato dello Stato Lo. D’A.;
designati il presidente e il relatore come coestensori della sentenza nella sua integralità;
ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. L’odierna appellante, la s.r.l. Ca. Re., operativa nel settore dello smaltimento, mediante recupero di rifiuti speciali non pericolosi, e ripristino di cave dismesse e abbandonate, è stata costituita tra il sig. An. Lu. Io., attuale amministratore unico, e Vi. Ab., socio fino al 2007, e ha iniziato la propria attività nel 2004.
1.1. Nel 2007 il sig. Vi. Ab., arrestato l’anno precedente per associazione a delinquere di stampo mafioso quale ‘esponente di spiccò del clan camorristico dei Casalesi, ha ceduto la propria quota alla sorella di An. Lu. Io., la signora Ma. Gi. Io.
1.2. Nei confronti di tale società, con la nota n. 1068/12.b16/ANT/AREA 1^ del 28 settembre 2009, la Prefettura di Caserta ha emesso un provvedimento interdittivo antimafia, osservando che:
– il sig. Ni. Io., padre convivente di An. Lu. Io. e di Ma. Gi. Io., era gravato da numerosi precedenti di polizia per associazione a delinquere, truffa, reati finanziari, furto e ricettazione;
– fino al 27 luglio 2007, socio della s.r.l. Ca. Re. era il medesimo Vi. Ab., ritenuto soggetto organico ad associazione mafiosa;
– la cessione di quote in favore di Vi. Ab., successivamente all’arresto nel 2006, era un “mero espediente” per aggirare la normativa antimafia.
1.3. All’informativa del 2009 è seguita, dopo due successive istanze di aggiornamento proposte dalla s.r.l. Ca. Re., un primo provvedimento di conferma n. 698-1214/12b.16/ANT/AREA 1^ del 14 settembre 2010 e un secondo provvedimento, di ulteriore conferma, dell’interdittiva antimafia, adottato con nota n. 1294/12.b/ANT/AREA 1^ del 6 marzo 2013.
1.4. I due provvedimenti del 28 settembre 2009 e del 6 marzo 2013 sono stati impugnati con distinti ricorsi, a loro tempo, dall’odierna appellante avanti al T.A.R. Campania che, con le sentenze n. 27989/2010 e n. 491/2014, li ha respinti.
1.5. Avverso la prima sentenza pende appello avanti a questo Consiglio di Stato che, con ordinanza cautelare n. 1155 dell’11 marzo 2011, ha peraltro respinto l’istanza proposta dalla s.r.l. Ca. Re. ai sensi dell’art. 98 c.p.a., ritenendo condivisibili le argomentazioni del primo giudice, e anche avverso la seconda sentenza, peraltro, pende appello, anch’esso tuttora non definito.
1.6. Nelle more di tali giudizi la società ha proposto il 17 ottobre 2014 alla Prefettura di Caserta una nuova istanza di aggiornamento dell’informativa antimafia, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011, adducendo l’esistenza di elementi sopravvenuti che giustificherebbero il riesame della valutazione in ordine alla permeabilità mafiosa dell’impresa.
2. Con ricorso proposto avanti al T.A.R. Campania, la odierna appellante ha poi impugnato, ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a., il silenzio-rifiuto opposto dalla Prefettura di Caserta in ordine all’istanza di aggiornamento, domandando di accertarne l’illegittimità, con conseguente declaratoria del suo obbligo di provvedere, e chiedendo altresì la condanna al risarcimento del danno patito per effetto del silenzio.
2.1. L’Amministrazione intimata si è costituita nel primo grado di giudizio, dapprima sostenendo la ‘strumentalità’ dell’istanza di aggiornamento, meramente reiterativa di altre già in precedenza respinte, e poi depositando, in corso di giudizio, un nuovo provvedimento interdittivo, adottato dalla Prefettura di Caserta con nota n. Cat. 12b.16/ANT/AREA 1^ del 1° dicembre 2015, che ha respinto l’istanza di aggiornamento, confermando l’interdizione antimafia a carico della società.
2.2. Il provvedimento sopravvenuto è stato impugnato con motivi aggiunti dalla s.r.l. Ca. Re..
2.3. Il T.A.R. Campania, con la sentenza n. 4279 del 2 settembre 2015, ha dichiarato improcedibile il ricorso originario avverso il silenzio e ha respinto, nel merito, i motivi aggiunti proposti dalla s.r.l. Ca. Re., condannando la ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore del Ministero dell’Interno.
3. Avverso tale sentenza, ha proposto appello la s.r.l. Ca. Re., lamentandone, con un unico articolato motivo, l’erroneità e ne ha chiesto, previa sospensione, la riforma, con conseguente annullamento del provvedimento prefettizio emesso nel corso del giudizio.
3.1. Si è costituito il Ministero dell’Interno, il quale ha chiesto la reiezione del gravame.
3.2. Nella camera di consiglio del 10 dicembre 2015, fissata per l’esame della domanda cautelare, la causa è stata rinviata alla pubblica udienza del 31 marzo 2016.
3.3. In tale udienza il Collegio, uditi i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione.
DIRITTO
1. L’appello della s.r.l. Ca. Re. è infondato e deve essere respinto.
1.1. Il T.A.R. per la Campania, respingendo il ricorso proposto dalla s.r.l. Ca. Re., ha ritenuto che, in assenza di fatti attestanti un quadro societario proprietario e gestionale radicalmente diverso da quello già rilevato dalla precedente informativa, non siano censurabili le conclusioni alle quali è pervenuta la Prefettura di Caserta, allorché questa ha ribadito il giudizio di “permeabilità mafiosa” dell’impresa, poiché le circostanze rappresentate nell’istanza di aggiornamento si sono tradotte in un “espediente”, ispirato dall’intento di ottenere una nuova valutazione degli elementi già considerati come sintomatici del rischio di infiltrazione delinquenziale nelle gestione societaria e già vagliati in senso negativo dai competenti organi investigativi con motivazioni che, come lo stesso T.A.R. aveva ritenuto in precedenti decisioni, non risulterebbero affette da profili di illegittimità (p. 7 della sentenza impugnata).
1.2. L’appellante, con un unico articolato motivo, ha lamentato la inadeguatezza e l’impostazione “sofistica” della motivazione del primo giudice in ordine all’asserita mancanza di fatti a prova dell’asserita cessazione dei fattori di rischio infiltrativo ravvisati dall’Ufficio Territoriale del Governo, dal momento che la s.r.l. Ca. Re. non solo avrebbe chiarito come il convincimento prefettizio fosse basato, come è tuttora fondato, su mere congetture, ma avrebbe addirittura dimostrato che gli indici ritenuti sintomatici della sua presunta contiguità ad associazioni camorristiche abbiano perso, nel tempo, la loro già di per sé rarefatta consistenza (p. 6 del ricorso).
1.3. In particolare, secondo l’appellante, dovrebbero considerarsi i seguenti fatti positivi:
a) l’originaria prognosi di pericolo di condizionamento non era sarebbe stata fondata, come non sarebbe tuttora, su elementi oggettivi;
b) il mutamento dell’assetto societario della s.r.l. Ca. Re., avvenuto nel lontano 2007, derivante dalla fuoriuscita del signor Vi. Ab. e dal successivo ingresso della signora Ma. Gi. Io., incensurata, non potrebbe evidenziare alcun elemento, anche solo indiziario, idoneo a far supporre la permanenza di un qualsivoglia legame con il precedente socio;
c) anche prima della sua formale estromissione, il signor Vi. Ab. non avrebbe, comunque, esercitato alcun potere di amministrazione o di gestione della società, né avrebbe mai potuto per vero farlo, stante la sua qualità di semplice socio;
d) la valutazione del rischio infiltrativo formulata dalla Prefettura risulterebbe, per di più, definitivamente superata dall’analisi delle modifiche societarie intercorse e dall’andamento dei flussi economici della s.r.l. Ca. Re., effettuata nel parere tecnico-professionale redatto il 22 settembre 2014 dallo Studio Manfredi di Roma (doc. 3 fasc. parte appellante nonché doc. 1 fasc. della parte ricorrente in prime cure).
e) del tutto ininfluente, a fini interdittivi, sarebbero i precedenti penali del signor Ni. Io., padre di Ma. Gi. e Lu. An. Io., che – in considerazione della loro scarsa significatività indiziaria – non potrebbero realmente assurgere ad elementi idonei a fondare il convincimento in ordine ad una qualsivoglia vicinanza ad ambienti criminali di sorta né, a maggior ragione, supportare l’emanazione del provvedimento antimafia da parte della Prefettura di Caserta.
2. Ritiene in senso contrario il Collegio che nessuno di tali fatti, tuttavia, possa incrinare, per le ragioni che meglio si vedranno, la ragionevolezza del rinnovato giudizio di permeabilità mafiosa espresso dalla Prefettura di Caserta nel respingere, con l’informativa n. 8051 del 12 febbraio 2015, l’istanza di aggiornamento proposta ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011 dalla s.r.l. Ca. Re., confermando il contenuto del provvedimento interdittivo antimafia precedentemente emesso, anche alla luce degli aggiornati accertamenti disposti dallo stesso Prefetto.
3. Occorre qui anzitutto ricordare che l’istanza di aggiornamento, per quanto fondata su specifici e documentati elementi di novità rappresentati alla Prefettura, non delimita l’àmbito di valutazione discrezionale che a questa spetta, nel rinnovato esercizio del suo potere ai fini dell’aggiornamento, né la vincola al solo spazio di indagine costituito dagli elementi sopravvenuti indicati dall’impresa, entro, per così dire, «binari precisi o rime obbligate» (Cons. St., sez. III, 13 maggio 2015, n. 2410).
3.1. È ben costante la giurisprudenza di questo Consiglio nel ribadire che, in presenza di un’articolata istanza di aggiornamento da parte del soggetto interessato, il Prefetto non possa legittimamente sottrarsi all’onere di riesaminare la vicenda alla luce dei nuovi dati fornitigli e tenuto conto degli aggiornati elementi riguardanti il destinatario degli accertamenti acquisiti dalle forze di polizia (v., anche in riferimento all’analoga precedente previsione dell’art. 10, comma 8, del d.P.R. n. 252 del 1998, Cons. St., sez. VI, 20 maggio 2009, n. 3092).
3.2. Orbene, proprio valutando anche i nuovi aggiornamenti disposti, la Prefettura di Caserta ha evidenziato che alla famiglia Io. fanno capo anche la s.r.l. Ca. Am. e la s.r.l. La Vi., anche esse destinatarie di provvedimenti interdittivi antimafia, e ha con questo rimarcato sostanzialmente la indubbia esistenza di un complesso intreccio di interessi economici soggetto, attraverso la formale gestione di diverse società riconducibili alla medesima famiglia, al condizionamento da parte della criminalità camorristica, aggiungendo, peraltro, che tutti i ricorsi sino ad oggi proposti dalla s.r.l. Ca. Re. contro i provvedimenti interdittivi, nel corso del tempo, sono stati respinti dal T.A.R. Campania (per quanto con sentenze tuttora sub iudice).
3.3. A tale elemento, di indubbio rilievo nella valutazione del Prefetto, è stata opposta dalla ricorrente, nei motivi aggiunti proposti in primo grado (p. 9), la non condivisibile ed indimostrata obiezione che l’ultimo provvedimento costituirebbe «un’ennesima illegittima conseguenza dell’informatica adottata ai danni di Casertana» e che la famiglia Io. sarebbe ormai “perseguitata” da anni, (p. 2 della memoria depositata il 29 febbraio 2016) senza considerare in senso contrario, però, che ogni provvedimento prefettizio – anche quello adottato nei confronti della s.r.l. Ca. Am. s.r.l. e della s.r.l. Vi. – si regge su un’autonoma valutazione della situazione di permeabilità mafiosa in relazione ad ogni singola impresa colpita dalla misura (come dimostra, del resto, proprio il fatto, rilevato dalla stessa società a p. 3 del ricorso proposto in primo grado, che essa abbia impugnato singulatim avanti al T.A.R. Campania tali informative).
3.4. Tuttavia, anche prescindendo da tale rilievo, certo non secondario, relativo all’esistenza di plurime società facenti capo alla medesima famiglia e tutte colpite da informativa, ritiene la Sezione che del tutto ragionevolmente il provvedimento impugnato si è espresso nel senso della inconsistenza, per altro verso, di tutti gli elementi addotti dall’odierna appellante, e sopra menzionati, a sostegno della propria istanza di aggiornamento.
4. Il Collegio ritiene che sia immutato il grave quadro riguardante il “condizionamento”, emerso nei precedenti provvedimenti interdittivi a carico della s.r.l. Ca. Re., sopra menzionati nella parte in fatto (§§ 1.2.-1.3.).
4.1. La Sezione ritiene di dover evidenziare i principi desumibili in materia dalla legislazione vigente, ai quali si devono ispirare l’attività amministrativa e la conseguente interpretazione in sede giurisdizionale.
4.1.1. L’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d.lgs. n. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».
4.2. Per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, va premesso che si tratta di una misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge.
4.3. Il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d.lgs. n. 159 del 2011 – come già avevano disposto l’art. 4 del d.lg. 8 agosto 1994, n. 490, e il d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 – ha tipizzato un istituto mediante il quale, con un provvedimento costitutivo, si constata una obiettiva ragione di insussistenza della perdurante «fiducia sulla affidabilità e sulla moralità dell’imprenditore», che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte una amministrazione (e di per sé rilevante per ogni contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1674 c.c.) ovvero comunque deve sussistere, affinché l’imprenditore risulti meritevole di conseguire un titolo abilitativo, ovvero di conservarne gli effetti.
4.4. Nell’attribuire il relativo potere ad un organo periferico del Ministero dell’Interno e nel prevedere il dovere di tutte le altre Amministrazioni di emanare i relativi atti consequenziali, il legislatore ha tenuto conto sia delle competenze generali delle Prefetture in ordine alla gestione dell’ordine pubblico ed al coordinamento delle Forze dell’ordine, sia dell’esigenza che non sia ciascuna singola Amministrazione – di per sé non avente i necessari mezzi ed esperienze – a porre in essere le relative complesse attività istruttorie e ad emanare singoli provvedimenti ad hoc sulla perdurante sussistenza o meno del «rapporto di fiducia».
4.4.1. Un singolo provvedimento ad hoc – avente per oggetto un solo «rapporto» – rischierebbe, infatti, anche di porsi in contrasto con provvedimenti di altre Amministrazioni che intrattengano rapporti con il medesimo imprenditore.
4.5. Osserva il Collegio che – sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale – rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione “parcellizzata” di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri.
4.6. Quanto alla motivazione della informativa, essa:
a) deve «scendere nel concreto», e cioè indicare gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni;
b) deve indicare le ragioni in base alle quali gli elementi emersi nel corso del procedimento siano tali da indurre a concludere in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti e, dunque, in ordine alla «perdita di fiducia», nel senso sopra chiarito dell’affidabilità, che le Istituzioni nutrono nei confronti dell’imprenditore.
4.7. Qualora i fatti valutati risultino chiari ed evidenti o quanto meno altamente plausibili (ad es. perché risultanti da articolati provvedimenti dell’Autorità giudiziaria o da relazioni ben fatte nel corso del procedimento), il provvedimento prefettizio – che in tali casi assume quasi un carattere vincolato, nell’ottica del legislatore – si può anche limitare a rimarcare la loro sussistenza, provvedendo di conseguenza.
4.8. Ove invece i fatti emersi nel corso del procedimento risultino in qualche modo marcatamente opinabili, e si debbano effettuare collegamenti e valutazioni, il provvedimento prefettizio deve motivatamente specificare quali elementi ritenga rilevanti e come essi si leghino tra loro.
4.9. In altri termini, se gli atti richiamati nel provvedimento prefettizio – emessi da organi giudiziari o amministrativi – già contengono specifiche valutazioni degli elementi emersi, il provvedimento prefettizio si può intendere sufficientemente motivato per relationem, anche se fa ad essi riferimento.
4.10. Viceversa, se gli atti richiamati contengono una sommatoria di elementi eterogenei non ancora unitariamente considerati (ad es., perché si sono susseguite relazioni delle Forze dell’ordine indicanti meri dati di fatto), spetta al provvedimento prefettizio valutare tali elementi eterogenei.
4.11. In materia, non rilevano formalismi linguistici, non occorrendo l’utilizzo di una terminologia tecnico-giuridica nelle relazioni redatte dalle Forze dell’ordine, chiamate al delicato compito di controllo del territorio.
4.12. È condizione necessaria e sufficiente, invece, l’effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e basta una ragionevole valutazione – pur priva di formule sacramentali – del contenuto obiettivo delle risultanze acquisite, che può anche evidenziare, se del caso, la condivisione delle conclusioni già in precedenza esplicitate nel corso del procedimento.
4.13. Quand’anche il provvedimento prefettizio contenga una motivazione poco curata e scarna (che, cioè, si sia limitata ad elencare o a richiamare le risultanze procedimentali, senza alcuna rielaborazione concettuale), profili di eccesso di potere possono risultare effettivamente sussistenti solo se, a loro volta, anche gli atti del procedimento non siano congruenti e siano carenti di effettivi contenuti, frettolosi o immotivati e, sostanzialmente, non sindacabili nemmeno nel loro valore indiziario.
4.14. Profili di inadeguatezza della valutazione vanno esclusi se – mediante una tale motivazione per relationem – negli atti risultino richiamate, in altri termini, le effettive ragioni sostanziali poste a base del provvedimento prefettizio.
4.15. Al contrario, se gli atti del procedimento risultino poco perspicui o, addirittura, imperscrutabili (e, cioè, consistano in un mero elenco di elementi eterogenei e non evidenzino una ragionata valutazione del loro significato indiziario), il provvedimento prefettizio deve desumere dagli atti istruttori quegli elementi che giustifichino la misura adottata.
4.16. In ogni caso, l’impianto motivazionale dell’informativa (ex se o col richiamo agli atti istruttori) deve fondarsi su una rappresentazione complessiva, imputabile all’autorità prefettizia, degli elementi di permeabilità criminale che possano influire anche indirettamente sull’attività dell’impresa, la quale si viene a trovare in una condizione di potenziale asservimento – o comunque di condizionamento – rispetto alle iniziative della criminalità organizzata di stampo mafioso (ovvero «comunque localmente denominata»).
5. Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’informativa deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del «più probabile che non» (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709), il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona.
5.1. È estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né – tanto meno – occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante.
5.2. Occorre invece valutare il rischio di inquinamento mafioso in base all’ormai consolidato criterio del più «probabile che non», alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso.
5.3. Per questo gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.
5.4. I fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono, infatti, dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, come meglio si dirà, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che la mafia, in molteplici, cangianti e sempre nuovi modi, può esercitare sull’impresa anche al di là e persino contro la volontà del singolo.
5.5. Anche soggetti semplicemente conniventi con la mafia (dovendosi intendere con tale termine ogni similare organizzazione di stampo criminale «comunque localmente denominata»), per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia.
5.6. Infatti, la mafia, per condurre le sue lucrose attività economiche nel mondo delle pubbliche commesse, non si vale solo di soggetti organici o affiliati ad essa, ma anche e sempre più spesso di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse, economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa.
5.7. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal legislatore, comprendono dunque una serie di elementi del più vario genere e, spesso, anche di segno opposto, frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia, situazioni che spaziano dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenza mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 159 del 2011), alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell’imprenditore, dalle condanne per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l’intento elusivo della legislazione antimafia.
5.8. Esistono poi, come insegna l’esperienza applicativa della legislazione in materia e la vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni, numerose altre situazioni, non tipizzate dal legislatore, che sono altrettante “spie” dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa).
5.9. Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento.
5.10. Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso.
6. L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi:
a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;
b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione;
c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011;
d) i rapporti di parentela;
e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;
f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;
g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa;
h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”;
i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
6.1. Passando ad un più dettagliato esame di tali elementi, osserva il Collegio che innanzitutto rilevano i provvedimenti del giudice penale che dispongano una misura cautelare o il giudizio o che rechino una condanna, anche non definitiva, di titolari, soci, amministratori, di fatto e di diritto, direttori generali dell’impresa, per uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 159 del 2011.
6.1.1. Tra questi delitti (rilevanti pur se “risalenti nel tempo”), un particolare rilievo hanno quelli di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), turbata libertà di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), usura (art. 644 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis c.p.) o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.), e quelli indicati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., cioè, tra gli altri, i delitti di associazione semplice (art. 416 c.p.) o di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) o tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bisc.p. o per agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché l’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 356 del 1992.
6.1.2. Rilevano anche tutti i provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, di cui all’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011.
6.2. Le sentenze di proscioglimento o di assoluzione hanno una specifica rilevanza, ove dalla loro motivazione si desuma che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa, pur essendo andati esenti da condanna, abbiano comunque subìto, ancorché incolpevolmente, un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali.
6.2.1. Può rilevare, più in generale, qualsivoglia provvedimento del giudice civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, quale che sia il suo contenuto decisorio, dalla cui motivazione emergano elementi di condizionamento, in qualsiasi forma, delle associazioni malavitose sull’attività dell’impresa o, per converso, l’agevolazione, l’aiuto, il supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito, pur indirettamente, agli interessi e agli affari di tali associazioni.
6.3. Rileva anche la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011, siano esse di natura personale o patrimoniale, nei confronti di titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e dei loro parenti, proprio in coerenza con la logica preventiva e anticipatoria che sta a fondamento delle misure in esame.
6.4. Quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto.
6.4.1. Ai rapporti di parentela l’Autorità amministrativa, in presenza di altri elementi univoci e sintomatici, può anche assimilare quei «rapporti di comparaggio», derivanti da consuetudini di vita.
6.4.2. Infatti, specialmente nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza.
6.4.3. Una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della “famiglia”, sicché in una “famiglia” mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del “capofamiglia” e dell’associazione.
6.4.4. Sotto tale profilo, hanno rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una “famiglia” e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).
6.4.5. In materia, possono risultare utili anche i principi formulati da questo Consiglio, in materia di revoca delle licenze di polizia, quando abbiano ad oggetto armi e munizioni, e cioè in una materia in cui similmente si pongono – sia pure sotto distinti profili – aspetti di protezione dell’ordine pubblico.
6.4.6. Infatti, l’Autorità di polizia può ragionevolmente disporre la revoca quando il titolare della licenza sia un congiunto di un appartenente alla criminalità organizzata e sia con questi convivente: si può senz’altro ritenere sussistente un pericolo di abuso, quando un’arma sia custodita nella stessa abitazione di un appartenente alla criminalità organizzata, non solo perché è concretamente ipotizzabile che vi sia la possibilità di utilizzare l’arma senza il consenso del titolare della licenza, ma anche perché il legame familiare e la convivenza comportano reciproci condizionamenti.
6.4.7. Similmente, il provvedimento del Prefetto può ritenere sussistente il pericolo di condizionamento mafioso, quando l’imprenditore conviva con un congiunto, risultato appartenente ad un sodalizio criminoso.
6.5. Circa i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, l’Amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità.
6.5.1. Se di per sé è irrilevante un episodio isolato ovvero giustificabile, sono invece altamente significativi i ripetuti contatti o le “frequentazioni” di soggetti coinvolti in sodalizi criminali, di coloro che risultino avere precedenti penali o che comunque siano stati presi in considerazione da misure di prevenzione.
6.5.2. Tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del «più probabile che non», che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario – scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi.
6.5.3. Quand’anche ciò non risulti punibile (salva l’adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l’esclusione dell’imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge.
6.5.4. In altri termini, l’imprenditore che – mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti – abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di “fiducia”, nel senso sopra precisato, che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l’informativa).
6.6. Rilevano altresì le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa, sia essa in forma individuale o collettiva, nonché l’abuso della personalità giuridica.
6.6.1. Tali vicende e tale abuso non sono altrimenti spiegabili, secondo la logica del «più probabile che non», se non con la permeabilità mafiosa dell’impresa e il malcelato intento di dissimularla, come, ad esempio, nei casi previsti dall’art. 84, comma 4, lett. f), del d.lgs. n. 159 del 2011 e, cioè, le sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società, nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva con soggetti destinatati di provvedimenti di cui alle lettere a) e b) dello stesso art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011, realizzate con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti e le qualità dei subentranti, «denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia».
6.7. Rilevano, più in generale, tutte quelle operazioni fraudolente, modificative o manipolative della struttura dell’impresa, che essa esercitata in forma individuale o societaria:
– scissioni, fusioni, affitti di azienda o anche solo di ramo di azienda, acquisti di pacchetti azionari o di quote societarie da parte di soggetti, italiani o esteri, al di sopra di ogni sospetto, spostamenti di sede, legale od operativa, in zone apparentemente “franche” dall’influsso mafioso;
– aumenti di capitale sociale finalizzati a garantire il controllo della società sempre da parte degli stessi soggetti, patti parasociali, rimozione o dimissioni di sindaci o controllori sgraditi;
– walzer di cariche sociali tra i medesimi soggetti, partecipazioni in altre società colpite da interdittiva antimafia, gestione di diverse società, operanti in settori diversi, ma tutte riconducibili alla medesima governance e spostamenti degli stessi soggetti dalle cariche sociali dell’una o dell’altra, etc.
6.7.1. Tali operazioni vanno considerate fraudolente, quando sono eseguite al malcelato fine di nascondere o confondere il reale assetto gestionale e con un abuso delle forme societarie, dietro il cui schermo si vuol celare la realtà effettiva dell’influenza mafiosa, diretta o indiretta, ma pur sempre dominante.
6.8. Rilevano inoltre le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, riscontrate dal Prefetto anche mediante i poteri di accesso e di accertamento di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011, consistenti in fatti che lasciano intravedere, nelle scelte aziendali, nelle dinamiche realizzative delle strategie imprenditoriali, nella stessa fase operativa e nella quotidiana attività di impresa, evidenti segni di influenza mafiosa.
6.8.1. Tale casistica è assai varia ed è ben nota alla giurisprudenza di questo Consiglio, potendo avere rilievo, a solo titolo esemplificativo:
– le cc.dd. teste di legno poste nelle cariche sociali, le sedi legali con uffici deserti e le sedi operative ubicate presso luoghi dove invece hanno sede uffici di altre imprese colpite da antimafia;
– l’inspiegabile presenza sul cantiere di soggetti affiliati alle associazioni mafiose;
– il nolo di mezzi esclusivamente da parte di imprese locali gestite dalla mafia;
– il subappalto o la tacita esecuzione diretta delle opere da parte di altre imprese, gregarie della mafia o colpite da interdittiva antimafia;
– i rapporti commerciali intrattenuti solo con determinate imprese gestite o “raccomandate” dalla mafia;
– le irregolarità o le manomissioni contabili determinate dalla necessità di camuffare l’intervento e il tornaconto della mafia nella effettiva esecuzione dell’appalto;
– gli stati di avanzamento di lavori “gonfiati” o totalmente mendaci;
– l’utilizzo dei beni aziendali a titolo personale, senza alcuna ragione, da parte di soggetti malavitosi;
– la promiscuità di forze umane e di mezzi con imprese gestite dai medesimi soggetti riconducibili alla criminalità e già colpite, a loro volta, da interdittiva antimafia;
– l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali;
– i rapporti tra impresa e politici locali collusi con la mafia o addirittura incandidabili, etc.
6.9. Quanto alla condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”, la perdita di “fiducia” – giustificativa della interdittiva – si può legittimamente basare anche sulla manifestata disponibilità dell’imprenditore di far parte di un sistema di gestione di un settore, caratterizzato da illegalità, con’scambi di favorì (riferibili, ad es., ad una volontaria mancata partecipazione ad una gara, ‘in cambiò di successivi vantaggi).
6.10. Può avere un rilievo decisivo – per escludere la fiducia necessaria perché vi siano i contatti con la pubblica Amministrazione – anche l’inserimento dell’imprenditore in un contesto di illegalità o di abusivismo, reiterato e costante o anche solo episodico, ma particolarmente allarmante, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità, sintomatiche di una sostanziale impunità.
6.11. In tali casi, il Prefetto può senz’altro desumere ulteriori argomenti per ritenere che l’imprenditore possa contare in loco su “coperture” e connivenze, anche presso gli uffici pubblici, valendosi del clima tipico di una realtà pervasa e soggiogata dall’influenza mafiosa.
7. Può essere sufficiente a giustificare l’emissione dell’informativa anche uno dei sopra indicati elementi indiziari: la valutazione del provvedimento prefettizio si può ragionevolmente basare anche su un solo indizio, che comporti una presunzione, qualora essa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari.
7.1. Ciò in quanto, come afferma la consolidata giurisprudenza, il ragionamento indiziario può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario, con la conseguenza che il requisito della concordanza, previsto dall’art. 2729 c.c., perde il carattere di requisito necessario e finisce per essere elemento eventuale della valutazione presuntiva, destinato ad operare solo laddove ricorra una pluralità di presunzioni (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 26.3.2003, n. 4472).
8. Circa la motivazione, come sopra si è osservato in termini generali, per ciascuno o anche uno solo di essi il Prefetto dovrà indicare con precisione, nell’informativa, gli elementi di fatto e motivare, anche mediante il rinvio,per relationem, alle relazioni eseguite dalle Forze di Polizia, le ragioni che lo inducono a ritenere probabile che da uno o più di tali elementi, per la loro attualità, univocità e gravità, sia ragionevole desumere il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa: se la valutazione unitaria non traspare dagli atti del procedimento, occorre che essa sia effettuata dal Prefetto, con una motivazione che può anche non essere analitica e diffusa, ma che richiede un calibrato giudizio sintetico su uno o anche più di detti elementi presuntivi, sopra indicati.
8.1. La valutazione della prova presuntiva, giova qui ricordare, esige che dapprima il Prefetto in sede amministrativa (come poi il giudice amministrativo nell’esercizio dei suoi poteri quale giudice di legittimità) esamini tutti gli indizi di cui disponga, non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, così da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare
9. Ebbene, tutto ciò premesso, alla luce dei principî sin qui evidenziati, emerge che nessuno degli elementi addotti dalla s.r.l. Ca. Re., sopra menzionati e riassunti al § 1.3., sia in grado di scalfire il quadro indiziario di infiltrazione mafiosa risultante dalle precedenti informative, ribadito dal provvedimento prefettizio impugnato in primo grado con i motivi aggiunti.
9.1. Quanto al primo elemento, di cui alla lettera a) del menzionato § 1.3., la prognosi di infiltrazione mafiosa era ed è giustificata dal fatto che nella precedente compagine sociale risultasse socio, dal 2004 al 2007, il signor Vi. Ab., legato alla criminalità organizzata di stampo camorristico, quale ‘esponente di spiccò del clan dei Casalesi, e tratto in arresto il 24 giugno 2006 per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, e che la cessione della sua quota alla signora Ma. Gi. Io., di poco successiva all’arresto del medesimo signor Vi. Ab., fosse un “mero espediente” per aggirare la normativa antimafia, essendo costei la figlia del signor Ni. Io., gravato da numerosi precedenti di sicura significanza mafiosa (quello, in particolare, di cui all’art. 640-bis c.p., rilevato dall’informativa, ma anche altri, sopra ricordati), e sorella del signor An. Lu. Io. socio fondatore, insieme a Vi. Ab., della s.r.l. Ca. Re. e tuttora attuale amministratore unico, sicché tale cessione si pone nel segno di una indubbia sostanziale continuità rispetto alla precedente gestione, peraltro caratterizzata dalla presenza dell’attuale amministratore An. Lu. Io., anch’egli figlio di Ni. Io., e compromessa dalla genetica cointeressenza con un elemento di spicco del clan camorristico.
9.1.2. La gravità di tale quadro indiziario, va rilevato, è stata confermata anche dallo stesso T.A.R. Campania nella sentenza n. 27989/2010 (avverso la quale è stata proposta una domanda cautelare incidentale, respinta da questo Consiglio con l’ordinanza n. 1155 dell’11 marzo 2011).
9.2. Quanto al secondo elemento, di cui alla lettera b) di cui al § 1.3., il subentro di un soggetto formalmente incensurato, quale è la signor Ma. Gi. Io., nella titolarità delle quote o nelle cariche sociali, è in sé un elemento neutro e ben può dissimulare, come nel caso di specie, la presenza di infiltrazioni mafiose all’interno di una compagine sociale solo in apparenza “rammodernata” con la presenza, nelle cariche sociali, delle cc.dd. teste di legno, sopra menzionate al § 6.8.1.
9.3. Quanto al terzo elemento, di cui alla lettera c) del già menzionato § 1.3., non rileva il fatto che il signor Vi. Ab., anche prima della cessione della propria quote, non avesse alcuna carica di amministratore, né alcun potere gestorio all’interno della società, essendo ben possibile, come sopra evidenziato, che la presenza di un socio, anche di minoranza, in seno alla compagine sociale ben possa condizionare nei fatti, e non di rado condizioni notevolmente, le scelte imprenditoriali, bastando anche essa sola a giustificare la valutazione di permeabilità mafiosa.
9.4. Quanto al quarto elemento, di cui al punto d) del § 1.3., va premesso che risulta depositata una perizia di parte, la cui lettura disvela in realtà, ben al di là di una mera analisi economica dell’andamento della società, il ben chiaro proposito di negare il condizionamento mafioso esaminando, sul piano giuridico, l’estromissione del signor Gi. Ab. dalla compagine sociale (v., in particolare, pp. 16-17 e pp. 22-23 del parere tecnico-professionale del 22 settembre 2014 dello studio professionale Ma.).
9.4.1. Le relative risultanze, tuttavia, non possono certo sostituire (e comunque non infirmano) la valutazione del Prefetto, la quale risulta ragionevole e ponderata, in ordine all’inquinamento mafioso dell’impresa.
9.4.2. Una volta constatata tale ragionevolezza e ponderazione, non sono sindacabili nella presente sede della giurisdizione di legittimità le conclusioni discrezionali, cui è giunta l’Amministrazione.
9.5. Quanto al quinto elemento, di cui al punto e) di cui al § 1.3., gli stessi precedenti penali del signor Ni. Io., padre della signora Ma. Gi. Io. e del signor An. Lu. Io., attuale amministratore della società, non sono decisivamente influenti, come deduce l’appellante, ma per l’opposta ragione che il quadro indiziario sopra delineato ben rappresenta di per sé l’effettiva sussistenza del pericolo di condizionamento mafioso, riconducibile ad un unico centro decisionale (la famiglia Io.), sicché il precedente penale del signor Ni. Io., condannato per il delitto di cui all’art. 640-bis c.p. (comunque rilevante perché, come visto supra al § 6.1.1., costituente “delitto-spia” ai sensi dell’art. 84, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 159 del 2011), è un mero elemento menzionato ad colorandum dall’informativa, ben altra e più grave essendo la ragione della negativa valutazione prefettizia.
10. In conclusione, per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello della s.r.l. Ca. Re. deve essere respinto, con integrale conferma della sentenza impugnata, che ha correttamente disatteso, dopo aver dichiarato improcedibile – in motivazione – il ricorso principale avverso l’originario silenzio dell’Amministrazione, i motivi aggiunti proposti in primo grado dalla stessa s.r.l. Ca. Re. contro l’informativa prefettizia del 1° dicembre 2015.
11. Le spese del presente grado di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza dell’odierna appellante nei confronti del Ministero dell’Interno.
11.1. Rimane definitivamente a carico della medesima appellante, sempre per l’accertata soccombenza, il contributo unificato anticipato per la proposizione del gravame.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello n. 9196 del 2015, come in epigrafe proposto dalla s.r.l. Ca. Re., lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna la s.r.l. Ca. Re. a rifondere in favore del Ministero dell’Interno le spese del presente grado di giudizio, che liquida in € 5.000,00, oltre accessori (IVA, CPA e spese generali) come per legge, se dovuti.
Pone definitivamente a carico della s.r.l. Ca. Re. il contributo anticipato versato per la proposizione del gravame.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2016, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente Coestensore
Carlo Deodato – Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia – Consigliere
Massimiliano Noccelli – Consigliere Coestensore
Pierfrancesco Ungari – Consigliere
Depositata in Segreteria il 03 maggio 2016.
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