Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 31 agosto 2020, n. 5300.
La massima estrapolata:
Il cambio di destinazione d’uso tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, integra una vera e propria modificazione edilizia con incidenza sul carico urbanistico, con conseguente necessità di un previo permesso di costruire, senza che rilevi l’avvenuta esecuzione di opere.
Sentenza 31 agosto 2020, n. 5300
Data udienza 23 giugno 2020
Tag – parola chiave: Interventi edilizi – Cambio di destinazione d’uso tra categorie edilizie – Modificazione edilizia – Permesso di costruire – Necessità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6821 del 2010, proposto dal signor Ma. Fr., rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Cl. e Re. Cl., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il loro studio in Roma, via (…),
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Lu. Bi., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fa. Br. Ma. in Roma, via (…),
per la riforma
della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna Sezione Seconda n. 869/2009, resa tra le parti, concernente demolizione di opere abusive e ripristino dello stato dei luoghi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Viste le brevi note depositate dalla parte appellante, ai sensi dell’art. 84, comma 5, secondo periodo, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 23 giugno 2020, il Cons. Carla Ciuffetti, dati per presenti i difensori delle parti, ai sensi dell’articolo 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La presente controversia riguarda l’ordinanza prot. n. 1060, in data 20 gennaio 2009, con la quale il Comune di (omissis) – a seguito di sopralluoghi effettuati dalla Polizia Municipale in data 29 novembre 2008 ed in data 12 dicembre 2008, che avevano riscontrato la realizzazione di opere in difformità del titolo edilizio rilasciato per ristrutturazione di immobile ad uso direzionale (realizzazione di miniappartamenti) – aveva ordinato all’appellante il ripristino dello stato dell’edificio con l’originaria destinazione d’uso, in conformità alla destinazione urbanistica della zona, e la demolizione di opere effettuate sine titulo nel sottotetto, funzionali alla realizzazione di sei unità abitative e di innalzamento della quota di colmo del solaio di copertura da m. 2,50 a m. 2,90.
2. Il ricorso con cui l’interessato ha impugnato la menzionata ordinanza e i verbali di detti sopralluoghi della Polizia Municipale è stato respinto dal Tar, che ha ritenuto insussistenti le dedotte violazioni: dell’art. 3 della l. n. 241/1990, in quanto l’ordinanza era congruamente motivata attraverso il richiamo ai verbali della Polizia Municipale, in cui erano descritte le difformità delle opere realizzate rispetto al progetto assentito; dell’art. 7 della l. n. 241/1990, in quanto l’ordine di demolizione costituiva provvedimento vincolato e, in base all’art. 21-octies della l. n. 241/1990, non doveva ritenersi richiesto alcun apporto partecipativo dell’interessato; dell’art. 14 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 23/2004 e dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto il ricorrente, in difformità dal permesso di costruire rilasciato per ristrutturazione di immobile ad uso direzionale, aveva realizzato opere edilizie dirette al mutamento della destinazione dell’uso da direzionale a residenziale di tutti i piani dell’edificio, compreso il sottotetto, originariamente non abitabile, con innalzamento del quota di colmo del solaio di copertura da m. 2,50 a m. 2,90.
Secondo il Tar, il ricorrente, rispetto al permesso per ristrutturazione rilasciato dall’Amministrazione, aveva “realizzato un’opera completamente diversa mediante trasformazione non solo dei vani esistenti in ogni piano dell’edificio in locali destinati ad essere abitati, con tanto di approntamento dei necessari angoli di cottura, angoli notte e relativi bagni, ma anche del sottotetto in origine non abitabile dell’edificio”, come provato anche dal fatto che tutti i locali fossero abitati. Tali interventi dimostravano l’infondatezza della tesi del ricorrente secondo la quale il mutamento di destinazione sarebbe stato effettuato senza la realizzazione di opere e il mutamento di destinazione d’uso che ne era conseguito riguardava categorie funzionali distinte, con variazione del carico urbanistico.
3. Con il presente appello, il ricorrente ha avversato l’impugnata sentenza in base a motivi riconducibili ai seguenti gruppi di censure:
a) il Tar avrebbe erroneamente fatto applicazione dell’art. 21-octies della l. n. 241/1990 con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 7 della medesima legge per effetto della quale il ricorrente non avrebbe potuto dimostrare che il mutamento di destinazione d’uso ai piani interrato, terra e primo era avvenuto senza opere, né variazione tra categorie comportante aumento del carico urbanistico e variazione degli standards urbanistici; l’Amministrazione non avrebbe dimostrato in giudizio che, con l’apporto dell’interessato, la decisione non avrebbe potuto essere diversa e avrebbe illogicamente qualificato l’ordinanza come comunicazione di avvio di procedimento pur disponendo la demolizione delle opere senza assicurare alcun contraddittorio con l’interessato; inoltre, erroneamente il Tar non avrebbe ravvisato il dedotto difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata, con particolare riferimento al preteso aumento del carico urbanistico in conseguenza del mutamento della destinazione d’uso da direzionale a residenziale;
b) la sentenza sarebbe erronea anche con riferimento all’applicazione dell’art. 14 della 1.r. n. 23/2004, nonché dell’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001: infatti, poiché ai piani interrato, terra e primo il cambio d’uso sarebbe avvenuto “senza opere ma con opere impiantistiche e di arredo che rendono usabile ogni ufficio anche come stanza con funzioni abitative (angolo cottura e wc)”, avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 16 della stessa l.r. n. 23/2004, concernente il cambio d’uso funzionale senza opere, con irrogazione di sanzione pecuniaria, e il Comune avrebbe dovuto prescrivere l’adozione di misure per rendere l’intervento più coerente con il contesto ambientale; comunque, tale intervento non avrebbe comportato un aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari ai sensi dell’art. 28 l.r. 31/2002, né variazione di standards urbanistici, essendo previsto, per la zona in cui l’immobile si trovava, il rispetto di un solo standard riguardante i parcheggi, identico sia per la destinazione direzionale che per quella abitativa, restando quindi escluso un aggravio nelle dotazioni territoriali; ciò avrebbe trovato conferma nella stessa ordinanza che, al n. 2, aveva ingiunto la demolizione delle sole opere del sottotetto, ove sarebbe stato realizzato un intervento “diverso qualitativamente” rispetto a quelli degli altri piani, che, comunque, non avrebbe sostanziato una ristrutturazione in totale difformità o variazione essenziale o in assenza di titolo abilitativo, né tantomeno avrebbe messo capo ad un organismo completamente diverso dal precedente; infatti, nel sottotetto sarebbero state realizzate opere interne – di apposizione di pareti divisorie costituite da pannelli in legno e cartongesso, senza alcuna modifica di sagoma, prospetti o superfici – senza modifica del tetto o dell’altezza del sottotetto; gli interventi nel sottotetto non costituirebbero ristrutturazione, ma difformità edilizia, soggetta solo a sanzione pecuniaria; in definitiva, le opere poste in essere, aventi natura funzionale e non strutturale, dovevano ritenersi comprese nella DIA in variante presentata in data 14 marzo 2005 e quelle del sottotetto avrebbero potuto essere effettuate in base a SCIA.
L’appellante ha chiesto che si disponga una verificazione o una consulenza tecnica d’ufficio al fine di riscontrare la correttezza delle proprie tesi difensive, a supporto delle quali ha depositato documentazione.
4. Il Comune di (omissis) ha eccepito, ai sensi dell’art. 104, co. 2, c.p.a., l’inammissibilità della produzione documentale effettuata dall’appellante nel presente grado di giudizio, in prossimità dell’udienza. Nel merito, l’Amministrazione ha chiesto il rigetto dell’impugnazione.
5. Tutto ciò premesso, il Collegio passa all’esame dell’appello.
5.1. Preliminarmente va esaminata l’eccezione formulata dalla parte appellata ai sensi dell’art. 104, co. 2, c.p.a.. Tale eccezione è fondata e deve essere accolta: la relazione datata 7 maggio 2020, redatta da tecnico incaricato dall’appellante, depositata nel presente grado di giudizio, costituisce nuova prova non consentita in appello; della restante documentazione, anteriore all’instaurazione del giudizio di primo grado (è priva di data la dichiarazione di conformità del progetto strutturale a quello architettonico autorizzato e a quello realizzato) l’interessato non ha dimostrato l’impossibilità di presentazione davanti al Tar.
5.2. Quanto al merito della controversia, il Collegio rileva che, come evidenziato dalla difesa del Comune appellato, l’art. 6 (“destinazioni d’uso”) e l’art. 20 delle NTA (“Zona D3: aree produttive esistenti di tipo terziario (commercio e direzionale)”), espressamente richiamati dall’ordinanza impugnata, non consentivano nella zona D3, in cui si trovava l’immobile, la destinazione residenziale, ma solo quella commerciale e direzionale. Dunque, tale violazione della disciplina urbanistica vigente all’epoca dei fatti, non contestata dall’appellante, assume valore dirimente ai fini della decisione della controversia.
La constatazione di tale violazione, assorbente di tutte le questioni dedotte dal ricorrente, comporta che debba essere respinta la richiesta di verificazione o consulenza tecnica d’ufficio, non potendo ascriversi alcun rilievo all’accertamento delle modalità di realizzazione e della consistenza di interventi effettuati in contrasto con detta disciplina urbanistica.
In ogni caso, in merito alle suddette questioni, basta evidenziare che: a fronte dell’abuso edilizio effettuato dall’appellante in violazione della disciplina urbanistica comunale, come correttamente rilevato dal Tar, l’ordinanza impugnata costituiva atto vincolato, con conseguente irrilevanza della mancata comunicazione dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990; anche ad ammettere che il mutamento di destinazione d’uso, tra le categorie funzionalmente autonome direzionale e residenziale, fosse avvenuto senza opere, l’art. 26 della l.r. n. 31/2002, vigente alla data di adozione dell’ordinanza impugnata, prevedeva che un tale mutamento di destinazione d’uso fosse soggetto a denuncia di inizio attività, solo purché fosse conforme alle previsioni urbanistiche comunali, condizione non sussistente nella fattispecie; comunque, secondo l’indirizzo di questo Consiglio, cui il Collegio intende conformarsi “il cambio di destinazione d’uso tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, integra una vera e propria modificazione edilizia con incidenza sul carico urbanistico, con conseguente necessità di un previo permesso di costruire, senza che rilevi l’avvenuta esecuzione di opere” (Cons. St., sez. VI, 20 novembre 2018, n. 6562); la DIA, sulla quale, secondo l’appellante, avrebbero dovuto ritenersi basati gli interventi ai piani diversi dal sottotetto, riguardava la distribuzione interna di uffici e non di unità residenziali.
6. Per quanto sopra esposto, l’appello deve essere respinto in quanto infondato e la sentenza di primo grado deve essere confermata.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (come chiarito da giurisprudenza costante, e plurimis, Cass. civ., sez.V, 16 maggio 2012, n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Il regolamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidate nel dispositivo, segue la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna l’appellante alla rifusione delle spese del grado di giudizio in favore del Comune di (omissis), liquidate in complessivi euro 6.000,00 (seimila/00), oltre alle maggiorazioni di legge, se dovute.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2020, convocata con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere
Carla Ciuffetti – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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