Il limite temporale dei 18 mesi introdotto nel 2015 in ossequio al principio del legittimo affidamento

Consiglio di Stato, Sentenza|15 marzo 2021| n. 2207.

Dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, discende che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario.

Sentenza|15 marzo 2021| n. 2207

Data udienza 18 febbraio 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Beni culturali – Concessione di bene culturale – Mancanza dei requisiti – Revoca – Legittimità – Atto amministrativo – Autotutela a seguito di false dichiarazioni – Provvedimento ampliativo – Termine di 18 mesi ex art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 – Inapplicabilità

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6503 del 2020, proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via (…);
contro
l’Associazione DH. – Di. Hu. In., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Er. St. e Da. Vi. ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo dei suindicati difensori in Roma, Via (…);
e con l’intervento di
delle seguenti associazioni: Comunità So. La., Associazione Go., Al. or. del ca. di Sa. Be., Am. del ca. di Sa. Be., Cl. Al. It., Sezione di (omissis), De Re. Na., Gr. di az. lo. ve. la. del Pa. Na. D’A., Circolo Le. il Ci. di Fr., Fondazione l’A., Re. Ci. e Sy., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Ch. Ia. e Sa. Sp. ed elettivamente domiciliate presso lo studio dell’avvocato Gi. Va. in Roma, viale (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio dell’associazione DH. – Di. Hu. In. e l’appello incidentale spiegato nonché la costituzione in giudizio delle seguenti associazioni, Comunità So. La., Associazione Go., Al. or. del ca. di Sa. Be., Am. del ca. di Sa. Be., Cl. Al. It., Sezione di (omissis), De Re. Na., Gr. di az. lo. ve. la. del Pa. Na. D’A., Circolo Le. il Ci. di Fr., Fondazione l’A., Re. Ci. e Sy. e l’appello incidentale spiegato anche da esse nonché i documenti prodotti da tutte le associazioni costituite;
Esaminate le memorie prodotte e gli ulteriori documenti depositati nonché le note d’udienza;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del 18 febbraio 2021 il cons. Stefano Toschei e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Ch. Ai. e gli avvocati Ch. Ia., Sa. Sp. e Da. Vi., in collegamento da remoto, svolto nel rispetto del Protocollo d’intesa sottoscritto in data 15 settembre 2020 tra il Presidente del Consiglio di Stato e le rappresentanze delle Avvocature, ai sensi dell’art. 4, comma 1, d.l. 30 aprile 2020, n. 28 e dell’art. 25, comma 2, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario generale della Giustizia amministrativa;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. – Con ricorso in appello il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, con la quale è stato accolto il ricorso (R.g. n. 697/2019), seguito da motivi aggiunti, proposto dall’associazione DH. – Di. Hu. In. ai fini dell’annullamento del decreto DG-MU|16/10/2019|1279, a firma congiunta del Segretariato generale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, della Direzione generale Musei e del Polo Museale del Lazio, con il quale è stato disposto l’annullamento d’ufficio del decreto del 16 giugno 2017 con il quale il Segretariato generale del predetto Ministero aveva approvato la graduatoria della selezione per l’affidamento in concessione del bene immobile culturale denominato Ce. di Tr. in favore dell’associazione DH. – Di. Hu. In..
2. – La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita, sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue:
– il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (d’ora in poi, per brevità, MIBACT), con avviso pubblico del 26 ottobre 2016, emesso ai sensi del D.M. 6 ottobre 2015, aveva avviato una procedura selettiva per la concessione in uso di alcuni beni immobili appartenenti al demanio culturale dello Stato, tra i quali la Ce. di Tr.;
– ai sensi dell’art. 4 della legge speciale della selezione, la partecipazione alla stessa era riservata alle associazioni e alle fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che dimostrassero di essere in possesso dei seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell’ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell’avviso pubblico, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della Soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione;
– all’esito della selezione l’associazione DH. – Di. Hu. In. (d’ora in poi, per brevità, associazione DH.) risultava assegnataria della concessione con 72,6 punti e unica in graduatoria;
– quindi in seguito all’approvazione della graduatoria, avvenuta con decreto del 16 giugno 2017, in data 14 febbraio 2018 veniva sottoscritto l’atto di concessione tra il MIBACT e l’associazione DH.;
– successivamente a tali fatti emergeva, in seguito alla verifica della documentazione allegata alla domanda di partecipazione alla selezione, presentata dalla suddetta associazione in data 16 gennaio 2017, che in tale data la DH. non aveva fornito la prova del possesso di tutti i requisiti richiesti dall’avviso pubblico e prescritti dal DM 6 ottobre 2015 e, in particolare: a) la personalità giuridica dell’associazione (visto che nella domanda di partecipazione la DH. aveva dichiarato che la personalità giuridica sarebbe stata acquisita il 30 dicembre 2016, mentre dalla documentazione trasmessa all’amministrazione procedente si veniva a scoprire che in data successiva rispetto a quella di pubblicazione dell’avviso di selezione era stata solo presentata la domanda di riconoscimento della personalità giuridica e che la Prefettura di Roma aveva provveduto al riconoscimento della personalità della DH. solo in data 20 giugno 2017); b) alla data del 16 gennaio 2017 lo statuto della DH. non indicava tra le finalità perseguite dall’associazione in via principale quella relativa allo svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici (atteso che l’art. 6 dello statuto indicava solo le seguenti finalità istituzionali: “i) la promozione del Santo Vangelo nel mondo pubblico e politico; ii) sostenere la Chiesa Cattolica con la formazione dei giovani, che hanno spiccate vocazioni alla missione politica; iii) l’organizzazione delle attività di formazione”) e solo in data 30 marzo 2017 la DH. aveva introdotto una integrazione dello statuto con l’inserimento della finalità statutaria della tutela promozione e valorizzazione del patrimonio culturale; c) quanto al requisito della documentata esperienza quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, dalla domanda di partecipazione emergeva che la DH. era stata costituita solo in data 8 novembre 2016,
– dalla verifica successiva, oltre alla carenza dei tre requisiti suindicati, emergeva che alcune attività attribuibili alla DH. erano state svolte (almeno apparentemente) in epoca anteriore rispetto alla costituzione dell’associazione e comunque il loro svolgimento non era stato adeguatamente dimostrato, oltre alla circostanza che dette attività non si presentavano congruenti con quanto richiesto dal bando (in particolare: a) la collaborazione con il Centro guide Ci. e con l’Università Lateranense nel 2011 e nel 2014, rispetto alle quali non era indicato il periodo temporale di svolgimento almeno quinquennale e non veniva chiarita l’attinenza con la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; b) la partecipazione con Ci. Tu..it alla settimana della cultura 2012, all’Educational Tour 2014 e al Press Trip organizzato dalla Regione Lazio nel 2015, rispetto alle quali, oltre ad essersi svolte per brevi periodi temporali non era adeguatamente indicata l’attinenza con i settori della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, per come richiesto dal bando; c) la gestione del Museo monastico di San Nicola nella Ciociaria, rispetto alla quale non era allegata la necessaria attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione oltre a non essere stato dimostrato con chiarezza se detta attività potesse effettivamente imputarsi all’associazione DH.;
– a quanto sopra si aggiungevano, in seguito a due interventi ispettivi ministeriali del 16 aprile e del 2 maggio 2019, talune inadempienze riscontrate in capo alla concessionaria DH. rispetto agli obblighi stabiliti dal contratto di concessione sottoscritto il 14 febbraio 2018;
– ne derivava, quindi, l’adozione da parte del MIBACT, in data 16 ottobre 2019, dell’annullamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 21-nonies l. 7 agosto 1990, n. 241 del decreto del 16 giugno 2017 con il quale era stata approvata la graduatoria della selezione in favore dell’associazione DH. e di tutti gli atti conseguenti ivi compreso il travolgimento del contratto di concessione del 14 febbraio 2018;
– l’associazione concessionaria, quindi, impugnava il suddetto provvedimento dinanzi al TAR per il Lazio, sede staccata di Latina, chiedendone l’annullamento in quanto affetto da numerosi profili di illegittimità ;
– con ricorso recante motivi aggiunti DH. impugnava anche la nota prot. n. 10331 del 5 dicembre 2019 con cui il MIBACT le aveva ordinato di provvedere al rilascio dell’immobile culturale Ce. di Tr. nonché il provvedimento n. 16790 del 4 dicembre 2019 di diniego, espresso dal Ministero, nei confronti della domanda di accesso presentata dalla DH. per ottenere il rilascio del parere del 29 maggio 2019 reso dall’Avvocatura generale dello Stato e della nota dell’Ufficio legislativo del ridetto Ministero;
– il TAR adito, dopo avere ritenuto fondata l’eccezione di inammissibilità dell’intervento ad opponendum presentata dalle associazioni anche oggi presenti nel grado di appello del giudizio (in quanto non era rilevabile la presenza dell’interesse ad agire o ad intervenire nel giudizio “(…) giacché nessuna delle undici interventrici ha preso parte alla selezione a conclusione della quale è stato rilasciato alla Di. il provvedimento concessorio. Vero è che l’interesse all’intervento processuale può assumere anche solo natura di mero fatto, come riconosciuto dalla giurisprudenza, ma è pur vero che deve essere comunque differenziato e non indistinto, e in ogni caso deve essere attuale e certo (…)”, così, testualmente, a pag. 7 della sentenza qui oggetto di appello), accoglieva il ricorso proposto dall’associazione DH. in quanto “Coglie nel segno l’assorbente censura con cui la ricorrente lamenta la violazione del termine di diciotto mesi previsto dall’art. 21 novies per l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio”, oltre alle ulteriori circostanze in ragione delle quali, posto che la struttura sinallagmatica del rapporto non esclude, anzi conferma che il rapporto instaurato tra amministrazione e DH. abbia valenza economica per il concessionario, illegittimamente l’amministrazione non aveva indicato puntualmente quali fossero le dichiarazioni “false o mendaci” rese dalla DH. e comunque, quand’anche fosse emersa la non veridicità delle dichiarazioni rese, esse avrebbero potuto avere rilievo ai fini dell’annullamento del provvedimento concessorio in epoca successiva allo spirare del termine di diciotto mesi dall’adozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario solo nel caso in cui il comportamento penalmente rilevante fosse stato accertato in una sentenza (del giudice penale) passata in cosa giudicata.
Da qui l’appello nei confronti della sentenza di primo grado che il MIBACT ritiene errata, prospettando quattro percorsi contestativi che suffragherebbero la richiesta di riforma della sentenza con conseguente reiezione del ricorso di primo grado.
3. – L’odierna parte appellante, nell’atto introduttivo del presente giudizio di appello, sostiene che:
1) in primo luogo (come già ampiamente sostenuto nel corso del giudizio di primo grado) l’atto di annullamento assunto dal MIBACT nell’esercizio del potere di autotutela, rivolgendosi ad una concessione di valorizzazione a titolo oneroso di un bene immobile di rilievo culturale (nella specie la Ce. di Tr.), integrava – per ciò stesso – la rimozione di una fattispecie contrattuale a carattere sinallagmatico, giammai poteva dunque riferirsi ad un provvedimento di autorizzazione né ad un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici, con la duplice conseguenza che l’autotutela era rivolta ad una atto di natura privatistica piuttosto che ad un provvedimento amministrativo e che, quindi, non trovava nella specie applicazione la previsione “garantista” introdotta nell’art. 21-nonies l, 241/1990 dalla l. 7 agosto 2015, n. 124, che confina l’esercizio del potere di autotutela (nei confronti degli atti di autorizzazione e di quelli attributivi di vantaggi economici) nel limite temporale di diciotto mesi dall’adozione del provvedimento da rimuovere. In altri termini “La struttura sinallagmatica del rapporto e il rischio di impresa posto a carico della concessionaria escludevano pertanto che il rapporto instaurato con il concessionario avesse valenza attributiva di vantaggi economici” (così, testualmente, a pag. 18 dell’atto di appello), con la conseguente inapplicabilità della previsione contenuta nell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990 in seguito alla novella del 2015;
2) in ogni caso, la dimostrata rappresentazione dei fatti e, quindi, la comprovata non veridicità di quanto dichiarato ed attestato da parte della DH. avrebbe dovuto indurre il giudice di primo grado a ritenere puntualmente applicabile la disposizione di cui all’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990. Nel caso di specie, infatti, “trattandosi (…) di mero riscontro di una falsa rappresentazione dei fatti da parte della ricorrente – l’Amministrazione ben poteva esercitare il potere di autotutela alla stessa conferito dall’art. 21-nonies, pur in carenza di una sentenza passata in giudicato”, sicché “Nella fattispecie in esame il Tar Latina avrebbe dovuto unicamente verificare la “ragionevolezza” del tempo decorso nell’adozione del provvedimento di autotutela impugnato, sul presupposto della inoperatività del termine di diciotto mesi, perché il provvedimento di concessione conseguito dalla Associazione era basato su un presupposto non esistente, cioè il possesso della personalità giuridica” (così ancora, testualmente, alle pagg. 23 e 24 dell’atto di appello);
3) la sentenza è poi errata nella parte in cui scrutina, seppur parzialmente, il merito delle carenze documentali contestate dal Ministero rispetto a quanto dichiarato da DH., spingendosi ad affermare che non vi sarebbero stati ostacoli normativi alla valutazione da parte del MIBACT delle esperienze curriculari maturate da DH. anche in epoca antecedente rispetto alla data di conferimento della personalità giuridica, ovvero nel periodo durante il quale operava nel regime di diritto britannico, o ancora dal 2011 in seguito al trasferimento della sede in Italia, ivi operando come associazione di fatto. In disparte la parzialità e la limitatezza dello scrutinio operato dal primo giudice, non tenendo conto delle altre e numerose contestazioni rivolte alle dichiarazioni espresse da DH., va rammentato che l’avviso pubblico del 6 ottobre 2015 conteneva una serie organica e coordinata di disposizioni relative ai requisiti di partecipazione alla selezione e tutti detti elementi presentavano lo stesso valore ed erano reciprocamente interrelati, con la conseguenza che si presenta errata l’affermazione, espressa dal Tribunale amministrativo regionale, secondo cui nulla impediva all’amministrazione di valutare le vicende dell’associazione non riconosciuta;
4) da ultimo la sentenza qui oggetto di appello è errata in quanto il giudice di primo grado ha omesso del tutto di esaminare i presupposti per l’adozione del provvedimento di rilascio dell’immobile (impugnato con ricorso recante motivi aggiunti) e la motivazione che l’accompagnava, procedendo all’annullamento dello stesso solo per effetto derivato dall’accoglimento del ricorso introduttivo.
4. – Si è costituita in giudizio l’associazione DH. contestando analiticamente la fondatezza dei motivi di appello e confermando la correttezza della decisione alla quale è giunto il giudice di primo grado.
Nello specifico la DH. ha riproposto, anche quali motivi di appello incidentale, le censure dedotte in primo grado e non scrutinate dal Tribunale amministrativo regionale, in quanto ritenute assorbite in seguito all’accoglimento della censura relativa alla illegittimità del provvedimento impugnato per avere annullato un provvedimento attributivo di vantaggi economici oltre il termine di diciotto mesi previsto dall’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990.
I motivi riproposti attengono:
– in primo luogo, alla incidenza di una pressione mediatica costantemente ostile all’assegnazione della concessione in favore dell’associazione DH., per motivi del tutto estranei alla procedura, venendosi a creare una situazione di evidente disfavore nei confronti dell’associazione concessionaria che ha finito per condizionare l’istruttoria svolta al fine di verificare il possesso dei requisiti dichiarati dalla candidata all’atto della presentazione della domanda per la partecipazione alla selezione, tanto che “Dalla complessiva condotta dell’Amministrazione si percepisce obiettivamente il chiaro intento di impedire tout court lo svolgimento delle attività, di carattere sociale e culturale, che l’odierna Ricorrente ha legittimamente rappresentato di voler svolgere, senza alcun rilievo dell’Ente concedente, all’epoca della selezione pubblica che ha preceduto l’aggiudicazione” (così, testualmente, a pag. 12 dell’atto di costituzione dell’appellata);
– in secondo luogo erroneamente il Ministero, privilegiando una lettura inappropriatamente formalistica della disciplina della legge speciale della selezione, ha ritenuto che l’originaria carenza della personalità giuridica in capo alla DH. costituisse elemento di sicura e insuperabile preclusione alla partecipazione alla selezione per il rilascio della concessione, tenuto conto del c.d. principio di libertà delle forme in relazione ai soggetti partecipanti alle procedure di evidenza pubblica, considerato anche che, nel settore (giuridicamente finitimo) dell’affidamento degli appalti pubblici è ampiamente ammesso di valutare la possibilità di partecipazione di associazioni non riconosciute, soprattutto nel caso di soggetti stranieri, rispetto ai quali può legittimamente farsi riferimento alla configurazione giuridica assunta dal partecipante nello Stato di provenienza. Ne deriva che l’originaria carenza della personalità giuridica in capo alla DH. non può costituire motivo di automatica condizione ostativa alla partecipazione alla procedura di affidamento della concessione in questione, considerato anche che l’art. 4 dell’avviso pubblico della selezione non declinava tra i motivi di esclusione alla stessa la dimostrazione del riconoscimento della personalità giuridica in capo alle associazione o alle fondazioni che avessero presentato la domanda. Tutt’al più un siffatto presupposto va considerato non come legittimante alla partecipazione alla selezione, bensì come requisito “di esecuzione”, il cui possesso deve sussistere prima dell’avvio della prestazione;
– tanto vale anche per la ulteriore considerazione oppositiva alla legittimazione all’ottenimento del provvedimento concessorio espressa dal MIBACT con riferimento all’aggiornamento da parte di DH., soltanto nel 2017 (e quindi in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione della domanda) del proprio statuto per renderlo coerente con le prescrizioni della lex specialis. Infatti la DH., seppure in veste di associazione non riconosciuta, operava da anni nell’attività di diffusione di principi e valori che costituiscono certamente patrimonio culturale latamente inteso, sicché la nuova configurazione statutaria operata nel 2016 è stata adottata per la sola ragione di avviare, anche in Italia, le medesime iniziative chiaramente rivolte alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale svolte dall’associazione in altri stati europei;
– non appaiono poi adeguatamente motivate le contestazioni relative alla asserita carenza di esperienza nel settore, atteso che questa avrebbe potuto essere dimostrata, qualora ve ne fosse stato bisogno, attraverso una idonea partecipazione procedimentale sollecitata dal Ministero all’associazione, durante la quale sarebbe stato possibile comprovare tutte le dichiarazioni rese in sede di partecipazione alla selezione;
– non è stata dimostrata dal Ministero la sussistenza dei presupposti che giustificano l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela della concessione rilasciata in favore di DH., per come richiesti dall’art. 21-nonies l. 241/1990, né l’atto è assistito da una adeguata motivazione, non essendo obiettivamente riscontrabili né dimostrati l’originaria illegittimità del provvedimento di aggiudicazione, la sussistenza di un interesse concreto attuale alla rimozione dell’atto di concessione e, comunque, appare evidente la violazione del termine di 18 mesi per l’adozione di un provvedimento di autoannullamento, oltre alla circostanza che le contestazioni circa la non veridicità di quanto dichiarato dall’associazione al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla selezione avrebbero dovuto essere oggetto di una approfondita e circostanziata istruttoria nell’ambito della quale avrebbero dovuto essere analiticamente individuate e comprovate le affermazioni non veritiere imputate alle dichiarazioni rese da DH.;
– da ultimo, il provvedimento di rilascio dell’immobile (decreto DG-MU/16/10/2019/1279) deve ritenersi illegittimo per illegittimità derivata secondo quanto sopra riferito.
5. – Si sono costituite in giudizio le seguenti associazioni: Comunità So. La., Associazione Go., Al. or. del ca. di Sa. Be., Am. del ca. di Sa. Be., Cl. Al. It., Sezione di (omissis), De Re. Na., Gr. di az. lo. ve. la. del Pa. Na. D’A., Circolo Le. il Ci. di Fr., Fondazione l’A., Re. Ci. e Sy., spiegando appello incidentale nei confronti della sentenza del TAR per il Lazio, sezione staccata di Latina, n. 173/2020 e contestando, in via principale, la decisione del primo giudice di accogliere l’eccezione di carenza di legittimazione delle predette associazioni a spiegare intervento (ad opponendum) nel presente giudizio.
Ciò in quanto:
– sotto un primo versante appare evidente come il Tribunale amministrativo regionale abbia preteso escludere la sussistenza in capo alle associazione dell’interesse ad intervenire sulla base di una valutazione di merito relativa all’oggetto della concessione affermando, in modo errato, che l’assegnazione alla DH. non “possa ex se compromettere lo scopo di valorizzare il patrimonio culturale”, trattandosi di vicenda non attinente alla legittimazione delle associazioni ma al contenuto del provvedimento concessorio e alla assegnabilità della concessione alla DH.;
– sotto un secondo versante, le conclusioni alle quali è giunto il Tribunale amministrativo sono errate perché la legittimazione all’intervento è costantemente riconosciuta dalla giurisprudenza anche alle associazioni portatrici di interessi “di fatto”.
Le suddette associazioni hanno poi ribadito la erroneità nel merito delle valutazioni contenute nella sentenza di primo grado facendo propri, sostanzialmente, i motivi d’appello già illustrati dal MIBACT.
Concludevano chiedendo, previa ammissione dell’intervento ad opponendum, la riforma della sentenza di primo grado e la conseguente reiezione del ricorso in quella sede proposto.
6. – Nel corso del processo le parti hanno presentato memorie nonché note di udienza confermando le conclusioni già rassegnate negli atti processuali precedentemente depositati.
7. – In primo luogo il Collegio deve farsi carico della questione relativa alla legittimazione delle associazioni più sopra indicate ad intervenire nel presente processo.
Come si è sopra illustrato, il giudice di primo grado ha escluso la legittimazione all’intervento in quanto:
– in primo luogo va considerato che, all’esito dell’esame degli statuti associativi, l’emergere di uno scopo generale delle associazioni volto alla valorizzazione del patrimonio culturale possa costituire una valida ragione per opporsi all’affidamento della gestione della Ce. di Tr. a DH., visto che tale scelta, di per sé, non può compromettere lo scopo di valorizzare il patrimonio culturale del quale le comunità assumono di essere portatrici;
– in secondo luogo l’interesse all’intervento oppositivo coltivato dalle associazioni non può essere loro riconosciuto non “rivestendo qualificazione specifica, giacché nessuna delle undici interventrici ha preso parte alla selezione a conclusione della quale è stato rilasciato alla Di. il provvedimento concessorio”. Infatti, sebbene possa condividersi il principio per cui “l’interesse all’intervento processuale può assumere anche solo natura di mero fatto, (…) è pur vero che deve essere comunque differenziato e non indistinto, e in ogni caso deve essere attuale e certo”.
L’assunto giuridico fatto proprio dal Tribunale amministrativo regionale al fine di escludere la legittimazione all’intervento oppositivo nel presente giudizio in capo alle ridette associazioni non può essere condiviso.
Infatti l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (con la sentenza 3 giugno 2011 n. 10) ha chiarito che la legittimazione dell’ente esponenziale va riguardata con esclusivo riferimento all’interesse istituzionalizzato e alla portata lesiva di esso (rintracciabile nel provvedimento impugnato)
L’adunanza plenaria, d’altronde, aveva già da tempo chiarito (con la sentenza 2 novembre 2015 n. 9) che la legittimazione attiva (e, dunque, la legittimazione all’intervento in giudizio) di associazioni rappresentative di interessi collettivi obbedisce alle stringenti regole di seguito precisate:
– è necessario, anzitutto, che la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell’associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati;
– è, inoltre, indispensabile che l’interesse tutelato con l’intervento sia comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all’associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbero automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio.
In ragione di quanto sopra va quindi ribadito il costante orientamento della giurisprudenza del giudice amministrativo incline ad affermare, nello specifico, che l’intervento ad opponendum a supporto della legittimità del provvedimento impugnato può essere giustificato anche dalla titolarità di un interesse di fatto che consenta alla parte di ritrarre un vantaggio indiretto e riflesso dalla reiezione del ricorso (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, Sez. III, 9 febbraio 2021 n. 1230, Sez. IV, 10 febbraio 2020 n. 573).
Infatti, come ha ricordato anche la Sezione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 luglio 2020 nn. 4525 e 4527) i requisiti concernenti la legittimazione a impugnare devono essere tenuti distinti da quelli relativi alla legittimazione a intervenire, essendo questi ultimi assai meno stringenti dei primi.
Appare evidente, quindi, che il giudice di primo grado, nel caso di specie, abbia ritenuto insussistenti i requisiti, in capo alle associazioni, per proporre ricorso avverso il provvedimento di rilascio della concessione (non essendo state candidate nell’ambito della selezione), ma tale condizione non poteva condurre anche alla dichiarazione di insussistenza della legittimazione ad intervenire ad opponendum, da parte delle medesime associazioni, nell’ambito del giudizio avverso l’atto di annullamento in autotutela della concessione, posto che le interventrici avevano tutte dimostrato la presenza di un comune scopo statutario di valorizzazione del patrimonio culturale e, nello specifico, una giuridica contrarietà rispetto all’assegnazione della gestione della Ce. di Tr. in favore dell’associazione DH., per le stesse ragioni che avevano condotto il Ministero ad annullare in autotutela il provvedimento con il quale detta concessione di gestione era stata a suo tempo rilasciata.
Le associazioni, quindi, avevano dimostrato la sussistenza di un interesse di mero fatto sotteso al mantenimento dell’assetto determinato dal provvedimento (di annullamento in autotutela) impugnato, che consentisse loro, come nella specie, di trarre un vantaggio indiretto e riflesso dalla reiezione del ricorso; il loro intervento ad opponendum nel giudizio di primo grado (trasformatosi in intervento ad adiuvandum in sede di appello) doveva, dunque, essere ammesso.
8. – Nel merito, in punto di fatto, va rilevato che il provvedimento di annullamento in autotutela impugnato in primo grado è motivato sulla base delle seguenti considerazioni inerenti ai vizi (di cui all’art. 21-octies, comma 1, l. 241/1990) rilevati dal MIBACT in ordine al provvedimento prot. 6935 del 26 giugno 2017 con il quale la Direzione generale Musei ha individuato nell’associazione DH., all’esito di selezione, il soggetto cui rilasciare la concessione per la gestione del bene immobile culturale Ce. di Tr.:
– l’aggiudicazione della concessione in capo alla DH. è avvenuta in violazione della lex specialis della procedura (avviso pubblico 28 ottobre 2016 e D.M. 6 ottobre 2015) in quanto la suddetta associazione, al momento della scadenza del termine ivi previsto per la presentazione delle candidature (16 gennaio 2017), non risultava in possesso dei requisiti ivi richiesti;
– alla luce di approfondimenti interni e del rinnovato accurato esame degli atti conservati presso la Direzione generale Musei effettuato da ultimo nel mese di luglio 2019, è emerso che al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte la DH. non risultava in possesso: A) della personalità giuridica, invece, prevista dalla lex specialis, acquisita solo successivamente e, segnatamente, in data 20 giugno 2017 (come risultante dal certificato dalla Prefettura di Roma di cui alla nota prot. 220500 del 21 giugno 2017); B) del requisito concernente la previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici, atteso che lo statuto della DH. non prevedeva la predetta finalità, acquisita solo successivamente, in data 30 marzo 2017, mediante integrazione dello statuto medesimo; C) del requisito concernente la documentata esperienza quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, atteso che l’associazione DH. risulta essere stata costituita in data 8 novembre 2016;
– oltre ai suelencati deficit di requisiti richiesti per il rilascio della concessione, dal curriculum vitae allegato alla domanda di partecipazione da DH., emergeva lo svolgimento di attività anteriori alla costituzione dell’associazione non comprovate o congruenti con quanto richiesto dal bando.
Sempre in punto di fatto va, inoltre, rammentato che, all’esito della selezione alla quale DH. aveva partecipato e successivamente all’adozione del decreto del 16 giugno 2017 con il quale il MIBACT aveva approvato la graduatoria relativa all’affidamento della concessione per l’Ab. di Tr., dal momento che tale esito favorevole per DH. era rigidamente condizionato, per come espressamente precisato nel suindicato decreto, dalla verifica del possesso dei requisiti dichiarati in sede di presentazione della domanda di partecipazione, in data 6 luglio 2017, facendo seguito alla conseguente richiesta dell’amministrazione, DH. trasmetteva all’amministrazione procedente, oltre alla documentazione già trasmessa nel corso della procedura su richiesta della commissione [vale a dire: a) il contratto di concessione del Pi. Mu. Mo. di Ci. del 30 maggio 2015; b) la dichiarazione rilasciata dall’Abate Preside della Congregazione di Ca. del 23 maggio 2017; c) la dichiarazione rilasciata da Fr. Ca. del Ce. Gu. Tu. Ci. del 23 maggio 2017; d) la dichiarazione rilasciata da Lu. Re. del Gr. Ar. del 22 maggio 2017; e) 3 locandine relative all’attività museale per il periodo 2015-2017], la seguente ulteriore documentazione: a) la copia conforme notarile del 5 aprile 2017 dello Statuto della associazione; b) la lettera di mons. Ma. Sa. So., Cancelliere della Pontificia Academia Scientiarum, del 5 luglio 2017; c) la dichiarazione del signor Ki. Ja., direttore dell’Ac. In. di Ro., del 28 giugno 2017; d) la dichiarazione del signor Lu. Re. – Presidente del Gr. Ar., del 4 luglio 2017; e) la dichiarazione della signora Fr. Ca. – Presidente dell’Associazione Ci. del 4 luglio 2017; f) la dichiarazione della signora Cl. Ci. – Presidente dell’Associazione Cu. Et., del 30 luglio 2017.
Da ultimo, per completare l’esame della vicenda sotto il profilo fattuale, il MIBACT (per esso il Polo Museale regionale per il Lazio), dopo avere sottoscritto con DH., in data 14 febbraio 2018, la convenzione relativa alla concessione di valorizzazione dell’Ab. di Tr., che poi verrà trasferita nella disponibilità dell’associazione concessionaria a gennaio 2019, in seguito ad interventi ispettivi (svolti nelle date del 16 aprile 2019 e del 2 maggio 2019), con nota del 10 maggio 2019, contestava a DH. il mancato avvio degli interventi previsti in offerta nonché inadempienze rispetto alla convenzione (fra le quali il mancato pagamento del canone 2018), alle quali l’associazione dava risposta con nota del 21 giugno 2019. Successivamente il predetto Ministero, nell’agosto 2019, comunicava l’avvio di due procedimenti riguardanti, rispettivamente, l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione della selezione in favore di DH. per acclarata carenza dei requisiti prescritti dall’avviso e, quindi, la decadenza dalla concessione in ragione di persistenti inadempimenti agli obblighi assunti.
All’esito dei due procedimenti venivano adottati i due provvedimenti, il decreto di annullamento 16 ottobre 2019 n. 1279 in autotutela dell’esito della selezione e il decreto n. 10331 del 5 dicembre 2019 di rilascio del bene, impugnati (rispettivamente con ricorso introduttivo e con ricorso recante motivi aggiunti) in primo grado.
9. – Continuando con la descrizione della vicenda fattuale, ma in punto di diritto, ad avviso del Collegio merita di essere rilevato che:
– l’avviso pubblico del 28 ottobre 2016 stabiliva che fossero legittimati a partecipare alla selezione “esclusivamente” (art. 4.1, primo periodo) le “associazioni e fondazioni di cui al Libro I del Codice civile, dotate di personalità giuridica e non perseguenti fini di lucro, che siano in possesso dei requisiti di cui all’art. 2 del Decreto Ministeriale 6 ottobre 2015”;
– i requisiti che dovevano essere posseduti “a pena di inammissibilità ” dalle associazioni e dalle fondazioni suindicate erano i seguenti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza del patrimonio culturale; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell’ultimo quinquennio antecedente alla pubblicazione dell’avviso, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato; d) possesso dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (…) per contrarre con la pubblica amministrazione, limitatamente al rappresentante legale dell’ente;
– veniva poi chiarito (sempre nell’art. 4 dell’avviso) che “Gli enti, nella propria offerta, dovranno rendere apposita autocertificazione in ordine al possesso dei requisiti di cui sopra, resa ai sensi e nelle forme ai sensi del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
Orbene pare evidente al collegio che i suddetti requisiti dovevano essere posseduti alla scadenza del termine fissato per presentazione delle domande e quindi entro il 16 gennaio 2017 (data in cui effettivamente DH. ha presentato la domanda di partecipazione). Ciò discende sia dalla formulazione dell’avviso che sulla scorta di un principio immanente nel nostro ordinamento in virtù del quale i requisiti richiesti per la partecipazione ad una selezione pubblica debbono essere posseduti al momento della scadenza del termine perentorio stabilito dal bando per la presentazione della domanda di partecipazione, al fine di non pregiudicare la par condicio tra i candidati ad una selezione pubblica, che sempre deve assistere lo svolgimento di una siffatta procedura amministrativa, anche solo quale precipitato del principio di cui all’art. 97 Cost., oltre ai principi, criteri e disposizioni recati dall’art. 1 l. 241/1990, che disciplina ogni tipologia di attività amministrativa, anche di tipo selettivo (cfr., in argomento, Cons. Stato, Sez. VI, 8 settembre 2020 n. 5412) e che, ovviamente (operando, in via principale, quale principio generale relativo alla legittimazione a partecipare alla selezione e non quale condizione per l’ottenimento del beneficio derivante dall’avere superato favorevolmente la selezione stessa), trova applicazione anche nell’ipotesi in cui si verifichi il caso della partecipazione di un solo candidato alla selezione.
Detto principio è stato, nella specie, espressamente positivizzato dall’avviso pubblico di cui sopra nel quale è stato ulteriormente puntualizzato che:
– “La presentazione di una offerta da parte di un soggetto privo dei requisiti di cui al precedente punto 4.1 ne determinerà l’inammissibilità ” (punto 4.2, ultimo periodo);
– “(…) qualora l’aggiudicatario o il concorrente cui sia stata fatta richiesta, non riesca a comprovare il possesso dei propri requisiti, l’Amministrazione aggiudicatrice lo dichiarerà decaduto dall’aggiudicazione” (punto 4.3).
L’associazione appellata, in sintesi e con riferimento alle contestazioni espresse dal Ministero, alle quali DH. ha reagito trasmettendo a quest’ultimo osservazioni critiche, corroborate da produzioni documentali, trasmesse durante i procedimenti che hanno condotto all’adozione dei due provvedimenti più volte qui richiamati e oggetto di impugnazione in primo grado, sostiene la insussistenza delle denunciate carenze dei requisiti a suo tempo dichiarati in quanto:
– i requisiti di partecipazione, previsti a pena di esclusione, sono stati declinati dall’art. 4 dell’avviso pubblico e fra questi non viene indicato il possesso della personalità giuridica;
– non risponde al vero che tra i compiti della DH. non rientrasse l’attività di “promozione del patrimonio culturale”, così come richiesto dall’avviso pubblico, atteso che dall’art. 7 dello Statuto, anche nella versione antecedente alla modifiche introdotte nel 2017, si può leggere che rientrano tra le attività dell’associazione “La promozione e la valorizzazione dei beni culturali e delle tradizioni culturali italiane mediante manifestazioni di ogni tipo (…) La gestione d’immobili, strutture e attività sia proprie e sia eventualmente affidate all’associazione da Enti sia pubblici che privati (…) L’uso e la locazione di strutture idonee a svolgere e ad organizzare le attività dell’Associazione, dove promuovere ed esercitare anche il volontariato”;
– anche il possesso dell’esperienza quinquennale era stato debitamente comprovato dalla circostanza che DH. operava come associazione non riconosciuta sin dal 2008, sulla base di un atto costitutivo stipulato in Italia, attraverso la creazione di “Gruppi di Lavoro Parlamentare sulla Dignità Umana” attivi nell’ambito di diversi Parlamenti Europei, mentre la nuova configurazione statutaria realizzata nel 2016 è stata adottata al solo scopo di avviare, anche in Italia, le iniziative più spiccatamente rivolte alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale;
– la contestazione riguardante le esperienze maturate nel corso degli anni ed esposte nel curriculum allegato alla domanda di partecipazione si presenta, poi, del tutto generica, dal momento che le attività sono state definite in modo puntuale, mentre il Ministero si è limitato a sostenere che taluni aspetti risultano non pertinenti ovvero non strettamente collegati con l’attività di valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale.
10. – Tenuto conto di quanto emerge dalla lettura della documentazione prodotta in atti il Collegio ritiene che le contestazioni mosse dall’amministrazione all’associazione DH. abbiano fondamento, atteso che sono documentalmente provate.
In via principale è evidente che l’avviso pubblico e, prima ancora, il D.M. 6 ottobre 2015, recante la disciplina del rilascio delle concessioni in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato, si esprimano in termini estremamente chiari nel prevedere che alla selezione possano partecipare solo associazioni e fondazioni riconosciute, perché solo a queste tipologie di enti è consentito di essere destinatari della concessione di beni immobili del demanio culturale dello Stato.
Il tenore dell’art. 2 del citato decreto ministeriale non lascia spazio a diverse interpretazioni laddove stabilisce testualmente che “Le concessioni disciplinate dal presente decreto sono riservate alle associazioni e fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell’ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell’avviso pubblico di cui all’art. 3, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione”.
L’associazione DH. nella domanda di partecipazione alla selezione ha dichiarato di essere in possesso dei suindicati requisiti.
Tuttavia l’indagine svolta dall’amministrazione ha dimostrato una diversa realtà .
Infatti:
– per stessa ammissione di DH. il riconoscimento dell’associazione è intervenuto ben dopo il 16 gennaio 2017 (data di scadenza del termine per la presentazione delle domande), infatti solo cinque mesi dopo tale data, il 20 giugno 2017, l’Ufficio territoriale del governo registrava il riconoscimento dell’associazione (per come emerge dal certificato dalla Prefettura di Roma di cui alla nota prot. 220500 del 21 giugno 2017 versato agli atti del procedimento istruttorio svolto dal Ministero e nel presente giudizio);
– alla data del 16 gennaio 2017 l’art. 6 dello statuto dell’associazione riportava tra i compiti della stessa “la promozione del Santo Vangelo nel mondo pubblico e politico (…) sostenere la Chiesa Cattolica con la formazione dei giovani, che hanno spiccate vocazioni alla missione politica (…) l’organizzazione delle attività di formazione”, per indicare quelli più vicini all’attività che il bando stabiliva che i partecipanti dovevano dimostrare di ricomprendere nello statuto quali fini istituzionali. Solo in data 30 marzo 2017 veniva integrato lo statuto dell’associazione con l’inserimento della finalità statutaria della tutela promozione e valorizzazione del patrimonio culturale. Appare evidente che le tre attività indicate nell’art. 6 dello statuto dell’associazione prima dell’intervento integrativo e sopra riprodotte non possono considerarsi, se non parzialmente (e quindi insufficientemente), ricomprese nell’ambito dell’ampia e comunque specifica attività di promozione e di valorizzazione del patrimonio culturale, che evidentemente impone all’ente di impegnarsi non sporadicamente (per come è dimostrato dalla documentazione depositata dall’associazione) ma costantemente nella duplice opera di promuovere in maniera diffusa il senso della cultura e la conoscenza del patrimonio esistente nonché di valorizzarlo attraverso iniziative che non possono avere respiro territorialmente circoscritto (come ancora è evincibile dalla documentazione depositata) ma riferirsi all’intero territorio nazionale e internazionale;
– di conseguenza si presenta fortemente carente il possesso anche del successivo requisito (nell’elencazione indicata dall’art. 2 del decreto ministeriale 6 ottobre 2015) relativo alla documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale. D’altronde risulta dalla stessa domanda presentata dall’associazione che la sua costituzione è avvenuta soltanto in data 8 novembre 2016, non assumendo alcun rilievo che essa abbia operato in altri paesi d’Europa anche in epoca precedente ed in Italia attraverso una specifica convenzione, circostanze ancora una volta dimostrative della impossibilità di poter vantare quella specifica esperienza quinquennale richiesta dall’avviso pubblico;
– del resto le varie attività documentate (quali la collaborazione con il Centro guide Ci. e con l’Università Lateranense nel 2011 e nel 2014, la partecipazione con Ci. Tu..it alla settimana della cultura 2012, all’Educational Tour 2014 e al Press Trip organizzato dalla Regione Lazio, la gestione del Museo monastico di San Nicola nella Ciociaria) recavano evidenti ed incolmabili carenze circa l’esatta indicazione dell’arco temporale di svolgimento, l’esatta tipologia di attività svolta (sempre con riferimento ai settori della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale, ai quali era rigorosamente collegata la previsione dell’avviso pubblico onde poter considerare idonee a comprovare la sussistenza del requisito di partecipazione alla selezione le pregresse esperienze che sarebbero state indicate dai candidati) e, nei casi in cui era richiesto dall’avviso pubblico, non era allegata l’attestazione da parte della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione del bene gestito (requisito, ancora una volta, richiesto espressamente dall’art. 2 del decreto ministeriale del 2015 e riprodotto al punto 4 dell’avviso pubblico);
– infine, dalla documentazione allegata non era possibile verificare quale fosse la reale attività assegnata all’associazione DH. nello svolgimento delle suindicate collaborazioni.
Deriva da quanto sopra come sia stata ampliamente dimostrata la carenza dei suddetti requisiti richiesti a pena di esclusione per la partecipazione alla selezione da parte dell’amministrazione procedente, peraltro in contraddittorio con l’associazione interessata e con richiesta di documentazione integrativa, il che conduce a ritenere congruamente svolta l’istruttoria e motivata la decisione assunta in autotutela dall’amministrazione (anche in adempimento del dettato di cui agli artt. 3 e 21-nonies l. 241/1990).
11. – I suindicati profili di merito non sono stati scrutinati dal giudice di prime cure in quanto il Tribunale amministrativo regionale ha ritenuto assorbite le corrispondenti questioni prospettate in quel grado di giudizio, attesa la fondatezza del motivo di censura con il quale l’associazione DH. ha sostenuto la illegittimità del provvedimento di annullamento in autotutela del decreto con il quale era approvata la graduatoria conclusiva della selezione per violazione dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, in quanto era oramai trascorso il termine massimo di 18 mesi indicato dalla richiamata disposizione quale limite temporale ultimo oltre il quale l’amministrazione non può annullare in autotutela i provvedimenti di rilascio di autorizzazione ovvero di attribuzione di vantaggi economici.
In proposito va detto che, in via principale, la difesa erariale ha sostenuto che la inapplicabilità della suindicata disposizione normativa (limitativa dell’esercizio del potere di autotutela all’arco temporale di diciotto mesi dalla data di adozione del provvedimento oggetto di annullamento) in quanto non riferibile al caso di specie, posto che il rilascio di una concessione non costituirebbe un provvedimento di attribuzione di un vantaggio economico, essendo il momento autoritativo sostanzialmente confuso nella stipula della convenzione che è atto di diritto privato e quindi non riconducibile alla sfera di applicazione della legge fondamentale sul procedimento amministrativo.
Partendo da tale ultimo aspetto va rilevato (al contrario di quanto sostenuto dalla difesa erariale e in linea con quanto ha affermato il giudice di primo grado nella sentenza qui oggetto di appello) che la selezione avviata dal MIBACT e conclusa con l’adozione di un decreto di approvazione della graduatoria e di individuazione dell’assegnatario della concessione di un bene immobile di rilievo culturale ha ad oggetto, senza alcun dubbio, l’assegnazione di un vantaggio economico [e proprio per questa ragione la scelta del concessionario di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico va effettuata mediante procedura competitiva di evidenza pubblica, in applicazione diretta dei principi di matrice eurounitaria del Trattato dell’Unione europea (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 2011 n. 3250 e 7 aprile 2011 n. 2151, alle cui motivazioni è qui sufficiente fare rinvio)].
La concessione per la cura e lo sfruttamento (e quindi, in sintesi, della gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione. L’operazione, ad evidente carattere dicotomico, si completa con la stipula della convenzione, che caratterizza il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, per mezzo della quale le parti, concedente e concessionario, disciplinano gli aspetti concreti e “la vita” della gestione del bene demaniale, individuando le peculiarità che contraddistinguono il rapporto tra le parti, anche sotto il profilo economico.
Dunque il momento civilistico non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionato dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario.
Infatti la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.). Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all’utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio.
Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla concessione-contratto. L’atto accessivo ad una concessione (il “contratto”) che, giuridicamente, va qualificata quale tipico provvedimento amministrativo costitutivo, parteciperebbe della natura provvedimentale della concessione medesima, ben potendo, dunque, al pari di essa, essere oggetto dell’esercizio di poteri di autotutela da parte dell’amministrazione, stante l’intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra le due fasi e tra gli atti che le concludono. D’altronde, anche per quello che si dirà nel prosieguo, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si è proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità pervade il contratto e quindi provoca la decadenza dal beneficio ottenuto indebitamente.
Ne deriva che, non solo il rilascio di una concessione costituisce un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici “a persone ed enti pubblici e privati” (per come è specificato nell’art. 12 l. 241/1990), ampliativo della sfera giuridica (ed economica) del destinatario, che rappresenta il momento prodromico e pregiudiziale per la composizione civilistica degli interessi del concedente e del concessionario, ma nei confronti di detto provvedimento e del procedimento all’esito del quale esso viene adottato trovano sicuramente applicazione le disposizioni recate dalla l. 241/1990, ivi compreso l’istituto dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies l. 241/1990.
Il potere di autotutela decisoria, anche nel caso che qui rileva, è invero, un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione di volontà già responsabilmente espressa dall’amministrazione e in sé costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all’art. 21-nonies l. 241/1990, per esigenze di sicurezza giuridica e certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro diciotto mesi “dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”
Ed è proprio per tale ragione che il giudice di primo grado ha accolto il ricorso proposto dall’associazione DH., atteso che il provvedimento di annullamento in autotutela impugnato e il successivo ordine restitutorio del bene sono intervenuti in epoca ampiamente successiva al termine di 18 mesi dall’adozione sia dell’atto di individuazione del concessionario (16 giugno 2017) che dalla stipula della convenzione concessoria (14 febbraio 2018), giacché l’atto di annullamento del primo provvedimento è stato assunto in data 6 ottobre 2019 e l’ordine di restituzione è stato assunto in data 5 dicembre 2019.
12. – Tuttavia le conclusioni alle quali è giunto il giudice di primo grado, in merito alla tardività dell’adozione dell’atto di annullamento in autotutela non convincono il Collegio.
Va rimarcato, preliminarmente, che nel caso di specie siamo al cospetto di un soggetto (l’associazione DH.) che ha conseguito un vantaggio economico (l’assegnazione del bene di rilievo culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione) sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla relativa selezione, poi dimostratesi non veritiere.
Il Tribunale amministrativo regionale non ha ignorato tale elemento, ma ha ritenuto che, al ricorrere di una siffatta ipotesi, l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento, adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) avviato nei confronti del dichiarante (ovviamente, laddove detto procedimento venga realmente avviato), in ossequio alla norma contenuta nell’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990.
Tale lettura interpretativa della norma non è condivisibile.
Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2020 n. 16, ha sviluppato le seguenti argomentazioni che il Collegio ritiene di riferire al caso di specie come segue:
– in via generale, “è risalente l’insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest’ultimo con la realtà . In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”;
– premesso quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva;
– va però precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva;
– a ciò va aggiunto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e dall’altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione;
– da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest’ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità .
Nel caso in esame:
– non si è al cospetto di valutazioni opinabili, posto che le ragioni della non veridicità delle dichiarazioni poggiano su dimostrazioni documentali di insussistenza dei requisiti richiesti dalla procedura di selezione;
– prima di adottare il provvedimento di annullamento in autotutela l’amministrazione ha svolto una apposita istruttoria coinvolgendo pienamente l’associazione DH., consentendo quindi alla stessa di contraddire su ogni profilo dei deficit rilevati dall’amministrazione in ordine ai requisiti di partecipazione dichiarati ma, all’esito della verifica successiva all’esito della selezione, la cui sussistenza non è stata confermata dalla documentazione ricevuta;
– ne consegue che, non solo si è confermata la insussistenza dei requisiti di partecipazione in capo all’associazione DH. al momento della presentazione della domanda (il 16 gennaio 2017), ma si è anche dimostrata la non veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
13. – A questo punto, dunque, si impone lo sviluppo di ulteriori considerazioni in merito ai due istituti, apparentemente confliggenti tra di loro, dell’annullamento in autotutela e in particolare della previsione di cui all’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990, grazie al quale sarebbe possibile superare il limite temporale di diciotto mesi, con riferimento all’annullamento degli atti di rilascio di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici (di cui al comma 1 del suddetto articolo), solo in epoca successiva al passaggio in cosa giudicata della sentenza penale di condanna di colui che ha ottenuto l’autorizzazione o il beneficio dichiarando il falso e del diverso istituto della decadenza dal beneficio, di cui all’art. 75 d.P.R. 445/2000, a mente del quale (per la parte che qui interessa non modificata dall’art. 264, comma 2, lett. a), n. 2), d.l.. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, che vi ha introdotto un nuovo comma 1-bis) “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.
La Sezione ha già chiarito che (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, Sez. VI, 31 dicembre 2019 n. 8920) è ferma in giurisprudenza, per i più vari casi d’esercizio di una funzione amministrativa ampliativa delle facoltà giuridiche del privato e connessa ad autodichiarazioni rese da quest’ultimo (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 12 giugno 2019 n. 3940, 3 febbraio 2016 n. 404 e 24 luglio 2014 n. 3934), la regola secondo cui, in base a detto art. 75, la non veridicità di quanto descritto nella dichiarazione sostitutiva presentata implica la decadenza dai benefici ottenuti con il provvedimento conseguente a tale dichiarazione, senza che, per l’applicazione di detta norma, abbia rilievo la condizione soggettiva del dichiarante (rispetto alla quale è irrilevante l’accertamento della falsità degli atti in forza di una sentenza penale definitiva di condanna), facendo invece leva sul principio di autoresponsabilità .
14. – Da ciò discende che (come ha chiarito l’Adunanza plenaria nella richiamata sentenza n. 16/2020), anche a voler seguire la prospettazione del TAR in tema d’autotutela discrezionale e di perentorietà del termine per esercitarla, laddove la fallace dichiarazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del provvedimento amministrativo, è del pari congruo che il termine “ragionevole” (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità (cfr., ancora per tutte, seppure in materia edilizia ma con principi sovrapponibili pienamente al caso in esame, Cons. Stato, Ad. pl., 17 ottobre 2017 n. 8).
Tenendo conto dei principi espressi dall’Adunanza plenaria nelle due sentenze appena richiamate, si può dunque affermare che l’avere omesso di dichiarare o l’avere dichiarato in modo fuorviante ovvero non veritiero elementi indispensabili a permettere la formazione della volontà dell’amministrazione che si coagula nel provvedimento ampliativo, laddove tale volontà sia negli esiti coartata e comunque inquinata dalla non rispondenza al vero degli elementi di fatto e di diritto dichiarati dalla parte interessata, è lo stesso soggetto interessato, con il proprio comportamento, ad indurre l’amministrazione a rimuovere in autotutela il provvedimento caratterizzato da patologie rilevanti e quindi a provocare la decadenza dal beneficio ingiustamente acquisito, senza che possa essere garantita la sopravvivenza dello stesso in base ad un mero elemento di fatto quale il trascorrere del termine di 18 mesi.
Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che:
– il termine massimo di 18 mesi assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost. nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. 241/1990;
– sotto il versante del diritto eurounitario (nell’ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto specifico e concreto dell’autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario per l’interesse pubblico (e fermo in ogni caso l’indennizzo della posizione acquisita).
– nello stesso tempo però (cfr. Cons. stato, Sez. III, 8 luglio 2020 n. 4392), affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all’uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l’aspettativa del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l’affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa);
– sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. 241/1990, affligge l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione;
– diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici;
– ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost., quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando (anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (nel caso di specie alla selezione potrebbero non avere partecipato associazioni che, non possedendo i requisiti richiesti dall’avviso pubblico, sapevano che sarebbero state escluse e che, peraltro, potrebbero avere conseguito i requisiti richiesti in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione delle domande esattamente come l’associazione DH. che ha, dunque, partecipato alla selezione senza essere in possesso dei requisiti richiesti, addirittura aggiudicandosela).
Pertanto, la surriproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, porta ad affermare che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2019 n. 3192, 24 aprile 2019 n. 2645 e 14 giugno 2017).
15. – Per completezza merita ancora di essere ricordato come la condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha chiarito come il superamento dei limiti temporali previsti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela (sanciti dall’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, e già ivi espressi attraverso il canone del “termine ragionevole”) in presenza di una falsità dichiarativa o documentale presupponga la valenza obiettivamente determinante di siffatta falsa rappresentazione, tanto che è proprio sulla base di essa che il provvedimento ampliativo è stato adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018 n. 3940).
Coerente con tale prospettiva risulta la (più sopra) citata pronuncia n. 8 del 2017 dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, la quale ha posto in risalto che, se “la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”, ciò vale tuttavia nelle ipotesi in cui “la non veritiera prospettazione dei fatti rilevanti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l’adozione dell’atto illegittimo”.
Tenuto conto di quanto sopra, in presenza di un provvedimento attributivo di vantaggi economici, nella specie il provvedimento di approvazione della graduatoria della selezione che aveva decretato quale assegnataria della concessione l’associazione DH., rilasciato sulla base di una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà resa dalla predetta associazione, recante l’attestazione di circostanze obiettivamente non veritiere, ossia l’assenza delle situazioni indicate dall’avviso pubblico e, prima ancora, dall’art. 2 del decreto ministeriale 6 ottobre 2015 (espressamente richiamato dalla legge speciale della selezione), il MIBACT non avrebbe potuto esimersi dal provvedere in autotutela, stante anche il chiaro disposto dell’art. 75 d.P.R. 445/2000.
La suddetta previsione normativa costituisce, come si è sopra già anticipato, il punto di emersione del principio di autoresponsabilità, che è il cardine fondamentale dell’intera disciplina in materia di dichiarazioni sostitutive. In forza di tale principio, al privato è precluso di trarre qualsivoglia vantaggio da dichiarazioni obiettivamente non rispondenti al vero, per cui l’amministrazione è vincolata ad assumere le conseguenti determinazioni, senza alcun margine di discrezionalità e a prescindere dal profilo soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante.
Conseguentemente alla vicenda qui oggetto di scrutinio trovano contemporanea applicazione l’art. 21-nonies, comma 1, l. 214/1990 e l’art. 75, comma 1, d.P.R. n. 445/2000.
Il rapporto osmotico tra le due disposizioni è tale che la seconda incide sulla prima anestetizzando l’applicazione del termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela. Le due norme, dunque, non sono antitetiche tra di loro, ma trovano il punto d’incontro nel principio per il quale l’affidamento va garantito solo se è legittimo e se quindi il provvedimento favorevole non è stato acquisito coartando o inquinando o (ancora) deviando la volontà dell’amministrazione attraverso non veritiere rappresentazione della realtà, sia con la produzione di documentazione fuorviante che con la predisposizione di dichiarazioni dal contenuto omissivo ovvero non rispondente a quanto era richiesto di dichiarare.
In siffatta ricostruzione della compatibilità applicativa delle due disposizioni qui in esame, trova plastica collocazione anche la norma di cui all’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990, statuendo essa stessa, nell’ultimo periodo, che ai fini del superamento del termine dei diciotto mesi previsto dal comma 1 è “fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
L’art. 75 d.P.R. 445/2000 è collocato per l’appunto nel capo VI del decreto, concretizzandosi quindi la “decadenza dai benefici” in una sanzione amministrativa aggiuntiva rispetto a quelle penali previste dallo stesso decreto e dal codice penale.
Tutto ciò con la conseguenza che, dunque, la necessità di attendere la sentenza penale di condanna per poter “sforare” il termine di diciotto mesi per l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela, è condizione limitata alla sola ipotesi in cui la dichiarazione non veritiera o infedele sia stata già oggetto dell’avvio di un procedimento penale nei confronti del dichiarante, di talché, perdurante il processo penale, è impedito all’amministrazione di rimuovere il provvedimento amministrativo che, insieme con la dichiarazione non veritiera, va considerato quale “corpo di reato”.
Laddove tale esigenza non vi sia, perché non è pendente alcun procedimento penale, l’amministrazione ha il dovere di rimuovere il provvedimento amministrativo adottato illegittimamente per cause assolutamente rilevanti ed esclusivamente riconducibili all’apporto procedimentale infedele della parte interessata, ciò anche nel rispetto del principio di leale collaborazione il cui onere, positivizzato ora nell’art. 1, comma 2-bis, l. 241/1990, incombe anche a carico del “privato”, in un’ottica di bilanciamento degli interessi (pubblici e privati) in gioco.
Né rileva, in senso inverso, per come ha chiarito di recente la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 16 marzo 2020 n. 1872), il richiamo alla sentenza 24 luglio 2019 n. 199 con la quale la Corte costituzionale si è limitata a dichiarare inammissibile la questione di legittimità sollevata in relazione all’art. 75 d.P.R. 445/2000 (sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.) non offrendo alcun elemento utile ai fini delle questioni oggetto del presente giudizio, né ancor meno appaiono nella presente sede rilevanti i dubbi di legittimità costituzionale nuovamente mossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, con ordinanza 30 gennaio 2020 n. 92 al richiamato art. 75, vertendo tali questioni (come quelle già dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionale) sull’automaticità della sanzione decadenziale, posto che nella vicenda qui in esame la decadenza è conseguenza di un atto di annullamento in autotutela adottato all’esito di un procedimento al quale ha partecipato attivamente la stessa parte interessata.
Ad avviso del Collegio quindi tutti gli elementi caratterizzanti l’applicazione dell’istituto dell’annullamento in autotutela sono dimostrati come esistenti nella vicenda in esame, ivi compreso l’interesse pubblico all’annullamento della concessione di un bene culturale demaniale che avrebbe favorito un soggetto che non ha dimostrato il reale possesso di tutti i requisiti richiesti dall’avviso della selezione e, prima ancora, dal decreto ministeriale 6 ottobre 2015.
Deriva da ciò anche la correttezza del provvedimento con il quale è stata espressa la decadenza dal beneficio ed è stato richiesto il rilascio del bene immobile concesso all’associazione DH..
16. – In ragione delle suesposte osservazioni la fondatezza dei motivi di appello, per come si è sopra chiarito, conduce all’accoglimento del gravame proposto dal MIBACT e alla riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, con la conseguente reiezione del ricorso introduttivo (R.g. n. 697/2019) e di quello recante motivi aggiunti proposti in primo grado dall’associazione DH.. L’appello incidentale, con il quale sono stati riproposti i motivi dedotti in primo grado dalla predetta associazione va, per le stesse ragioni sopra rappresentate, respinto, mentre può accogliersi l’appello incidentale proposto dalle associazioni interventrici.
Le spese del doppio grado di giudizio, stante la peculiarità e la complessità delle questioni di fatto e giuridiche fatte oggetto di controversia possono compensarsi tra tutte le parti costituite, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., per come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello (n. R.g. 6503/2020), come in epigrafe indicato, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, respinge il ricorso introduttivo (R.g. n. 697/2019) e il ricorso recante motivi aggiunti proposti in primo grado.
Respinge l’appello incidentale proposto dall’associazione DH. – Di. Hu. In..
Accoglie l’appello incidentale delle associazioni: Comunità So. La., Associazione Go., Al. or. del ca. di Sa. Be., Am. del ca. di Sa. Be., Cl. Al. It., Sezione di (omissis), De Re. Na., Gr. di az. lo. ve. la. del Pa. Na. D’A., Circolo Le. il Ci. di Fr., Fondazione l’A., Re. Ci. e Sy..
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 18 febbraio 2021 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Bernhard Lageder – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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