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Il danno all’immagine della pubblica amministrazione

Il danno all’immagine della pubblica amministrazione: un excursus tra problemi interpretativi e certezze giuridiche.

1.Esegesi giuridica e questioni ermeneutiche in tema di danno all’immagine della P.A.: i punti fermi all’esito del dibattito.

Sin dagli anni ’70 del secolo scorso, la giurisprudenza della Corte dei conti si è orientata nel senso di predisporre una maggiore tutela all’integrità del patrimonio pubblico, nell’intento precipuo di perseguire più efficacemente gli illeciti amministrativi, le cui conseguenze patrimoniali sfavorevoli ricadevano direttamente sull’amministrazione[1]. In particolare, è all’inizio degli anni ’90, con il verificarsi degli scandali di tangentopoli, i cui effetti negativi incisero direttamente sul prestigio e sull’immagine degli enti pubblici, che si è posto più incisivamente il problema della risarcibilità del danno all’immagine della P.A.[2]. Ci si è resi conto che alcuni comportamenti dei dipendenti pubblici possono produrre una perdita di prestigio dell’amministrazione, con discredito sul senso di imparzialità e sul corretto operare degli uffici nonché generare il timore di favoritismi e di pratiche persecutorie. In tal modo il rapporto di fiducia instaurato tra cittadini ed apparato amministrativo viene incrinato dal comportamento illecito del funzionario pubblico e gli obiettivi dell’azione amministrativa risultano pregiudicati[3]. È con questa presa di coscienza che inizia anche a diffondersi  un inconsueto orientamento giurisprudenziale[4] volto ad ammettere la configurabilità di un danno non patrimoniale nei confronti della persona giuridica cui è riconosciuta la possibilità di subire un pregiudizio dall’aggressione dei diritti non patrimoniali e, di conseguenza, agire in questi termini per il ristoro del relativo danno[5].

In effetti, anche se molte fattispecie produttrici di danni non patrimoniali risultano prima facie riferibili alle sole persone fisiche e non anche alle persone giuridiche non può, tuttavia, escludersi a priori che le persone giuridiche possano essere titolari di diritti non patrimoniali, quali identità personale, onore e reputazione potendo, invece, anch’essi subire un pregiudizio non patrimoniale dalla relativa compromissione[6]. Il nostro ordinamento, infatti, non disconosce il diritto all’immagine delle persone giuridiche e, nell’attribuire un significato al diritto in questione, ne predilige una lettura ampia, tale da ricomprendere anche la tutela della propria identità personale, del proprio nome nonché della propria reputazione e credibilità[7]. In particolare la possibilità, poc’anzi prospettata, che anche le persone giuridiche possano godere di quelle forme di protezione, già note alle persone fisiche, discende essenzialmente dal dettato costituzionale della norma di cui all’art. 2, posta a presidio delle formazioni sociali. A livello costituzionale, più propriamente, l’immagine della P.A. è tutelata dal combinato disposto degli artt. 2 e 97 commi 1 e 2 concernenti, rispettivamente, le formazioni sociali e l’organizzazione della pubblica amministrazione. È proprio il legame sotteso alle due disposizioni citate a garantire il diritto al risarcimento del danno della P.A., nell’ipotesi in cui vengano assunti comportamenti con dolo o colpa grave tali da alterare l’immagine dell’amministrazione agli occhi della collettività che con essa si relaziona. In particolare, il comma 1 dell’art. 97 si pone come guida dell’agire amministrativo, orientandolo verso il rispetto dei criteri di imparzialità e buon andamento, cui normalmente si associano i parametri di economicità e trasparenza. Il preteso rispetto di simili criteri certamente implica il riconoscimento di interessi collettivi di spiccato rilievo sociale, cui si correlano quelli volti alla corretta gestione delle risorse pubbliche. Inoltre, il comma successivo, relativo alla determinazione delle sfere di competenza, attribuzione e responsabilità dei funzionari, garantisce a livello costituzionale che vengano rispettate le competenze individuali e che siano esercitate correttamente le funzioni assegnate. Sempre a livello costituzionale, l’art. 54 impone il rispetto di peculiari obblighi di disciplina ed onore ai soggetti che esercitano pubbliche funzioni. Dal panorama costituzionale così delineato si evince che l’immagine della pubblica amministrazione si connota per il rispetto dei parametri di legalità e buon andamento dell’attività svolta, per cui l’esplicazione di una condotta che comporti la violazione reiterata dei doveri di servizio produce un discredito per l’amministrazione che ne altera l’identità e ne diffonde un’immagine negativa. Il dettato costituzionale, dunque, garantisce il diritto, della pubblica amministrazione, di operare in modo efficace, efficiente ed imparziale nei confronti degli amministrati rendendo, la violazione di questo diritto all’immagine, inteso come diritto al riconoscimento e al rispetto della propria identità in quanto ente personificato, economicamente valutabile[8]. Va soggiunto al riguardo che, in realtà, titolare di siffatto interesse non è propriamente l’ente collettivo, bensì lo Stato-comunità globalmente inteso, ossia gli amministrati, risultando a favore di esso, e non dello Stato-persona la riserva di legge e gli specifici doveri cui è tenuta l’amministrazione, che trovano fondamento nell’art. 97 Cost. Seguendo questa linea interpretativa, le voci di danno risarcibile possono allora estendersi sino a ricomprendere anche il nocumento che, sebbene non immediatamente e direttamente ricollegabile alla P.A. come ente pubblico, rechi in concreto pregiudizio a rilevanti interessi collettivi giuridicamente tutelati. È in tale prospettiva che la giurisprudenza ha rivalutato il danno erariale come danno alla collettività, ampliando le voci del pregiudizio risarcibile, includendovi i danni all’ambiente, alla salute, al paesaggio ed attribuendo una posizione di diritto soggettivo ai portatori di interessi collettivi[9].

Autorevole dottrina[10] ha poi osservato che, tuttavia, è possibile distinguere il danno all’immagine di diritto comune dal danno all’immagine della P.A. Il discrimen va colto osservando qual è il fine cui la lesione è diretta. In particolare, se si tratta di lesione che si pone in una posizione di estraneità rispetto al soggetto, ex art. 10 c.c., ad essere lesa sarà l’immagine comune; viceversa, nel caso di lesione interna all’ente verrà incisa direttamente l’immagine pubblica. Nel caso di attacco esterno, dunque, viene lesa l’immagine intesa come valore identificativo dell’ente o di una sua qualità estrinseca senza, tuttavia, intaccare l’esistenza dell’ente stesso; invece, nel caso di attacco interno la lesione va a minare quel bene-valore connaturato all’esercizio in concreto dei poteri e delle funzioni che l’ordinamento attribuisce all’ ente. Tuttavia, in distonia con questa lieve distinzione che opera al più sul piano teorico, va tuttavia evidenziato il comune denominatore che assimila il danno all’immagine in ambito amministrativo e in materia di diritto comune, ovvero il costituire, in entrambi i casi, il presupposto della responsabilità. In effetti, il danno all’immagine della P.A., come ogni altra tipologia di danno, cui l’ordinamento giuridico ricollega una sanzione in termini risarcitori, è ex se indice di responsabilità. Si tratta della classica responsabilità da respondeo che, etimologicamente, esprime la risposta che l’ordinamento giuridico appresta ogniqualvolta si instauri una relazione tra soggetti che determina l’invasione della sfera giuridica dell’uno da parte dell’altro. È lo schema tipico di responsabilità che, pertanto, si riscontra anche nel rapporto che lega amministratori e dipendenti al loro ente di appartenenza e che si innesta sui danni che i primi producono nella sfera giuridica dei secondi. Si tratta, dunque, nel caso che qui interessa, della responsabilità dell’impiegato verso l’amministrazione, di cui è espressione l’art. 18 dello Statuto degli impiegati civili dello stato, ex DPR n. 3 del 1957, prevista anche dagli artt. 82 e 83 della Legge di contabilità generale dello Stato( r. d. n. 2440 del 1923) nonché dagli artt. 13, 52 e 53 del TU delle leggi della Corte dei conti, r. d. n. 1214 del 1934[11]. Peraltro, di recente il legislatore, con legge n. 102 del 2009[12], si è interessato degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa. A riprova della completa assimilazione della responsabilità amministrativa rispetto a quella civile si pone l’uniformità degli elementi strutturali da entrambe contemplati, che si differenziano soltanto per la particolare qualificazione del soggetto autore del danno e per la circostanza che questo si realizza, o almeno trova la sua occasione necessaria, nell’esercizio di pubbliche funzioni. In particolare, secondo autorevole dottrina e costante giurisprudenza gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa vanno colti: nell’esistenza di un rapporto di impiego o di servizio che si instaura tra un soggetto e l’ente pubblico di appartenenza, nel danno cagionato dall’amministratore o dal dipendente direttamente nei confronti dell’amministrazione, nell’esigenza che tale comportamento sia imputabile a titolo di dolo o colpa grave e, non da ultimo, che esso sia causa efficiente del pregiudizio economico arrecato. Il danno così descritto corrisponde, più genericamente, al danno all’erario globalmente inteso[13]. Tuttavia, di recente la giurisprudenza ha enucleato da codesto pregiudizio patrimoniale tre distinte voci che, più dettagliatamente, specificano la natura di tale danno. In particolare, la triplice articolazione del danno erariale corrisponde al danno patrimoniale in senso stretto, al danno da disservizio[14] nonché al danno all’immagine della P.A. In questi termini, dunque, il danno all’immagine della PA viene a costituire una species del più ampio genus danno erariale.

Le recente elaborazione giurisprudenziale[15], attestata sul riconoscimento del danno all’immagine della P.A., ne ha ampliato la portata individuando una nuova tipologia di danno all’immagine, ossia il danno curriculare che viene configurato come il danno che deriva all’impresa dalla perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale. A tal proposito è stato, infatti, osservato che, in sede di determinazione del danno derivante dalla illegittima aggiudicazione di una gara di appalto, va riconosciuto al soggetto privato, oltre al risarcimento degli interessi legittimi, anche il danno curriculare, ossia il pregiudizio subito dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale, non potendo indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto non più aggiudicato a causa del comportamento illegittimo dell’amministrazione. Al riguardo si parla di “danno da immagine depotenziata” in quanto l’interesse all’aggiudicazione di un appalto va ben oltre l’interesse all’esecuzione dell’opera in sé e al relativo guadagno. In effetti, alla mancata esecuzione di un’opera appaltata si ricollegano pregiudizi indiretti all’immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, soprattutto se si considera i pregiudizi che genera il potenziamento di imprese concorrenti che operano sullo stesso mercato pur essendo state dichiarate aggiudicatarie della gara in modo illegittimo.

Una volta acclarata l’esistenza di un danno all’immagine della P.A., in dottrina e in giurisprudenza si è intensificato un dibattito in merito all’individuazione della natura giuridica del pregiudizio subito dall’ amministrazione e, più precisamente, se il danno in questione rientri nell’alveo del danno patrimoniale o non patrimoniale. Al fine di cogliere il punto di approdo di un simile dibattito è opportuno ripercorrere le tappe del travagliato iter, soprattutto giurisprudenziale, che ha accompagnato il tema in oggetto e che si intreccia con l’altra grande questione posta in materia relativa alla giurisdizione applicabile nel caso di specie. In via preliminare, la ricostruzione del dibattito impone di prendere in considerazione temi tradizionali della dottrina privatistica concernenti, in particolare, il danno morale, il binomio danno-evento/danno-conseguenza, nonché il danno esistenziale.

Inizialmente il danno all’immagine della P.A. è stato qualificato come danno non patrimoniale sub specie di danno morale ex art. 2059 c.c. che, letto necessariamente in combinato disposto con l’art. 185 c.p., consentiva la risarcibilità della lesione di interessi di carattere non strettamente patrimoniale nelle sole ipotesi integranti illecito penale. In punto di giurisdizione, una simile lettura comportava l’attrazione del danno all’immagine della P.A., non già in capo alla Corte dei conti, bensì al giudice ordinario essendo, il giudice contabile, invece, deputato alla cognizione delle controversie in materia di danno erariale, da intendersi come nocumento patrimoniale effettivo subito dalla P.A.[16]. Una simile ricostruzione, però, ha generato non poche obiezioni mosse essenzialmente dal rilievo per cui le persone giuridiche non possono essere ontologicamente in grado di patire sofferenze morali[17]. Così argomentando le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno preferito ricondurre il danno in questione “alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta è, tuttavia, suscettibile di una valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso”[18]. Da ciò discende la qualificazione del danno all’immagine della P.A. come species del più ampio genus danno erariale, in quanto suscettibile di valutazione economica poiché comprensivo di una serie di costi sostenuti, tra l’altro, per le attività necessarie al recupero di credibilità dell’ente, per la riorganizzazione dei servizi o anche per la sostituzione del vertice politico o amministrativo all’ente stesso. Sulla scia dei predetti orientamenti maturati a livello giurisprudenziale, la più attenta dottrina ha osservato che, in tal caso, il fatto lecito è produttivo di due differenti voci di danno nei confronti della pubblica amministrazione, cui scaturisce pertanto un duplice risarcimento e, in particolare, un danno morale ex art. 2059 c.c. e un danno patrimoniale che deriva dai costi da affrontare per ripristinare il prestigio violato. In tal caso, il primo nocumento è prettamente non patrimoniale ed integra gli estremi del pretium doloris mentre, il secondo, è suscettibile di valutazione economica e rientra nell’alveo del danno erariale[19]. È già a partire da una simile apertura operata a livello dottrinale che le Sezioni unite hanno fatto discendere la devoluzione della cognizione in materia di danno all’immagine della P.A. alla Corte dei conti. In un momento successivo, nell’intento di superare le restrizioni insite nella riserva di legge di cui all’art. 2059 c.c. e nel solco della concezione del danno-evento elaborata dalla Consulta a partire dal 1986[20], la giurisprudenza si è adoperata nel riconoscere una rinnovata tutela al danno all’immagine della P.A. alla luce del combinato disposto degli artt. 2 Cost. e 2043 c.c. Questo essenzialmente perché si tratta di un danno ingiusto arrecato ad uno dei diritti fondamentali della persona giuridica pubblica ovvero ad una delle più risalenti formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’uomo, qualificabile in termini di danno-evento e risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un illecito penale[21]. In particolare, le Sezioni riunite della Corte dei conti[22], chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale in parola, qualificano il danno all’immagine della P.A. come danno esistenziale sub specie di danno-evento derivante dalla lesione di un diritto fondamentale della persona o, anche, come tertium genus di danno in quanto diverso sia dal danno patrimoniale che  morale. Per questo danno-evento, che trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 2 e 97 Cost. è irrilevante, ai fini dell’an della risarcibilità, che il fatto integri o meno un illecito penale essendo, lo stesso, per ciò solo risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. Lungo questa traiettoria ermeneutica, le Sezioni Unite della Cassazione[23] condividono l’idea manifestata dal più alto grado di giurisdizione contabile nel 2003[24] che qualifica il danno de quo come danno patrimoniale in senso ampio e, dunque, economicamente valutabile risolvendosi, la lesione all’immagine della P.A., in un onere finanziario i cui effetti si ripercuotono sull’intera collettività, dando luogo a costi aggiuntivi necessari per correggere gli effetti distorsivi che si riflettono negativamente sull’organizzazione della P.A. in termini di discredito nonché di riduzione della potenzialità operativa. La configurazione di danno patrimoniale in senso lato determina, in punto di giurisdizione, l’attrazione del danno all’immagine della P.A. alla giurisdizione del giudice contabile, al pari di quanto avviene per qualsivoglia danno erariale cagionato alla P.A. da un soggetto ad essa legato da un rapporto di servizio[25]. Tale tutela giurisdizionale è azionabile indipendentemente ovvero in pendenza di un procedimento penale. Da un simile principio, la giurisprudenza della Corte dei conti[26] trae il corollario della netta separazione tra il giudizio amministrativo-contabile e quello patrimoniale, con l’unico limite dell’improcedibilità dell’azione amministrativa in presenza di un giudicato penale sui medesimi fatti oggetto di entrambi i giudizi.

Asserita la risarcibilità del danno all’immagine della P.A. è opportuno soffermarsi sulla determinazione in concreto dell’ammontare dell’importo da porre a carico del responsabile che, in specie, presenta profili estremamente problematici. Si tratta, dunque, di risolvere la questione della quantificazione del danno e dell’individuazione dei parametri utili a tale scopo. In particolare, le Sezioni riunite della Corte dei conti[27] intervenute sul punto, in ordine ai criteri di quantificazione del danno all’immagine della P.A., si sono soffermate, in via preliminare e soprattutto, sulle questioni probatorie attinenti alla distribuzione dell’onere della prova tra la Procura della Corte dei conti, in quanto parte attrice, e la parte convenuta, individuando due criteri risolutivi al riguardo. Il primo attiene al ricorso alle presunzioni come mezzo idoneo di prova a sostegno della domanda, che è ammesso fino a quando le conseguenze negative fatte valere rimangano, per la loro tipicità, entro i limiti dell’id quod plerumque accidit e a cui corrispondono forti oneri di controprova per il convenuto che voglia dimostrare che il pregiudizio non si è verificato. Il secondo, invece, riguarda il caso in cui, verificandosi conseguenze negative ulteriori e specifiche, si necessita di una prova adeguata, venendo meno ogni automatismo presuntivo a favore dell’offeso.

Peraltro, sul tema specifico dell’individuazione dell’entità del danno arrecato, cui si correla evidentemente la condanna del responsabile, sono emersi due diversi indirizzi ermeneutici. Il primo[28], più legato ad una concezione riparatoria del giudizio contabile, ha ritenuto che per poter pronunziare la condanna per danno all’immagine sia necessario accertare la diminuzione patrimoniale in capo alla pubblica amministrazione, sia come manifestazione concreta di una perdita di considerazione da parte dei cittadini nei confronti della medesima, sia anche solo come necessità di sborsare somme di denaro per restaurare l’immagine danneggiata. In questi casi, però, si incorre nella probatio diabolica di individuare concretamente il danno subito dall’amministrazione in quanto, molto spesso, non è agevole comprendere se i cittadini abbiano o meno ridotto la loro concezione favorevole della pubblica amministrazione a fronte di comportamenti devianti[29]. Peraltro, di solito la pubblica amministrazione non intraprende alcuna iniziativa per restaurare la propria immagine e ciò rende impossibile la valutazione anche del secondo elemento. Nell’intento di superare le “forche caudine” di una simile ricostruzione insuscettibile di concreta applicazione si è intrapresa la strada di configurare il danno all’immagine come esistente in re ipsa per il solo fatto che un comportamento delittuoso sia stato posto in essere da un amministratore o dipendente pubblico. Tale ultima ricostruzione, di certo prevalente[30], pertanto, opta per una qualificazione del danno all’immagine non già in termini di danno-conseguenza, inteso come conseguenza patrimoniale pregiudizievole derivante da un comportamento delittuoso, bensì come danno-evento, nel senso di danno che si verifica di per sé e che non abbisogna di prova essendosi, l’evento, sub specie di lesione all’immagine, realizzato già nel momento stesso in cui il comportamento delittuoso viene posto in essere. Tale approccio non attribuisce dunque rilevanza agli eventuali costi di ripristino dell’immagine sopportati dalla P.A. In linea con questo orientamento, si esonera la Procura della Corte dei conti dall’onere della prova e si opera una valutazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c., la quale dovrà comunque basarsi, in ossequio al principio dispositivo, sulle prove prodotte dall’attore, comprese quelle presuntive ed indiziarie[31]. Altrimenti opinando, si esporrebbe la Procura della Corte dei conti ad una probatio diabolica che renderebbe impossibile l’esatta individuazione del danno effettivamente patito dall’amministrazione. Peraltro, al fine di conferire maggiore attualità al discorso, è opportuno segnalare la questione sollevata dalla sezione giurisdizionale della regione Puglia[32], la quale riteneva che la qualificazione del danno all’immagine come danno-evento non fosse più in linea con l’evoluzione seguita dalla Cassazione[33] che ricostruiva tale danno in termini di danno-conseguenza, sostenendo la necessità di ancorare la risarcibilità del pregiudizio alle spese necessarie per il ripristino dell’immagine. Tuttavia, le Sezioni Riunite della Corte dei conti[34] hanno dichiarato non ammissibile la questione sollevata dalla sezione giurisdizionale della Puglia e hanno ritenuto, pertanto, non sussistente il contrasto giurisprudenziale in quanto, anche qualificando il danno all’immagine come danno-conseguenza, le spese sostenute per il ripristino della stessa costituirebbero solo uno dei criteri di quantificazione, non esaurendo l’identità economico-patrimoniale[35].

Va, infine, segnalato un recente intervento della Corte costituzionale[36] che, seppure in via di obiter dictum, ha ribadito che il danno all’immagine dell’ente pubblico[37] ha valore non patrimoniale e la sua disciplina va individuata ai sensi dell’art. 2059 c.c. Ciò posto, nell’ottica della Consulta, il riferimento della giurisprudenza della Corte dei conti alla patrimonialità del danno, in ragione della spesa necessaria a ripristinare l’immagine dell’ente pubblico, atterrebbe  non già  alla questione dell’individuazione della natura giuridica del pregiudizio, quanto piuttosto alla quantificazione in termini monetari dello stesso[38].

A chiusura di una simile disamina si ritiene opportuno tracciare i confini e tirare sinteticamente le somme di un discorso, talvolta troppo articolato, da cui rintracciare una serie di punti fermi nell’intento di selezionare e ordinare una serie di informazioni che assumono nel tempo una pregnanza sempre maggiore. In effetti, le questioni giuridiche sorte in tema di danno all’immagine della P.A. hanno consentito di enucleare una serie di dati che attestandosi sempre più in termini di certezza giuridica diventano diritto vivente. Anzitutto, certo è che il danno all’immagine sia autonomamente risarcibile rispetto ad eventuali ulteriori danni patrimoniali[39], costituendo una lesione di carattere non patrimoniale[40]. Rientra, infatti, nell’alveo del danno non patrimoniale ingiusto per violazione di un diritto fondamentale della persona giuridica pubblica e viene configurato come danno patrimoniale in senso ampio sulla base del combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 2 Cost. Va qualificato, più specificamente, come danno esistenziale, ai sensi dell’art. 2043 c.c. e non già come danno morale, ex art. 2059 c.c. e viene considerato come danno-evento, inteso come lesione di situazioni soggettive che determina la perdita di beni protetti, anche non patrimoniali, che assumono rilevanza costituzionale. Si prescinde, pertanto, da ulteriori effetti patrimoniali dell’illecito, che integrerebbero al più il c.d. danno-conseguenza costituendo i presupposti del danno patrimoniale riflesso e, non già del danno all’immagine che qui rileva. La lesione del diritto all’immagine, comporta una perdita analoga a quella indicata nella norma di cui all’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale non patrimoniale, alla quale il risarcimento va equitativamente commisurato[41]. Peraltro, in virtù della sua autonomia deve essere oggetto di una puntuale, specifica e circostanziata contestazione, già in sede di invito a dedurre[42]. Per quanto concerne il profilo probatorio, la prova deve ritenersi raggiunta quando è stato dimostrato il verificarsi del fatto dannoso in sé lesivo dell’immagine indipendentemente dalla necessità di provare le eventuali diminuzioni patrimoniali subite dall’ente[43]. Trattandosi di danno presunto la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell’esistenza del danno almeno nel caso, statisticamente più ricorrente, della percezione di tangenti. A tal proposito assume rilevanza anche l’aspetto del clamor fori, ossia la risonanza assunta dall’evento[44]. Infine, non essendo richiesta, per il danno in questione, la prova delle spese necessarie al recupero de bene giuridico leso, l’entità della stessa può essere determinata in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., in base a parametri di tipo oggettivo, soggettivo e sociale.

 

2.Il lodo Bernardo (art. 17, co. 30 ter della legge n. 102 del 2009) al vaglio della Consulta (Corte costituzionale, 15 dicembre 2010, n. 355).

In tempi recenti, si è verificato un fenomeno di proliferazione di pronunce di condanna al risarcimento del danno all’immagine della P.A. che ha indotto il legislatore a porre un freno emanando una disposizione di carattere limitativo. Questa norma, art. 17 comma 30 ter della legge n. 102 del 2009[45], attraverso il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001[46], restringe la tutela risarcitoria, in favore del soggetto pubblico, limitandolo ai delitti contro la pubblica amministrazione, previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale.

Ciò posto, numerose Sezioni regionali della Corte dei conti hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dei periodi secondo e terzo  della norma in commento, anzitutto, nella parte in cui limita il risarcimento del danno all’immagine ai soli casi in cui sia stato commesso uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., rilevandone la contrarietà agli artt. 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, 111 e 113 della Costituzione. Peraltro, al vaglio della Corte è stata posta altresì la questione concernente l’introduzione, ad opera della norma di cui si contesta la legittimità, di due diverse forme di tutela attivabili dinanzi a sedi giurisdizionali diverse, cioè alla Corte dei conti per le fattispecie costituenti reato ed all’autorità giudiziaria ordinaria negli altri casi. Le relative istanze sono state trattate unitariamente dalla Consulta che, nella sentenza n. 355 del 2010, ha confermato la piena legittimità della norma in questione.

In via preliminare, la Corte costituzionale ha chiarito l’esatta portata della disposizione censurata, osservando che con la stessa il legislatore ha voluto circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile chiedere il risarcimento del danno da lesione dell’immagine della P.A. e non prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione. In effetti, il dettato della norma in oggetto non consente di affermare che, in presenza di fattispecie diverse dai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, la domanda di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione possa essere proposta innanzi ad un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti. Ciò posto, non è possibile interpretare la normativa in commento nel senso che il legislatore abbia inteso prevedere una responsabilità nei confronti dell’amministrazione, diversificata in relazione all’autorità competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria. Pertanto, al di fuori delle ipotesi espressamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile questo tipo di tutela risarcitoria[47].

Per quanto concerne le specifiche violazioni delle norme costituzionali, anzitutto, la Consulta ha dichiarato infondata la questione sulla violazione dell’art. 77 della Costituzione, per mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza, da parte della censurata disposizione introdotta dalle Camere soltanto in sede di conversione del decreto- legge. In effetti, mentre in passato la Corte costituzionale, con sentenza n. 391 del 1995, aveva ritenuto che la valutazione dei presupposti di necessità ed urgenza riguardasse solo la fase di decretazione d’urgenza esercitata dal Governo, e non anche le norme introdotte dal Parlamento in sede di conversione del decreto-legge come la norma in questione, di recente la Consulta[48] ha invece sostenuto che le disposizioni della legge di conversione non possono essere valutate indipendentemente da quelle del decreto stesso. La Corte costituzionale nel 2010 aderisce a questo secondo orientamento riscontrando, altresì, che in realtà la proroga dei termini non ha alcun nesso con la materia in esame ed ha precisato che la valutazione in termini di necessità ed urgenza è richiesta solo per le norme, inserite dalla legge di conversione del decreto-legge, che non appaiano del tutto eterogenee rispetto al contenuto della decretazione d’urgenza, e non anche quando le stesse siano estranee al contenuto. In particolare, ad avviso della Consulta l’art. 17 comma 30 ter sarebbe norma non del tutto eterogenea rispetto al contenuto del decreto-legge n. 78 del 2009, così rilevando che con riguardo ad essa sussistevano, al momento della sua emanazione, i presupposti di necessità ed urgenza richiesti. Ebbene, in linea con quanto esposto, la Consulta ritiene inammissibile la violazione della norma costituzionale evocata.

Inoltre, riguardo la compatibilità della norma in questione con gli artt. 3 e 97 Cost., la Consulta non riscontra la prospettata irragionevolezza dell’art. 17 comma 30 ter nella misura in cui limita il risarcimento del danno ai casi in cui sia stato commesso un delitto contro la P.A. e non anche in presenza di condotte non delittuose comunque gravi ovvero di reati diversi da quelli espressamente previsti. In particolare, ad avviso della Corte costituzionale la questione va ritenuta infondata in quanto la circostanza che il legislatore abbia inteso individuare esclusivamente quei reati che contemplano la P.A. quale soggetto passivo rientrerebbe in una scelta discrezionale del legislatore che, pertanto, risulterebbe non manifestamente irragionevole. In effetti, la delimitazione del campo di applicazione dell’azione risarcitoria in parola sarebbe giustificata sia dalla particolare funzione sanzionatoria propria della responsabilità amministrativa che dalla specifica natura del soggetto passivo e del bene giuridico protetto dalle norme penali richiamate dalla disposizione impugnata.

È stata vagliata altresì la legittimità costituzionale della norma di cui si discute rispetto all’art. 2 Cost., anche letto in combinato disposto con l’art. 24 Cost., la cui previsione, alla luce dell’art. 2059 c.c., impone una piena tutela dei diritti della personalità tra i quali rientra l’immagine della P.A. La Consulta dichiara l’infondatezza di una simile censura considerando che la responsabilità amministrativa ha una struttura ed una funzione differenti rispetto a quella civile. In effetti, la peculiarità del diritto all’immagine della P.A. insieme all’esigenza di imperniare il sistema di responsabilità amministrativa su diverse finalità, giustificherebbe una singolare e, dunque, diversa modulazione delle rispettive forme di tutela[49]. Nel suo argomentare, la Consulta, dopo aver richiamato l’art. 97 Cost[50]., ritiene ammissibile il riconoscimento dell’esistenza di altri e peculiari diritti degli enti pubblici che, tuttavia, deve tener conto della particolarità del soggetto tutelato e del differente oggetto di tutela che consiste nell’esigenza di garantire la credibilità e il prestigio della pubblica amministrazione. Ciò posto, appare non irragionevole la diversificazione delle forme di tutela operata dal legislatore anche mediante la predisposizione di forme di protezione dell’immagine della P.A., da condotte tenute dai dipendenti che, di certo, risultano essere meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alle persone fisiche.

Sotto altro profilo, la Consulta contesta la violazione degli artt. 24 e 113 Cost. in quanto non esisterebbe alcun vulnus di tutela processuale se si considera il dato pacifico in base al quale l’art. 24 Cost. fornisce tutela processuale alle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui esse risultano conoscibili dal legislatore, inclusa la fattispecie di danno all’immagine per la configurazione che se n’è data.

Riguardo, poi, la prospettata violazione del comma 4 art. 81 Cost.[51], la Corte costituzionale ne deduce l’infondatezza argomentando dalla circostanza che la norma costituzionale in questione riguarderebbe i limiti al cui rispetto è vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria e non attiene alle scelte che questi compie in punto di disciplina nel diverso settore della responsabilità amministrativa.

La Consulta respinge anche la violazione dell’art. 97 Cost. in quanto, nell’esercizio non manifestamente illecito della sua discrezionalità, il legislatore ha ritenuto che l’immagine della P.A. sia adeguatamente tutelata mediante la delimitazione del risarcimento del danno alle condotte integranti fatti di reato volti alla tutela del buon andamento e dell’imparzialità dell’agere amministrativo.

Si contesta altresì la prospettata violazione dell’art. 103 comma 2 Cost[52]. in quanto pacifico è, per la giurisprudenza costituzionale, che rientri nella competenza del legislatore, in via discrezionale, la specifica attribuzione della giurisdizione relativamente alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa, non operando automatismi a livello costituzionale.

Viene contestata, infine, l’asserita violazione dell’art. 25 Cost., adducendo come argomentazione un dato già rilevato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale[53], ossia che la Corte dei Conti non è il giudice naturale in materia di tutela degli interessi pubblici e di tutela da danni pubblici.

È in questi termini, pertanto, che la Corte costituzionale supera autorevolmente le censure mosse dalle Sezioni regionali della Corte dei conti, ribadendo l’impossibilità di perseguire il danno all’immagine della P.A. al di fuori delle ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione. In tal senso, dunque, i giudici della Corte costituzionale hanno così affermato che la limitazione legislativa a quelle ipotesi di reato che richiedono la pubblica amministrazione come soggetto passivo e che siano indirizzate a tutelarne buon andamento, prestigio ed imparzialità rendono, pertanto, non manifestamente irragionevole la scelta legislativa.

 

3.L’ultima giurisprudenza contabile in disaccordo con la Consulta: Corte dei conti, sez. giur. regione Lombardia n. 109 del 2011 e regione Toscana n. 277 del 2011.

L’interpretazione operata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 355 del 2010 non ha, tuttavia, riscontrato un concreto accoglimento a livello ermeneutico. Sebbene, in un primo momento, la magistratura contabile non ha potuto fare altro che adeguarsi al rinnovato quadro normativo[54], in effetti la giurisprudenza contabile si è mostrata palesemente dubitativa nei confronti delle argomentazioni addotte dalla Consulta[55] e, ancor più, con le conclusioni cui è pervenuta.

È opportuno segnalare una recentissima pronuncia in cui la Corte dei conti Sezione giurisdizionale della Lombardia, sentenza n. 109 del 17 febbraio 2011 non ha applicato i principi di diritto enunciati dalla Corte costituzionale del 2010, ritenendo di doversi discostare da una simile interpretazione, proponendo una lettura diversa della normativa, tuttavia parimenti conforme a Costituzione. Più in dettaglio, la Corte dei conti[56] ha ritenuto che l’interpretazione “fatta propria dalla Corte costituzionale finisce per dare luogo a non immotivate perplessità. Non appare infatti ragionevole ammettere che il pubblico erario possa rimanere privo di tutela risarcitoria in presenza di condotte penalmente illecite diverse da quelle previste nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, vuoi quando si verta in casi nei quali la P.A. è soggetto passivo di reati, commessi da pubblici ufficiali, non contemplati nel codice penale, vuoi quando la stessa situazione si verifichi per effetto del compimento, da parte di soggetti in rapporto di servizio con l’amministrazione, di reati comuni, che peraltro talvolta possono determinare lesioni dell’immagine della P.A. persino più gravi di quelle conseguenti alla consumazione dei soli delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”. In effetti, nell’ottica dei giudici contabili, la sussistenza di una sentenza irrevocabile di condanna per uno dei reati contemplati nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale “non è condizione necessaria per l’azione erariale, come si ricava dalla distinta previsione di esercizio autonomo dell’azione contabile, di cui all’art 129 delle disposizioni di attuazione del codice di rito, per un reato che abbia cagionato un danno per l’erario, norma espressamente fatta salva dall’art. 7 della legge n. 97/2001”[57].

Nella medesima sentenza i giudici hanno altresì attratto alla propria sfera di indagine la questione relativa all’efficacia delle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale. Sul punto hanno precisato che, in realtà, l’interpretazione della Consulta non è vincolante per il giudice avendo, la sentenza di cui si discute, concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza delle censure sollevate. Pertanto, è possibile discostarsi dall’interpretazione fornita dalla Consulta, operando una diversa lettura della normativa che sia, però, conforme a Costituzione. Le decisioni di rigetto della Corte costituzionale, infatti, sebbene dotate della forza autorevole del precedente non hanno, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale, efficacia erga omnes, vincolando solo il giudice a quo[58]. Orbene, alla luce di quello che sembra ormai un consolidato orientamento maturato a livello giurisprudenziale, per valutare se la giurisprudenza contabile successiva si conformerà  ai principi di diritto enunciati dalla Corte costituzionale, occorrerà operare una verifica da condurre caso per caso.

Con altra decisione, la Corte dei conti Sezione giurisdizionale della Toscana, sentenza n. 277 del 2 agosto 2011 ha disatteso quanto espresso dalla Corte costituzionale relativamente alla risarcibilità del danno all’immagine della P.A., ammettendola in presenza di qualunque tipo di reato compiuto dal pubblico dipendente; ciò, ovviamente, in palese dissonanza con quanto precedentemente stabilito dalla Corte costituzionale che aveva, invece, ritenuto risarcibile soltanto il danno all’immagine derivante da reati “propri” perché contro la pubblica amministrazione, così escludendo dunque i reati comuni.

Nell’intento di fornire un’interpretazione difforme da quella operata dalla Consulta, i giudici contabili hanno formulato una serie di motivazioni volte a contrastare le argomentazioni addotte dalla Corte costituzionale, dopo aver, tuttavia, passato in rassegna tre opzioni ermeneutiche sviluppatesi antecedentemente all’intervento della stessa. Infatti, già a tenore dei giudici contabili, prima dell’emanazione della sentenza della Consulta del 2010 non si era ancora creato un “diritto vivente” sull’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter della legge del 2009 esistendo, invece, a livello giurisprudenziale tre indirizzi ermeneutici. Secondo il primo indirizzo, la norma citata andava interpretata nel senso che la tutela del danno all’immagine della P.A. sussisteva nei soli casi direttamente previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001 ossia nel caso in cui tale danno fosse derivato da reati contro la pubblica amministrazione. In tal modo si escludeva la tutela per il danno all’immagine derivante da reati diversi da questi e, ancor più, per quello derivante da fatto illecito non costituente reato. Per altra opzione interpretativa, in base all’art. 17 comma 30 ter la tutela del danno all’immagine della P.A. sussisteva sia nel caso in cui il danno in questione fosse derivato da reati contro la pubblica amministrazione sia in quello derivante da ogni altro reato. Tale tesi escludeva la tutela solo nel caso di danno derivante da fatto illecito non costituente reato. L’ultimo indirizzo ermeneutico segue e condivide il precedente orientamento, aggiungendo che l’unico discrimen esistente tra il danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione e il danno derivante da altro reato riguardasse la giurisdizione spettando, al giudice contabile la giurisdizione nel primo caso e, al giudice ordinario, nel secondo.

I giudici contabili, analizzando le argomentazioni maturate in sede costituzionale, osservano che se esiste un disegno legislativo, di cui dà contezza la Consulta con sentenza n. 355 del 2010, “volto a ridurre i casi di responsabilità amministrativa per evitare un rallentamento nell’efficacia e nella tempestività dell’azione dei pubblici poteri, in conseguenza dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa” la Corte costituzionale “sembra ritenere funzionale, al disegno medesimo, una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato comune più che una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione”.

In effetti, è proprio questo il punto che ha destato maggiore perplessità in seno alla giurisprudenza contabile, ossia il ritenere più funzionale, alla logica sottesa all’intervento legislativo in oggetto, la riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da ogni altro reato che non sia quello “proprio” perpetrato contro la P.A. È questo, dunque, il dato più rilevante su cui si soffermano i giudici toscani, i quali sembrano argomentare il contrario asserendo la maggiore logicità di una scelta volta a ridurre la responsabilità amministrativa derivante da reato proprio contro la P.A. al fine di evitare il rallentamento dell’azione amministrativa. Questo perché, a parole dei giudici contabili, “non è la paura delle conseguenze di una violenza sessuale, ma il timore di incorrere in un abuso di ufficio che più si presta a rendere meno efficace e tempestiva l’azione dei pubblici poteri”[59].


[1] GALLO, Passato, presente e futuro del danno all’immagine della pubblica amministrazione, in Urbanistica e appalti, Milano, n. 4 del 2011, 412.

[2] GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, IV edizione, Roma-Molfetta, 2010, 1456.

[3] Corte Cass., Sez. Un., 25 giugno 1997, n. 5668.

[4] Che ha trovato definitiva consacrazione con sentenza della Corte di cassazione, sez. III, 4 giugno 2007, n. 12929, la quale ritiene “che nella logica accolta dalle sentenze  nn. 8827 e n. 8828 del 2003 in pianto di configurabilità di un danno non patrimoniale diverso dal danno morale soggettivo (e, naturalmente, da quello biologico) nei casi in cui vi sia una lesione di diritti della persona aventi fondamento nella Costituzione, si debba riconoscere tale risarcibilità anche allorquando si verifichi la lesione di un diritto della persona giuridica o del soggetto giuridico collettivo, che rappresenti l’equivalente di un diritto avente detta natura riferibile alla persona fisica e non supponente proprio per questo la fisicità del soggetto titolare.
In questa ottica, si deve affermare la risarcibilità della lesione dello stesso diritto all’esistenza nell’ordinamento come soggetto (fin quando sussistano le condizioni di legge), del diritto all’identità, del diritto al nome e del diritto all’immagine della persona giuridica ed in genere dell’ente collettivo”.

[5] Questo perché, in una prima fase, al momento del suo riconoscimento, il danno all’immagine della P.A. era inquadrato, dal punto di vista dogmatico, tra i danni di natura patrimoniale. Si veda in tal senso, Corte dei conti, sez. I, 5 novembre 2002, n. 381, ove è previsto che “ le percezioni di tangenti che hanno avuto notevole risonanza nell’ambiente locale e attraverso i mezzi di informazione ed hanno gettato discredito sulla P.A. e sulla gestione del pubblico denaro con conseguenti inevitabili costi per la perdita di prestigio e deterioramento dell’immagine producono la lesione di un bene immateriale cui consegue il c.d. danno patrimoniale indiretto per lesione dell’immagine, non essendo nel processo contabile perseguibile il danno morale non patrimoniale conseguente all’illecito”.

[6] La risarcibilità del danno non patrimoniale è sempre stata prerogativa esclusiva delle persone fisiche, fatta eccezione peri danni non patrimoniali conseguenti alla lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, riconosciuti a titolo di equa riparazione dall’art. 2 della legge n. 89/2001 (c.d. legge Pinto). Ciò fino alla storica sentenza della Suprema Corte n. 12929 del 2007, che ha ampliato la tutela riconosciuta dall’ordinamento alle persone giuridiche, operando una sostanziale equiparazione con le persone fisiche per quanto riguarda il risarcimento dei danni non patrimoniali, con l’unica eccezione costituita dalla naturale esclusione del danno biologico per l’assenza del requisito della fisicità.

[7] Al fine di fornire un esempio pratico di danno all’immagine della P.A., può citarsi il caso dei funzionari dell’amministrazione finanziaria che svolgano dietro corrispettivo in denaro un’attività estranea alle tipiche funzioni istituzionali, come ad esempio visure catastali, a beneficio di alcuni soggetti privati. Tale tipo di condotta, per il clamore suscitato, può portare a ritenere che la pubblica amministrazione sia passibile di una qualsivoglia strumentalizzazione.

[8] RUSCICA, Il danno all’immagine della P.A., in www.justowin.it, 2010, 2.

[9] LAFACE, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione va risarcito anche in ipotesi di reato comune commesso da pubblici dipendenti; Nota a Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Toscana, sentenza 18 marzo 2011, n. 90, in www.filodiritto.it, 2011, 1-2.

[10] GAROFOLI,op.cit.,1456.

[11] LONGAVITA, Il danno all’immagine della P.A. come danno esistenziale, Rimini, 2006, 35-36.

[12] Di conversione del decreto-legge n. 78 del 2009, recante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali. Legge successivamente modificata dal decreto-legge n. 103 del 2009 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 141 del 2009.

[13] Sul punto, si veda GALLI, Corso di diritto amministrativo, V edizione, Padova, 2011, 1416-1418.

[14] Danno che ha cominciato ad affacciarsi nel panorama giuridico, in modo alquanto incerto, sul finire degli anni ’80 e la cui essenza consiste nel mancato conseguimento della legalità, dell’efficienza, dell’efficacia, dell’economicità e della produttività dell’azione amministrativa, coincidendo essenzialmente con le ripercussioni, che si producono sul funzionamento di un’organizzazione complessa, derivanti da un comportamento illecito di un soggetto in essa incardinato. A tal proposito si veda anche TOMMASINI, Il danno da disservizio, in Riv. Corte Conti, 2005, n. 3, 334.

[15] Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751.

[16] Si tratta di un risalente orientamento giurisprudenziale maturato in seno alle Sezioni Riunite della Corte dei conti nel 1988.

[17]CILLA, Il danno all’immagine della P.A.,  nota a Corte Cost., 15 dicembre 2011, n. 355, in www.ildirittoamministrativo.it, 2.

[18] Corte di cassazione, Sez. Un., 21 marzo del 1997, n. 5668.

[19] CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, III edizione, Roma, 2010, 244.

[20] Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184.

[21] Corte Conti, sez. giur. Umbria, 28 maggio del 1998, n. 628.

[22] Corte Conti, Sez. Riun., 23 aprile 2003, n. 2010.

[23]Corte Cass., Sez. Un., n. 17087 del 2003.

[24] Corte Conti, Sez. Riun., 23 aprile 2003 n. 10, sentenza che ha avuto il pregio di ordinare, circoscrivere e caratterizzare un argomento così discusso come quello della responsabilità per danno all’immagine. Si veda, a tal proposito, LONGAVITA, op. cit., 62; CORTESE, La responsabilità per danno all’immagine della p.a., Padova, 2004, 177.

[25] GAROFOLI, op.cit., 1459.

[26] Corte Conti, sez II, 9 novembre 2006, n. 364.

[27] Corte Conti, Sez. Riun., 23 aprile 2003 n. 10, cit.

[28] Tesi sostenuta da CIARAMELLA, Prime considerazioni sulle modifiche al regime della responsabilità amministrativa di cui all’art. 17, comma da 30 bis  a 30 quinquies, del D.L. n. 78 del 2009, convertito nella L. n. 102 del 2009, in Riv. Corte Conti, 2009, 3, 253.

[29] GALLO, op. cit., 413.

[30] In tal senso Corte Conti, Sez. Riun., 23 aprile 2003, n. 10, in Giur. It., 2003, 1710.

[31] Va soggiunto che, assumono valore probatorio su base indiziaria, oltre alle spese di ripristino del prestigio leso, anche le somme percepite in maniera illegittima dal pubblico funzionario, come le tangenti, criterio oggettivo; la posizione da questi assunta all’interno dell’apparato pubblico, criterio soggettivo nonché il c.d. clamor fori, ovvero l’eco suscitato a livello giornalistico dalla diffusione dei fatti causativi del pregiudizio.

[32] Corte Conti, sez. giur. Puglia, ord. 27 maggio 2010, n. 83.

[33] Corte Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972.

[34] Corte Conti, Sez. Riun., 18 gennaio 2011, n. 1.

[35] Sul punto si veda PAVONI, La Corte costituzionale salva il Lodo Bernardo, in Resp. Civ. e perv. 2011, 4, 794; PALMIGIANI, La prova del danno non patrimoniale alle persone giuridiche: una questione solo apparentemente risolta, in Resp. Civ. e perv., 2008, 144.

[36] Corte costituzionale, 15 dicembre 2010, n. 355.

[37] In sintonia con quanto affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 26792 del 2008.

[38] CILLA, op. cit., 3.

[39] Corte Conti, sez III, 28 settembre 2005, n. 566.

[40] Corte Conti, sez. II, 20 marzo 2007, n. 64.

[41] LIBERATI, La responsabilità della pubblica amministrazione ed il risarcimento del danno, Padova, 2009, 99.

[42] Corte Conti, sez. III, 9 novembre 2005, n. 672.

[43] Corte Conti, sez. III, 28 settembre 2005, n. 566.

[44] Corte Conti, sez. I, 6 novembre 2006, n. 220.

[45]Prevede che “Le procure regionali della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine subito dall’amministrazione nei soli casi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (primo periodo). Per danno erariale perseguibile innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti si intende l’effettivo depauperamento finanziario o patrimoniale arrecato ad uno degli organi previsti dall’articolo 114 della Costituzione o ad altro organismo di diritto pubblico, illecitamente cagionato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile (secondo periodo). L’azione è esercitabile  dal pubblico ministero contabile, a fronte di una specifica e precisa notizia di danno, qualora il danno stesso sia stato cagionato per dolo o colpa grave (terzo periodo). Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta (quarto periodo)

[46] Ove è stabilito che “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la Pubblica Amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

[47] Per sostenere i suoi argomenti, la Corte costituzionale, adduce quanto pacificamente asserito dalla Consulta con sentenza n. 371 del 1998, secondo cui la limitazione operata a livello legislativo della responsabilità amministrativa del pubblico dipendente al dolo e alla colpa grave non implica che lo stesso, nel caso in cui la sua condotta si caratterizzi per la presenza di una colpa lieve, possa essere evocato in giudizio innanzi ad un’autorità giudiziaria diversa dal giudice contabile.

[48] Corte Cost., 23 maggio del 2007, n. 171.

[49] CILLA, op. cit.,6.

[50] Sul cui dettato di fonda il dato pacifico che il danno all’immagine della P.A. consiste nel pregiudizio arrecato alla rappresentazione che la stessa pubblica amministrazione ha di sé medesima.

[51] Secondo cui “la legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.

[52] Nella parte in cui dispone che “la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”.

[53] Corte Cost., 30 dicembre del 1987, n. 641.

[54] Corte Conti, sez. giur. Lombardia, 8 febbraio 2011, n. 95 che ha preso rigorosamente atto della pronuncia della Corte costituzionale.

[55] Già a partire dall’inaspettato revirement della sezione giurisprudenziale per la Toscana che si è posta in deliberato contrasto con la decisione della Consulta affermando la giuridica configurabilità del danno all’immagine anche nel caso di reati c.d. comuni. Cfr. Corte Conti, sez. giur. Toscana, 4 luglio 2011, n. 236 e 6 luglio 2011, n. 243.

[56] Ha confermato il proprio indirizzo ermeneutico costante ed antecedente all’emanazione della sentenza della Consulta del 2010.

[57] Si veda ex multis sent. nn. 641 del 2009 e 132 del 2010.

[58] Corte Cass., sez. V, 12 marzo 2007, n. 5747, in Mass. Giur. it., 2007. Decisione nella quale si afferma che l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale, vista l’autorevolezza della fonte da cui proviene, va comunque considerata quale fondamentale contributo ermeneutico, che può essere disconosciuto nel solo caso in cui vi siano ragioni valide.

[59] Corte Conti, sez. giur. Toscana, 2 agosto 2011, n. 277.

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