I controlli nelle Pubbliche Amministrazioni profilo giuridico e criticità

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I controlli nelle Pubbliche Amministrazion: profilo giuridico e criticità

 


1.Nozione, natura giuridica e criteri di classificazione

L’attività di controllo consiste nella verifica, nell’esame e nella revisione di atti o attività, posti in essere da un soggetto altro rispetto a colui il quale esercita l’attività di controllo. Tale attività dinamica si conclude sempre mediante la formulazione di un giudizio che può avere, alternativamente, esito positivo o negativo e che comporta, poi, come sua naturale conseguenza, la predisposizione di una eventuale misura[1]. L’attività di amministrazione attiva è, pertanto, duplicata da un’attività di controllo, infatti, i controlli amministrativi non escludono i controlli giurisdizionali, bensì mirano a circoscrivere, riducendola, l’area dell’illegittimità, eventualmente oggetto di intervento del giudice[2]. Quanto detto appare in sintonia con la tradizionale, nonché primigenia, configurazione del sistema dei controlli, inizialmente limitato ad una mera verifica di legittimità[3]. Una simile impostazione appare in totale distonia, o quantomeno inadeguata, rispetto al processo riformistico che ha travolto l’amministrazione nel suo complesso. In particolare, l’organizzazione amministrativa attraversa, a partire dagli anni ’80, una fase di transizione, caratterizzata essenzialmente dalla sovrapposizione di un modello risalente e consolidato, che continua a voler imporre i propri principi, ormai palesemente radicati, e di una nuova visione dell’amministrazione ispirata ai principi di efficienza, efficacia ed economicità, maturati in un’ottica più attuale[4]. La nuova visione dell’amministrazione globalmente intesa incide considerevolmente sulla geografia dei controlli, il cui panorama si arricchisce, approdando ad una definizione più ampia degli stessi, in termini di verifica dei risultati come strumento di analisi dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità e non più soltanto come mero controllo di legittimità[5]. Orbene, l’attività de qua, benché doverosa, si caratterizza per essere essenzialmente accessoria e strumentale rispetto a quella di amministrazione attiva ed implica l’esame dell’altrui operato, sub specie di atti ovvero attività ed, in particolare, la verifica della loro conformità a legge o ai criteri di buona amministrazione, peraltro, intimamente connessi tra loro. Si tratta di un’attività ispirata a forme di controllo di tipo gestionale e finanziario ed in linea con la nuova concezione di amministrazione “per risultati”[6].  Ciò induce a ritenere, così come asserito da autorevole dottrina[7], che l’atto di controllo abbia natura composita in quanto, pur garantendo la rispondenza di atti ed attività amministrative a regole predeterminate, consente altresì un confronto tra risultati raggiunti ed obiettivi prefissati[8]. È evidente, dunque, come la natura dell’atto di controllo non sia di per sé pacifica. Tradizionalmente, infatti, si tende a configurare gli atti di controllo come provvedimenti di secondo grado. Tuttavia, è controverso se si tratti o meno di una manifestazione di volontà. Una parte della dottrina[9], in particolare, qualifica i controlli preventivi di legittimità sugli atti come manifestazioni di giudizio, mentre attribuisce ai controlli sui risultati della gestione economica e finanziaria una duplice funzione, tanto di giudizio e tanto collaborativa, di impulso nonché propositiva, rivolta parimenti sia agli organi politici di governo che a quelli di vertice gestorio del soggetto pubblico controllato.

L’articolata geografia dei controlli ne contempla differenti forme il cui discrimen va individuato facendo ricorso a più criteri di classificazione inerenti, in particolare, all’oggetto del controllo, ai rapporti che intercorrono tra controllore e controllato, nonché agli obiettivi e ai risultati dell’attività di controllo[10]. Alla stregua dei predetti criteri di classificazione, si individuano tre tipologie di controlli che possono riguardare, rispettivamente gli atti, gli organi o la gestione. Passando brevemente in rassegna le tipologie di controllo, si può definire il controllo sull’atto come attività che verifica la conformità a legge di uno specifico provvedimento, ovvero la sua opportunità. Il controllo sugli organi, invece, consiste in un’attività di verifica della legittimità del funzionamento di un organo amministrativo così da poterlo uniformare alla legge e al principio di buon andamento, contemplato dalla norma di cui all’articolo 97 della Costituzione. Infine, il controllo di gestione svolge una verifica di conformità dell’attività complessiva del controllato ai parametri di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, ex art. 1 della legge 241 del 1990.

2. L’incidenza della Costituzione repubblicana

La funzione tipica dell’attività di controllo può dirsi immanente ad un sistema di diritto amministrativo di matrice organizzatoria. Ciò è evidente in quanto, qualora un organo sia dotato del potere di esercitare una funzione di amministrazione attiva al fine di soddisfare un interesse collettivo, risulta essenziale che organi, terzi o in posizione di supremazia, abbiano la possibilità di controllare se il potere sia stato esercitato in maniera corretta e se sia funzionale alla realizzazione dello specifico interesse[11]. L’avvento della Costituzione repubblicana ha fornito al sistema dei controlli una solida base normativa, sebbene a quel tempo l’evoluzione della materia de qua vivesse ancora una fase embrionale, in quanto limitata essenzialmente ad un controllo di legittimità[12]. In particolare, i principi di buon andamento[13] e di imparzialità dell’azione amministrativa, consacrati nella norma di cui all’articolo 97 della Costituzione, costituiscono il sostrato normativo maggiormente significativo nella logica dei controlli, operando la norma de qua un bilanciamento nell’esercizio dei poteri al fine di salvaguardare l’equilibrio dell’intero sistema. Il principio di buon andamento, nonchè quelli di efficienza ed efficacia, rappresentano i saldi parametri giuridici cui ancorare il sistema dei controlli. Il ridetto principio, peraltro, opera come temperamento al principio di legalità ed individua, quindi, lo scarto con i controlli di legittimità, il cui precipitato logico-giuridico va rintracciato esclusivamente, appunto, nel principio di legalità[14]. Nel periodo antecedente all’entrata in vigore della Costituzione, il sistema dei controlli era disciplinato dalla legge generale di contabilità di Stato (r.d. 2340 del 1923), dal Testo Unico delle leggi  sulla Corte dei Conti (r.d. 1214 del 1923) nonchè dal Testo Unico delle leggi comunali e provinciali (r.d. 383 del 1934) [15].  Tali disposizioni si riferivano essenzialmente ai controlli preventivi di legittimità e ai controlli di merito sugli atti deliberativi degli enti locali, affidati al Prefetto e alla Giunta provinciale.[16] A tal proposito, si è spesso adoperata l’espressione giustiziabilità[17], indicativa della circostanza che il controllo consistesse semplicemente nella possibilità di impugnare, in sede giurisdizionale, le decisioni dell’amministrazione e avente, altresì, come finalità principale, quella di assicurare il dominio della legge sull’azione pubblica. Ciò induceva a focalizzare l’attenzione esclusivamente sugli atti trascurando, invece, le azioni pubbliche poste in essere, determinando altresì un inutile dispendio di tempo, costi elevati del personale impiegato, nonchè la deresponsabilizzazione degli organi decisionali, essendo gli atti sottoposti, essenzialmente, ad un controllo esterno. Questo sistema di controlli evidenziava, inoltre, una incisiva ingerenza governativa sull’attività della pubblica amministrazione. L’autorità statale conservava, infatti, una posizione centrale nelle attività di pubblico interesse. L’entrata in vigore della Costituzione ha, poi, fornito un considerevole contributo al sistema dei controlli, corroborandoli di una solida base normativa costituzionale ed ha al contempo provveduto a rafforzare, altresì, l’autonomia degli enti, tuttavia senza mai compromettere l’ottica statocentrica[18] fino ad allora dominante. Ciò posto, tuttavia, non sembra che l’avvento della Costituzione abbia travolto l’assetto pre-costituzionale, che sembra rimasto pressappoco inalterato. Il vero ed effettivo contributo costituzionale sta nell’aver fornito un saldo ancoraggio al decentramento e all’autonomia degli enti locali, sviluppando concretamente l’ottica pluralistica ormai diffusa[19]. Infatti, va rilevato che, sebbene il controllo sugli enti locali fosse, antecedentemente alla Grundnorm, già esercitato da organi dello Stato, con l’avvento della Costituzione, questo viene trasferito alle regioni.

Nella sua versione originaria, la Costituzione prevedeva tre specifiche disposizioni in materia di controlli. In particolare, l’articolo 100 della Costituzione circa i controlli della Corte dei Conti sull’amministrazione dello Stato e sugli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria; l’articolo 125 che si occupava dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle Regioni e, infine, la norma di cui all’art. 130 che prevedeva i controlli delle Regioni sugli atti degli enti locali[20]. Comune a tutte queste tipologie di controllo costituzionalmente previste è la circostanza che l’organo di controllo è esterno[21] all’amministrazione controllata, in quanto o è parte di un ente diverso o comunque si colloca in una posizione di indipendenza rispetto al Governo. Tuttavia, il diffondersi di una visione pluralistica della Pubblica Amministrazione amplia fortemente l’autonomia degli enti locali, rendendo queste forme di controllo esterno, quasi anomale rispetto alla nuova fisionomia policentrica assunta dall’amministrazione. A questa anomalia ha rimediato il varo della legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha definitivamente eliminato, dal contesto costituzionale, le norme di cui agli articoli 125 e 130 e quindi, in particolare, i controlli sulle Regioni e sugli enti locali. Si assiste, dunque, ad una vera e propria generalizzazione dei controlli interni, resa ancora più effettiva da una serie di disposizioni emanate a partire dagli anni ’90 del ventesimo secolo. La giurisprudenza costituzionale[22], peraltro, ha evidenziato che i controlli delle pubbliche amministrazioni non costituiscono un sistema chiuso in quanto il legislatore ordinario ha la possibilità di introdurre ulteriori forme di controllo purchè trovino nella Costituzione un valido fondamento normativo o si colleghino ad interessi giuridicamente rilevanti. Rebus sic stanti bus, in base a quanto sin qui affermato, l’attività di controllo perde il suo necessario ancoraggio al criterio di stretta legalità per riferirsi essenzialmente al rapporto tra obiettivi programmati e risultati raggiunti.

3.La successiva evoluzione normativa: la generalizzazione dei controlli interni.

Discorrere di controlli equivale a raccontare i cambiamenti che hanno investito la Pubblica Amministrazione nel corso del tempo. L’evoluzione normativa registrata è stata dettata dall’esigenza di adeguare il sistema dei controlli al rinnovato quadro giuridico  globale. Gli anni ’80 sono indicativi di una fase preparatoria ad una serie di interventi  novativi del legislatore che, nei successivi anni ’90 , danno vita ad un proficuo fermento normativo. In particolare, l’esigenza di controllare la spesa pubblica e, al contempo la volontà di creare condizioni favorevoli per accedere al mercato europeo, hanno indotto il legislatore ad intervenire, mediante una serie di norme, anzitutto al fine di favorire il passaggio da una finanza derivata ad una finanza decentrata, con tutte le conseguenze che ne scaturiscono. È questo il tempo delle grandi riforme amministrativo-contabili indirizzate alla creazione di un sistema di programmazione e di controllo caratterizzato dalla verifica degli obiettivi raggiunti dagli enti. Negli anni ’90  si assiste ad una evidente accelerazione del processo di rinnovamento che, mediante le esternalizzazioni[23] e il processo di privatizzazione, ha realizzato uno snellimento della macchina amministrativa[24]. Come anticipato, l’evoluzione in materia di controlli è stata dettata principalmente dall’esigenza di adeguare il sistema dei controlli alla nuova fisionomia assunta dalla PA, in termini di trasparenza, democrazia e gestione imprenditoriale[25]. Tutto ciò si è verificato in un contesto socio-politico dominato dal fallimento della pubblica amministrazione sempre più intralciata dall’ingerenza della politica che allontanava la collettività dall’attività amministrativa, e sempre più caratterizzata da forme di clientelismo e di uso illecito del denaro pubblico. Ciò ha rappresentato la cause di un indebolimento e di una de-professionalizzazione della burocrazia, dell’insostenibilità del debito pubblico e di una crisi finanziaria che, ormai, esigeva una  autentica “rivoluzione” a livello normativo nonchè nuovi sistemi di controllo[26]. Questo vento di riforma determinò, innanzitutto, la progressiva riduzione dei controlli di legittimità, oramai divenuti inefficienti ad assicurare l’effettiva tutela dell’interesse pubblico. I controlli de quibus si limitavano a valutazioni esclusivamente formali rappresentando, spesso, la causa di una paralisi dell’attività amministrativa. Numerosi interventi normativi hanno contribuito a realizzare un progressivo riassetto del sistema dei controlli partendo dall’introduzione dei controlli rivoluzionari sull’attività, estesi allo svolgimento dell’azione amministrativa globalmente intesa, in sostituzione dei precedenti controlli sugli atti. Ad un controllo repressivo, sfociante nell’annullamento dell’atto e nella conseguente irrogazione di una sanzione, il legislatore ha sostituito forme di controllo tendenti, essenzialmente, a perfezionare l’attività degli organi controllati, abbandonando l’ottica repressiva a favore di una gestione collaborativa, protesa al miglioramento della pubblica amministrazione. Si è dato avvio ad una riforma dell’amministrazione nel tentativo di adeguarla alle effettive esigenze del cittadino. L’evoluzione in termini di disciplina trova il suo fondamento concreto nel criterio di distinzione tra poteri di indirizzo e di controllo degli organi di governo, e i poteri di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica di competenza dei dirigenti. Si cerca, pertanto, di favorire una modifica dell’impianto costituzionale e di approvare leggi che introducano nuove disposizioni in materia di trasparenza della gestione amministrativa, che tengano conto del decentramento, facendo transitare larghe fasce di competenza dall’amministrazione centrale a quella periferica, e predisponendo altresì modelli organizzativi e gestionali più efficienti che favoriscano un proficuo ripensamento dell’attività di controllo in un’ottica più funzionale alle nuove regole organizzative e gestionali. Il primo passo, in questo nuovo contesto di riforme a cascata, è stato mosso con legge 8 giugno del 1990 n.142, “ordinamento delle autonomie locali”. Tale intervento novativo ha determinato un cambiamento di rotta nell’organizzazione della PA, anzitutto introducendo il controllo successivo di gestione di competenza dei revisori dei conti, i quali possono anche intervenire con proposte al fine di migliorare l’efficienza e la produttività della gestione amministrativa[27]. Ha stabilito, altresì, che i risultati di gestione degli enti locali dovessero essere rilevati mediante contabilità economica, tenendo conto, pertanto, delle entrate e uscite di cassa nonché dei costi sostenuti, sia in termini di quantità che di qualità, per i servizi erogati[28]. Per la prima volta si parla di controllo di gestione interno, sebbene ancora in termini di non obbligatorietà[29], e si assiste ad un vero e proprio depotenziamento dei controlli di legittimità e ad un corrispettivo potenziamento delle autonomie locali, le quali possono autoregolamentarsi, tenendo conto delle esigenze reali dell’ente stesso. La norma in commento ha soppresso altresì il controllo di merito, ha ridotto il numero degli atti sottoposti a controllo di legittimità preventivo, rafforzando, tuttavia, il principio di responsabilità delle singole strutture amministrative[30]. Nel 1993 con il d.lgs. n. 29[31] il legislatore ha reso ancora più netti i ruoli assunti dagli organi politici, dalla burocrazia e dalla dirigenza in particolare, affidando ai primi il compito di definire gli obiettivi e i programmi e ai dirigenti la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa nonché l’adozione degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno. Il decreto prevedeva, viepiù, l’istituzione presso ogni amministrazione di servizi di controllo interno con il compito di verificare i risultati della gestione e delle prestazioni dirigenziali. Affidava, inoltre, la valutazione al nucleo di valutazione al fine di correggere e indirizzare l’operato dell’ente mediante la verifica del raggiungimento degli obiettivi prefissati nel rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, attuando una comparazione tra costi e rendimenti della gestione[32]. Il decreto, dunque, predispone un quadro dei controlli articolato, al cui vertice è collocato un dirigente in posizione apicale, dotato di specifiche competenze e di maggiori responsabilità. Ad integrare tale norma sono intervenuti diversi provvedimenti normativi[33] che hanno dato vita ad un assetto organizzativo dotato di ulteriori funzioni quali, ad esempio, l’accertamento della rispondenza dei risultati ottenuti rispetto agli obiettivi imposti dallo stesso ente, la verifica dell’imparzialità, del buon andamento, dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa, nonché l’individuazione delle cause del mancato raggiungimento degli obiettivi e dei procedimenti non conclusi. Anche le Regioni, operando uno sforzo considerevole, hanno dato attuazione al decreto, adeguando il sistema esistente ai principi fondamentali, e favorendo una razionalizzazione del sistema gestorio interno agli enti attraverso soluzioni diversificate,  indirizzate ad una revisione sostanziale dell’assetto organizzativo interno nonché ad una responsabilizzazione dei dirigenti. Rebus sic stantibus, il controllo di gestione diviene il modulo di verifica centrale, dal quale partono tutte le azioni correttive da apportare all’azione amministrativa[34]. L’obbligatorietà del controllo di gestione per gli enti locali viene sancita dagli artt. 39 ss. del d. lgs n. 77 del 1995 che, innovando l’ordinamento contabile degli enti, eliminano il bilancio di cassa, modificano le voci del bilancio e la loro determinazione e introducono definitivamente il management by objectives, ossia la gestione per obiettivi. Nel 1997 le leggi Bassanini[35] contribuiscono a realizzare una ulteriore riduzione dei controlli di legittimità modificando, altresì, il rapporto intercorrente tra ente e cittadino, in un’ottica di rafforzamento del principio di strumentalità dell’azione amministrativa rispetto alla direzione politica e di unitarietà dell’organizzazione amministrativa[36]. Attenzione particolare va riservata alla legge n. 127 del 1997, nota come Bassanini-bis sulla semplificazione amministrativa che, alla stregua del principio di sussidiarietà, di fronte alla inadeguatezza dei controlli, assegna maggiori poteri agli enti, in tal modo, rafforzandone l’ autonomia. La legge de qua, la quale riscrive la disciplina dei controlli, prescrive che siano assoggettati a sindacato soltanto due categorie di atti e, in particolare, i regolamenti regionali, con esclusione di quelli attinenti all’autonomia organizzativa, funzionale e contabile dei Consigli regionali e gli atti costituenti adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità europea. L’ampliamento dell’autonomia conferita alle Regioni, negli ultimi tempi, contrastava con il sistema dei controlli sugli atti amministrativi regionali che, per quanto modificato in più punti dalla legislazione ordinaria, rappresentava comunque un limite all’autonomia di indirizzo, considerato che gli atti amministrativi sottoposti al controllo preventivo di legittimità non esplicavano la loro efficacia fino alla pronuncia della Commissione statale di controllo. Un passo decisivo, in questo ventaglio di riforme, viene mosso, dal D.lgs n. 286 del 1999 che ha introdotto un sistema integrato ed organico di controlli interni[37], prevedendo quattro distinti settori di svolgimento e di finalità da assolvere. In particolare, il controllo di regolarità amministrativa e contabile è deputato a garantire la legittimità, la regolarità e la correttezza amministrativa; il controllo di gestione volto a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa, nonché l’ottimizzazione, del rapporto tra costi e risultati, anche mediante le logiche del controllo budgetario; la valutazione della dirigenza è preposta alla valutazione delle prestazioni del personale con incarico dirigenziale e, infine, la valutazione e controllo strategico con il compito di valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati raggiunti e obiettivi predefiniti. La novella provvede ad indicare con esattezza, altresì, le attività da affidare alle singole strutture di controllo, i principi organizzativi nonché le metodologie istruttorie e l’oggetto del controllo[38]. Al termine degli anni ’90, pertanto, si giunge ad un modello di amministrazione in cui i controlli preventivi di legittimità sono limitati a pochi casi tassativi, mentre ci si avvia, tendenzialmente, verso un controllo di tipo gestionale. Tuttavia, a distanza di dieci anni dall’entrata in vigore del decreto in commento, solo il controllo interno di regolarità amministrativa e contabile ha trovato piena attuazione. Questo perché, il sistema di monitoraggio ad esso sotteso è svolto da specifici organi di revisione della ragioneria e dei servizi ispettivi, il cui modus operandi appare efficiente. Invece, gli altri controlli citati hanno trovato scarsa applicazione a causa dei problemi incontrati per organizzare in modo più organico le informazioni necessarie per la misurazione stessa, con le conseguente difficoltà sia nella valutazione delle scelte operative effettuate dai manager , sia nel monitoraggio sulle risorse umane e finanziarie[39]. Ogni ente, peraltro, ha la facoltà di dotarsi di strumenti che possano garantire la regolarità degli atti ed una gestione di tipo manageriale, orientata al raggiungimento di precisi obiettivi e risultati. In questo contesto, riceve un impulso decisivo, l’autonomia progressivamente conquistata dagli enti locali.

Nel 2000, mediante il D.lgs n. 267, viene approvato il Testo unico sugli ordinamenti degli enti locali che ripropone la disciplina così come elaborata in seguito agli interventi normativi degli anni ’90. Il decreto de quo ha definitivamente attribuito ampia autonomia agli enti nell’organizzazione ed attuazione dei controlli ribadendo, altresì, la distinzione tra funzioni politiche e funzioni gestionali. La nuova disciplina, tuttavia, si limita ad indicare i principi fondamentali da seguire nell’attuazione dei controlli residuando ampia autonomia agli enti circa le modalità di attuazione. Gli enti, pertanto, possono istituire anche delle forme convenzionali, dei consorzi per istituire uffici di controllo.

4. L’impiego della class action come eventuale rimedio alle disfunzioni.

Il ventaglio di riforme, in precedenza cronologicamente esaminato, a partire dalle leggi emanate nel corso degli anni ’90[40], segue quindi una particolare traiettoria, indirizzata, in particolare, alla eliminazione del controllo esterno di legittimità e alla simultanea introduzione di una distinzione tra politica e amministrazione fondata sul rapporto mezzo-fine, spettando al Governo la predeterminazione degli obiettivi ed ai vertici amministrativi la scelta di strumenti adeguati. Si è puntato, inoltre, sul potenziamento concreto dei principi di economicità ed efficienza, quale fondamento sostanziale del controllo interno di gestione volto, pertanto, a ridurre ed eliminare gli sprechi. Lo scenario riformistico ha rivelato altresì l’incerto fondamento costituzionale dei controlli della Corte dei Conti nonché la definitiva illegittimità istituzionale dei controlli di merito. Tale iter riformistico, annunciato dalla legge 142 del 1990 prima e dalle riforme Cassese e Bassanini poi, ha trovato concreta attuazione con la riforma costituzionale del 2001, la quale ha decretato la soppressione dei controlli esterni tra livelli di governo al fine di favorire l’autonomia di Regioni ed enti locali. Circa la vicenda che ha riguardato, in particolare, gli atti degli enti locali, centrale è stata la posizione assunta dalla legge 142 del 1990 che ha ridotto i controlli per tipi di atti, limitatamente a quelli del Consiglio, e per vizi rilevabili. La riforma costituzionale ha, poi, provveduto ad abrogare gli artt. 125 e 130 della Costituzione. Tale processo riformistico ha determinato l’eliminazione dei controlli esterni dello Stato sulle Regioni e delle Regioni sugli enti locali. In un simile contesto si è posto il problema di rendere effettivi i controlli interni e di garantire i cittadini dalla circostanza eventuale, ma possibile, che un livello di governo non eserciti le proprie funzioni. Il primo rimedio individuato, al fine di rendere i controlli esterni, ormai eliminati, pienamente surrogabili dagli organi interni, riguarda l’ aumento dei controlli esercitabili dalla Corte dei Conti[41]. Infatti, tale organo avrebbe dovuto svolgere una funzione di controllore di secondo grado. Tuttavia, la mera natura di coordinamento informativo[42] attribuita ai controlli de quibus, impedisce di qualificarli come veri e propri controlli, mancando, questi, di poteri sanzionatori. Peraltro, si era tentato di sopperire a tale deficienza, mediante l’introduzione, da parte della riforma Bassanini, presso la presidenza del Consiglio dei ministri, di un comitato tecnico-scientifico che avrebbe dovuto valutare l’ operato delle singole amministrazioni, individuando le best practices e facilitando il loro trasferimento in altri contesti. Tuttavia né la Corte dei Conti, né il comitato tecnico scientifico sono riusciti ad indirizzare politici e burocrati verso una amministrazione per obiettivi, mediante l’utilizzo del controllo strategico per progettare e sviluppare politiche pubbliche per risolvere problemi collettivi. Ancora, si è pensato di fornire una risposta normativa alla mancata attuazione delle riforme, imponendo alle amministrazioni riluttanti e poco efficienti, una revisione interna del loro modus operandi, nell’intento di svolgere attività di controllo uniformi e predeterminate. Ciò ha generato l’ampliamento del tradizionale ruolo trasversale del Ministero dell’economia che ha reso la gestione, ancora una volta, schiava della finanza[43]. Altro temperamento alla possibile insufficienza dei controlli, dopo l’eliminazione dei controlli per così dire esogeni, andava individuato nel controllo sostitutivo del Governo ex art. 120 della Costituzione. Si tratta di un potere che va normativamente previsto e che va esercitato prescindendo, tassativamente, da discrezionalità nell’an. Peraltro, vengono richieste effettive garanzie procedimentali per l’ente oggetto di controllo sostitutivo. Da questa disamina risultano evidenti le difficoltà di attuazione dell’intervento sostitutivo ed, in particolare, l’impossibilità ad esso connaturata di sostituire il sistema generale dei controlli, vista la natura eccezionale del controllo ex art. 120 della Costituzione. È evidente che non sono stati predisposti controlli adeguati al fine di compensare l’eliminazione dei controlli esterni, la cui abrogazione si è resa necessaria in virtù della nuova visione policentrica dell’amministrazione. A tale insufficienza, peraltro, non hanno neanche sopperito i controlli esercitati dagli organi di tutela civica, la cui abolizione è stata decretata recentemente[44]. In mancanza di risposte concrete ai problemi di un sistema, imperniato sulla logica dei controlli che, tuttavia, non riesce a sostituire un modello, quello dei controlli esterni, ormai divenuto obsoleto, i giuristi moderni hanno individuato un possibile rimedio nell’azione di classe[45], la quale, di certo rappresenta una forma evoluta di verifica dell’azione amministrativa. In particolare, si tratta di uno strumento pensato per assicurare meccanismi di correzione e di responsabilità volti ad eludere alterazioni del mercato e dell’uguaglianza dei cittadini, da parte di un’amministrazione che opera nel mercato svolgendo attività che hanno rilevanza economica per i singoli e per le imprese. L’azione de qua costituisce la ricaduta sul piano processuale della rilevanza giuridica attribuita, sul piano sostanziale, alla violazione di determinate regole di comportamento nelle scelte discrezionali costituenti esercizio della funzione amministrativa ed è, altresì, in linea con l’adeguamento del sindacato del giudice alla moderna visione di amministrazione di risultato, concepita per dare maggiore concretezza al principio del buon andamento. La class action[46]  è stata pensata al fine di dare concretezza ad un’idea innovativa che consiste nel legare la soddisfazione della pretesa avanzata da uno o più cittadini al promovimento[47]  di un controllo esterno di tipo giustiziale sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche, degli standard di qualità, economicità e tempestività. Rebus sic stantibus, l’azione di classe potrebbe rappresentare un valido rimedio alla crisi del sistema dei controlli. È stata rilevata per un verso l’analogia sussistente tra l’azione de qua e l’azione popolare, ex art. 9 del Testo unico degli enti locali, che peraltro deluse le aspettative. Questo perché l’azione popolare, per presentando numerosi elementi di similitudine con l’azione di classe affida tuttavia al singolo l’esercizio di un’azione, in realtà propria dell’ente locale, senza fornirgli una adeguata protezione in caso di insufficienza dell’azione de qua, divenendo, così, quasi atto di solidarietà sociale. Il medesimo rischio potrebbe palesarsi anche per l’azione di classe, prevista dal d.lgs. 198 del 2009, affidata al singolo cittadino, benché questi agisca avendo subito in prima persona la lesione. Per altro verso, la circostanza di aver attribuito tale azione ad associazioni e comitati di utenti e consumatori, rende l’azione de qua scevra dai rischi che comporta l’azione popolare. Questo perché tali associazioni e comitati sono dotati di quegli strumenti, dei quali talvolta il singolo non può disporre, idonei a sostenere i costi del processo. La nostra class action è, infatti, un’azione a legittimazione diffusa, non demandata al quivis de populo. Legittimati all’azione sono, infatti, le associazioni e i singoli cittadini potenziali destinatari di una prestazione di una data amministrazione in un determinato territorio, allo scopo di far rilevare un cattivo funzionamento dell’amministrazione per correggere, così, quella disfunzione. Intesa in tal modo, la class action, potrebbe essere un valido rimedio per evitare i problemi connessi alla soppressione dei controlli sull’attività amministrativa. Tuttavia, non va trascurato che il rimedio più logico nell’ottica della eliminazione dei controlli di legittimità sugli atti e di quelli sulle attività sarebbe in realtà costituito dalla normale tutela giurisdizionale, la quale, però, spesso richiede costi troppo elevati non sopportabili dal singolo cittadino. Orbene, l’introduzione di una legittimazione collettiva riduce i problemi in tal senso favorendo un più agevole accesso alla giustizia[48].

Tuttavia, è bene dirlo, non sempre la rappresentanza organizzata degli interessi riesce a combattere l’inefficienza burocratica. Peraltro, se si esclude il rimedio giudiziario, in realtà il cittadino non possiede reali strumenti di reazione diretta. Di certo, la class action ne può rappresentare uno. Vero è che nella logica della riforma Brunetta, in concreto, l’azione de qua risente di un ambito di applicazione alquanto limitato. Si è poi rilevato che l’azione de qua si presenta come uno strumento lento, articolato e, non da ultimo, costoso, inidoneo, talvolta, a verificare, eliminandole, le molteplici e spesso lievi inefficienze tipiche di uno Stato, quello italiano, dotato di un sistema amministrativo disomogeneo[49].

5.       Le soluzioni offerte dalla riforma Brunetta in tema di controlli.

La riforma Brunetta[50] si prefigge, come obiettivi, quelli di migliorare l’organizzazione del lavoro pubblico, consentire elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, incentivare una prestazione di qualità, garantire selettività delle capacità, valutate sulla base dei risultati conseguiti dal personale, rafforzare l’autonomia dei dirigenti e garantire la massima trasparenza dell’operato delle amministrazioni pubbliche. Si intende così fornire una risposta alle inefficienze amministrative e ai fallimenti delle precedenti riforme. In particolare, per quanto concerne lo specifico tema dei controlli, la riforma de qua si muove in due direzioni. Anzitutto, prevedendo che criteri e metodologie di valutazione delle amministrazioni locali siano affidate ad un organo centrale costituito a livello ministeriale e imponendo, altresì, a tutte le amministrazioni misure per garantire sistemi di controllo trasparenti, anche attraverso la pubblicazione, sui siti internet di ciascun ente, di tutte le informazioni relative all’organizzazione in tutti i suoi aspetti, degli indicatori gestionali nonché delle risorse utilizzate al fine di favorire forme diffuse di controllo. In realtà, sembra che la riforma voglia fare un passo indietro, limitando l’autonomia degli enti locali e ciò sembra essere dimostrato, peraltro, dalla mancanza di intese con i diversi livelli di governo circa l’approvazione dei decreti delegati.

Altro problema riguarda la possibilità che venga ritoccato il d.lgs. 286 del 1999 modificando il riparto e la definizione delle competenze tra il controllo strategico, il controllo di gestione e la valutazione della dirigenza risultando, la norma stessa, poco chiara. È certo che il d.lgs. n. 150 del 2009 introduce alcune modifiche rispetto al preesistente quadro dei controlli, modifiche che sembrano muoversi in controtendenza con la disciplina contenuta nel d.lgs. 286 del 1999 generando dei dubbi interpretativi. La novella ha abrogato il comma 6 dell’art. 1 del d.lgs. n. 286 del 1999, modificando la natura dei nuovi controlli che, da consultivi e manageriali, diventano ora repressivi, a causa di una frattura nel rapporto tra controllore e controllato che vanifica la funzione tipica dei controlli; la novella ha inoltre esteso i controlli anche alle regioni e agli enti locali, circostanza evidentemente non prevista dal decreto del ’99. L’intento della riforma è favorire “forme diffuse di controllo” ed, in primis, il rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità, al contempo evitando un intervento troppo pervasivo dello Stato al fine di non comprimere l’autonomia organizzativa che la Costituzione garantisce agli enti locali e regionali.

Altro punto qualificante della riforma in commento è la trasparenza delle scelte gestionali della P.A.. Esiste pertanto, nella logica della riforma, una relazione biunivoca tra buon andamento e trasparenza in quanto la pubblicità consente la verifica del rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità[51]. L’importanza di tale scelta è viepiù evidente se si considera che il principio de quo attiene, per legge, ai livelli essenziali delle prestazioni, ex art. 117 comma 2 della Costituzione.

Altro principio basilare della riforma, in materia di controlli, riguarda la performance: si tratta di un controllo diretto a verificare la riuscita, sul piano dei risultati conseguiti, dell’attività amministrativa. Il principio non è solo di tecnica aziendale: infatti, i misuratori della performance, sono stati introdotti per misurare la qualità dei servizi erogati. In particolare, l’articolo 3 del decreto legislativo del 2009 prevede espressamente l’obbligo in capo alla pubblica amministrazione, di misurare nonché valutare la propria performance con riferimento all’amministrazione globalmente intesa, alle unità organizzative che la compongono e ai singoli dipendenti. I punti cardine cui ancorare questo nuovo concetto di performance sono, dunque, il monitoraggio della performance, che si fonda essenzialmente sulle modalità di funzionamento del controllo di gestione, l’individuazione delle performance organizzative ed individuali, che sostituisce la valutazione della dirigenza e si estende al personale e, infine, la misurazione e la valutazione esercitata dall’organismo indipendente di valutazione della performance. Peraltro, vanno indicate le metodologie da utilizzare per la valutazione della performance in modo da analizzare gli scostamenti e le cause, gli obiettivi e i risultati, il portafoglio di attività e i servizi svolti dagli enti. Nelle valutazioni delle performance devono essere previste diverse fasi di monitoraggio e metodologia dell’intervento, al fine di garantire la massima trasparenza. Attenzione particolare, poi, va prestata alle procedure di conciliazione per la valutazione delle prestazioni individuali, cui si ricorre per risolvere eventuali conflitti sorti nel processo di valutazione[52].

Chiamati all’attività di misurazione della performance sono, in particolare, l’Organismo indipendente di valutazione della performance, che va a sostituire i singoli controlli interni delle pubbliche amministrazioni e, a livello centrale, la Commissione per la valutazione[53], la trasparenza e l’integrità “morale” delle amministrazioni pubbliche. L’Organismo indipendente è un organo collegiale o monocratico, che provvede a verificare il funzionamento complessivo del sistema di valutazione e a garantire la correttezza del processo di misurazione e valutazione. L’organo de quo è costituito da un membro interno all’amministrazione e da più soggetti esterni, dotati di determinate caratteristiche. In caso di composizione monocratica è necessario comunque che l’unico soggetto deputato al controllo abbia un’adeguata conoscenza dell’ente. All’organo si richiede professionalità e competenza. L’attività dell’organismo è incentrata prevalentemente sull’attribuzione di premi economici di produttività ai dipendenti pubblici[54]. Il monitoraggio della performance[55] è concomitante, ha finalità correttive e si fonda sulle risultanze dei sistemi del controllo di gestione. La concomitanza garantisce la visualizzazione dell’andamento delle performance.

In particolare, la legge n. 15 del 2009 manifesta un favor per il controllo concomitante quando affronta il tema dei controlli “esterni”. Si tratta di un controllo che va esercitato in itenere, rectius in corso di svolgimento, in quanto presume l’opportunità di intervenire durante l’esercizio, dunque, non già (come rilevato) in funzione sanzionatoria, bensì meramente autocorrettiva. Il controllo quindi consente di individuare e riparare il danno erariale prima che il decorso del tempo generi il rischio di non poterlo più perseguire. Rileva a tal proposito l’art. 11 della predetta legge, la quale disciplina il controllo concomitante sulla gestione delle amministrazioni centrali, regionali e locali. In realtà non si tratta in assoluto di una novità poiché già la legge n. 20 del 1994 prevedeva la possibilità, per la Corte dei Conti, di svolgere il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche e sulle gestioni fuori bilancio “in corso di esercizio”. L’intervento del controllo concomitante è ammesso in due ipotesi ovvero: qualora si verifichino gravi irregolarità gestionali sub specie di gravi deviazioni da obiettivi, procedure o tempi di attuazione previsti dalle norme; nonché nel caso in cui si perpetuino ritardi nella realizzazione di piani e programmi, nell’erogazione di contributi ovvero nel trasferimento dei fondi.

Gli organismi indipendenti di valutazione si avvalgono di indicatori di efficienza, efficacia ed economicità nonché di alcuni organi di supporto. Tra i primi, certamente il controllo di gestione assume un ruolo rilevante, anche in considerazione della diffusione dei dati del controllo, tramite web, che consente ai cittadini e alle persone interessate di prenderne visione; poi, sulla base dei dati raccolti e relativi alle performances, verranno stabilite le retribuzioni di risultato delle posizioni organizzative e dei dirigenti. Negli enti più grandi vi è un organo di controllo di gestione, inserito negli uffici di ragioneria o del personale, con un responsabile della raccolta e del monitoraggio dei dati, contenuti nel piano annuale delle performance[56]. Rimane inalterato, tuttavia, un controllo di gestione complessiva affidato alla Corte dei Conti.

Il sistema congegnato dalla riforma Brunetta pare quindi muoversi in controtendenza rispetto all’evoluzione normativa dell’ultimo ventennio in tema di controlli. Anzitutto, i controlli vengono esercitati non più sulla fase terminale dell’erogazione dei servizi, bensì in ogni momento della relativa attività. Nondimeno, attraverso la cooperazione tra la Commissione e gli Organismi indipendenti di valutazione, si realizza un controllo accentrato sulla gestione degli enti.

Si può rilevare la scarsa utilità di un simile controllo accentrato sulla gestione che, oltre a contrastare con l’autonomia acquisita dagli enti locali, richiama la funzione di controllo sulla gestione degli enti esercitata dalla Corte dei Conti, in collaborazione anche con gli Organismi di controllo interno.

 dott.ssa Maria Altavilla

Articolo già pubblicato sulla rivista giuridica Nel Diritto, la cui direzione scientifica è di G. Alpa, G.  Fiandaca, R. Garofoli, F.G.  Scoca, dal titolo

“I controlli nelle pubbliche amministrazioni: profilo giuridico e criticità”

febbraio 2011

Per gentile concessione della Nel Diritto SRL.


[1] CASETTA, Manuale di diritto amministrativo,Giuffrè editore, 2009, 141.

[2] CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli editore, quarta edizione, Torino 2008, 144.

[3] Orbene, proprio in quanto la verifica di legittimità era sempre ammessa in sede giurisdizionale, ogni atto veniva scrutinato più volte. Questo perché, gli atti amministrativi, erano inseriti in sequenze tipiche determinate, id est i procedimenti, pertanto, il rispetto formale di tali sequenze assurgeva a condizione di efficacia giuridica dell’atto.

[4] Il riferimento è al processo riformistico che ha caratterizzato l’amministrazione nel suo complesso, a partire dagli anni ’80, e che ha comportato, nel decennio successivo, il passaggio da una amministrazione per atti ad una amministrazione di risultato, ovverosia una amministrazione responsabile, non più solo della legittimità del proprio operato, bensì anche dei risultati raggiunti.

[5] Questo perché, nel corso degli anni ’90, l’attenzione si è spostata dal controllo sui singoli atti al controllo sull’attività globalmente intesa. Peraltro, se l’attività amministrativa è retta da criteri di economicità e di efficienza, così come espresso dall’art. 1 della legge 241 del 1990, anche il sistema dei controlli, di conseguenza, deve ispirarsi ai medesimi canoni e non più soltanto al parametro di legittimità. Il giudizio di economicità e di efficacia, in particolare, non può essere emesso in relazione al singolo atto, bensì in relazione all’attività nel suo complesso purchè, la stessa, si svolga in un arco temporale predeterminato.

[6] Espressione cui fece esplicito riferimento già M.S. GIANNINI negli anni ’60 per alludere alla contrapposizione tra amministrazione per atti ed amministrazione di risultato. Negli anni ’90, poi, con l’espressione de qua si fa riferimento ad una amministrazione responsabile anche dei risultati raggiunti e non solo della legittimità del proprio modus operandi.

[7] VIRGA, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1968, 218.

[8] GALLI, Corso di diritto amministrativo,volume secondo, quarta edizione, 2004, 1310.

[9] In tal senso si è espresso BODDA, Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 1954.

[10] GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, I memo-manuali, Nel Diritto editore, 309.

[11] GALLI, op. cit., 1309 ss.

[12] Nell’impianto costituzionale, così come antecedentemente all’entrata in vigore della stessa, i controlli sono essenzialmente di legittimità e di merito. Tuttavia, la Costituzione attribuisce, ex art. 130, il controllo di legittimità alle regioni (CO. RE. CO.), sebbene prima fosse di competenza del prefetto, e rende il controllo di merito come meramente eventuale. CORSO, op. cit., 101.

[13] Il principio di buon andamento trova il suo precipitato logico giuridico, a livello comunitario, nell’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, in ambito nazionale, nell’articolo 97 della Costituzione. Tuttavia, mentre nell’ottica europea  il principio de quo viene sancito come un diritto del cittadino ad avere una buona amministrazione. Nella Costituzione repubblicana il fine direzionale della norma è, invece la PA e, solo di riflesso, il cittadino. Qui, infatti, il buon andamento è riferito all’amministrazione come organizzazione esteso, poi, dalla legge, anche all’attività in virtù del principio di legalità. Il principio postula che l’amministrazione, agendo, tenda al soddisfacimento dell’interesse pubblico in modo proporzionale rispetto al fine stesso.

[14] Poiché l’amministrazione di servizi agisce, non più per atti, ma per risultati, il principio di legalità potrebbe assumere un ruolo recessivo ovvero potrebbero porsi problemi di compatibilità tra gli istituti ancorati ai criteri di efficienza ed efficacia e le esigenze di legalità. Tuttavia, autorevole dottina ha rilevato come efficacia ed economicità possano procedere di pari passo con il principio di legalità, attribuendo il giusto significato al nuovo concetto di risultato. Si tratta, infatti, di procedere ad una verifica non solo di legittimità bensì anche di opportunità. Cfr. LOGIUDICE, Amministrazione di risultato: verso un sistema performance oriented, www.altalex.com.

[15] F. CARINGELLA , Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè editore 2008.

[16] E. BARUSSO, Controllo, in Enciclopedia degli enti locali, Milano, 2007, Giuffrè editore.

[17] B. DENTE, L’evoluzione dei controlli negli anni 90 , atti del convegno “I controlli delle gestioni pubbliche” Perugia 1999, in  Lav. Nella P. A. n.6/1999, pag 1197.

[18] La legge Ricasoli del 1865, n.2248, in effetti, predicava il dominio dello Stato sugli enti locali qualificati, illo tempore, come amministrazioni indirette dello Stato. Il controllo di legittimità e di merito, in tale contesto, rappresentava una forma di tutela e vigilanza sui Comuni e sulle Province.

[19] Ad un’amministrazione per così dire leggera si sostituirono, a partire dai primi anni del ‘900, una pluralità di amministrazioni che resero più complesso il sistema amministrativo. Tale processo di decentramento ha seguito, in particolare, due direttive. Anzitutto, il nuovo ruolo assunto dalle autonomie locali, Comuni e Province, contribuisce a rendere l’amministrazione pubblica più vicina alle realtà locali, mediante una sua parcellizzazione. Peraltro, le strutture collaterali si sono ampliate, attraverso l’introduzione di aziende pubbliche e nuovi uffici periferici.

[20] CORSO, op. cit., 53

[21] Il D. lgs 286 del 1999 ha configurato i controlli come un sistema complesso di atti e di procedure, articolato in due categorie. I controlli interni sono quelli che l’amministrazione esercita su sé stessa in termini di autoverifica mentre, i controlli esterni sono effettuati da organi indipendenti all’amministrazione. Si tratta di controlli complementari e intercomunicanti tra loro. Infatti, alla Corte dei Conti, organo di controllo esterno, è affidato, infatti, anche il compito di valutare l’affidabilità del controllo interno nonché il potere di utilizzarne le conclusioni. Questo perché la Corte dei Conti deve svolgere non solo controlli di legittimità e di buona gestione finanziaria  ma, altresì, le verifiche sul funzionamento dei controlli interni. Cfr. GIUSEPPONI, Gestione e controllo delle amministrazioni pubbliche, 371.

[22] Corte costituzionale, sentenza n. 29 del 1995.

[23] Le esternalizzazioni rappresentano la conseguenza diretta del processo di aziendalizzazione delle amministrazioni pubbliche, che ha portato all’adozione del paradigma della public governante. Si ha così il superamento della dicotomia pubblico e privato, a favore di un rafforzamento della politica del risultato, che vede il pubblico servirsi del privato nell’erogazione dei servizi da garantire e una riprogettazione dell’intera struttura amministrativa. Le politiche di intervento delle amministrazioni sono quindi impostate in modo da favorire una crescita competitiva dei territori modificando, su diversi livelli, il ruolo dei poteri pubblici. VETRITTO, L’esternalizzazione strategica nelle amministrazioni pubbliche, Manuali progetto Cantieri, Dipartimento della funzione pubblica, 2006, 11.

[24] RICCI, Evoluzione storica e riferimenti normativi, in Gestione e controllo delle amministrazioni pubbliche. Strumenti operativi e percorsi di innovazione, GIUSEPPONI (a cura di), 2009, Giuffrè editore, Milano, 351ss.

[25] Trasparenza e democraticizzazione costituiscono i principi cardine della riforma dell’assetto della PA. Essi hanno avuto il merito di superare la visione monistica dell’amministrazione stessa, aprendola alla partecipazione dei sggetti amministrati. Mentre l’ottica di una gestione imprenditoriale ha lo scopo di migliorare l’utilizzo delle risorse pubbliche, ottimizzando i risultati e riducendo gli sprechi. Cfr. CORRADINO, Diritto amministrativo, Cedam, Padova, 2009, 134.

[26] DENTE, L’evoluzione dei controlli negli anni ’90, in Lav. nelle PA, 1999, 1199.

[27] CASETTA, op. cit., 288-289.

[28] RICCI, op. cit., 355-356.

[29] Il tema del controllo gestionale, in termini diversi, è stato già affrontato negli anni ’80, mediante la richiesta agli enti di valutazioni economiche, preventive e consuntive, poste in relazione con i livelli di funzionalità delle attività degli enti. Cfr. la legge del 1983, n. 131.

[30] DONNO, Dal controllo preventivo di legittimità al controllo sulla gestione. Il referto, in Enti pubblici n. 1/2005, 915.

[31] Norma sostituita con il d. lgs. 165/2001.

[32] TONETTI, I controlli interni nelle autonomie locali e funzionali, in Giornale di diritto amministrativo, n. 8, 2004, 915.

[33] Il riferimento è, in particolare, all’art. 3 quater del d. lgs. N. 163/1995, convertito in legge n. 273/1995, tuttavia, successivamente soppresso ex art. 10 del d. lgs. 286/1999.

[34] BARBIERO, Le nuove strutture deputate al controllo di gestione ed alla valutazione della dirigenza nell’organizzazione amministrativa regionale, in Regione e Governo locale nn. 4-5-6/1996, 259-266, 270-276.

[35] Legge 15 marzo 1997, n. 59 (Bassanini) e legge 15 maggio 1997, n. 127 (Bassanini bis).

[36] In tal senso si era già orientata la legge del 1990, n. 142, la quale ha previsto l’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia. Interventi tutti del legislatore tesi a favorire un contatto diretto tra ente e cittadino.

[37] Fino agli anni ’90 nelle aziende della  PA il sistema dei controlli è stato caratterizzato principalmente dai controlli esterni. Nei primi anni del secolo, poi, si è imposto un modello in cui l’attività del controllore è transitato dal mero riscontro della legittimità formale, a modelli ulteriori di controllo in grado di fornire elementi per valutare il modo di amministrare il denaro pubblico. Oggi, il controllo interno rappresenta una vera e propria filosofia gestionale che guida l’intera azione amministrativa dell’ente. Cfr. GIUSEPPONI, op. cit., 372.

[38] ZANETTI, Il controllo di gestione nell’ente locale, in Nuova rassegna, 2005.

[39] GAROFOLI, op. cit., 313.

[40]Il riferimento è, in particolare, alle riforme Cassese e Bassanini che preludono alla riforma costituzionale del 2001. In primis, la riforma Cassese, si colloca in un periodo, il biennio 1993-1994, in cui si avvicendarono i due Governi Amato e Ciampi. Il Ministro della funzione pubblica, a quel tempo, era Sabino Cassese. In questo periodo, l’azione governativa si sviluppa su tre fronti: impostazione delle linee generali di razionalizzazione, modifiche settoriali coerenti con il disegno generale e semplificazione di procedimenti tramite delegificazione. Lo scopo era quello di realizzare amministrazioni più efficienti e controlli più efficaci. In particolare, circa la materia dei controlli, il Ministro Cassese, ha fornito un contributo essenziale ed innovativo. In particolare, ha ridotto drasticamente i controlli di legittimità, introducendo, come loro surrogato, i controlli interni per valutare l’efficienza e l’efficacia dell’agere amministrativo. Ha individuato, all’interno delle PP. AA., strutture specifiche a cui demandare la funzione di controllo, id est i nuclei di valutazione. La successiva riforma Bassanini, poi, ha tentato di favorire il passaggio da una amministrazione stato centrica ad un’amministrazione plurale, sviluppandone il livello di articolazione funzionale e organizzativa. Ha, peraltro, differenziato i controlli in relazione a ciascuna PA introducendo, altresì, un comitato tecnico-scientifico presso la presidenza del Consiglio dei Ministri.

[41] Può essere utile qui ricordare brevemente che la Corte dei conti è stata istituita nel 1862 con legge n. 800, che ha disposto l’abrogazione delle istituzioni di controllo di Torino, Firenze, Palermo e Napoli. L’organismo de quo controllava l’operato delle amministrazioni statali, assicurava il rispetto della legge da parte del potere esecutivo, impediva il compimento di una cattiva gestione e di sperperi, indossando le vesti di una magistratura indipendente. Storica fu l’affermazione di Cavour “…l’assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”. Successivamente, ad una responsabilità esclusivamente contabile si affiancava una responsabilità amministrativa. Nel tempo diviene un organo esterno, indipendente, che effettua un controllo preventivo di legittimità sugli atti delle pubbliche amministrazioni, sub specie di conformità degli atti alle norme giuridiche. Con l’entrata in vigore della Costituzione, la Corte dei conti viene etichettata quale organo ausiliario del Parlamento e del Governo, sebbene indipendente rispetto agli stessi. Data la sua indipendenza, i suoi atti non sono configurabili come provvedimenti amministrativi e, pertanto, non sono impugnabili dinanzi al g.a.. Ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 100 Cost. la Corte dei conti esercita un controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e partecipa, altresì, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti, in posizione di indipendenza. Il legislatore, con legge n. 20 del 1994, attribuisce alla Corte dei conti il potere di svolgere, mediante programmi annuali e criteri predefiniti, il controllo sulla gestione, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria riducendo, altresì, il numero di atti sottoposti al sindacato preventivo di legittimità. Effettua, peraltro, verifiche sul funzionamento dei controlli interni alle singole amministrazioni ed accerta l’avvenuto raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla legge da parte degli organi di controllo, valutando costi, modi e tempi di svolgimento dell’azione amministrativa, nel rispetto dell’INTOSAI (Associazione internazionale delle istituzioni superiori di controllo). La legge costituzionale n. 3 del 2001 è intervenuta ad abrogare gli artt. 130 e 125 della Costituzione, decretando la fine dei controlli preventivi di legittimità sugli atti degli enti territoriali e rafforzando il ruolo affidato alla Corte dei conti sulle autonomie locali. Successivamente, nel 2003 la c.d. legge La Loggia, nel dare attuazione alla riforma del titolo V della Costituzione, ha introdotto nuove disposizioni ad applicazione immediata, al fine di rafforzare ulteriormente il ruolo della Corte stessa. Sul tema, cfr. PALUMBI, Dal controllo di gestione al controllo collaborativo istituzionale sulla gestione della Corte dei conti, in Amministrazione e contabilità, 2004, 680; BATTAGLIA, Il controllo sulla gestione da parte della Corte dei conti secondo la legge n. 20/1994. La sentenza della Corte costituzionale n. 29/1995, in Nuova rassegna n. 8/1999, 789-792.

[42] Configurazione attribuita dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 417 del 2005. Nell’ottica della Corte costituzionale il controllo effettuato dalla Corte dei conti ha natura collaborativa, perché non si tratta di un controllo guida, esercitato da un organo statale che agisce in posizione sovraordinata e con effetti impeditivi dell’azione amministrativa, bensì di un controllo effettuato in cooperazione con gli altri organi della stessa comunità su cui si interviene e con le stesse finalità. La Corte dei conti interagisce attraverso un’attività di verifica e un’operazione di stimolo a processi di autocorrezione di modelli organizzativi e di moduli operativi non idonei, sotto il profilo della regolarità e, contemporaneamente, incongrui e diseconomici circa i risultati.

[43] NATALINI, Controlli interni: la terza riforma, in www.astrid.eu.

[44] Il riferimento è alla legge 26 marzo 2010, n. 42 che ha  convertito il decreto legge del 25 gennaio 2010, n. 2.

[45] Si vedano MANGANARO, L’azione di classe in un’amministrazione che cambia, in www.giustamm.it; CAPUTI JAMBRENGHI, Buona amministrazione tra garanzie interne e prospettive comunitarie (a proposito di “class action all’italiana”), in www.giustamm.it.

[46] Espressione mutuata dall’ordinamento giuridico anglosassone che, per primo, ha previsto tale azione collettiva. L’azione de qua, infatti, rende il nostro ordinamento giuridico più vicino al sistema di common law, che inquadra la class action come azione di sicura matrice collettiva, proposta da uno o più soggetti di una medesima categoria, i cui effetti si producono  ultra partes, estendendosi a tutti coloro che si trovino nella stessa situazione dell’attore. Tuttavia, i singoli che non intendano avvantaggiarsi degli effetti prodotti dall’azione collettiva possono esercitare l’opt-out right per evitare la produzione degli effetti in capo a loro.

[47] Lo scopo è quello di garantire una elevata performance delle strutture pubbliche nei confronti di tutta la collettività.

[48] MANGANARO, op. cit..

[49] NATALINI, Controlli interni: la terza riforma, in www.astrid.eu.

[50] Si pensi, in particolare, alla circostanza di aver attribuito ai tecnici e all’opinione pubblica il ruolo di ponderazione ha certamente rafforzato l’opzione voice. Ciò indica che il suo impatto dipende essenzialmente dal grado in cui questa azione di “protesta” troverà ascolto a livello politico.

[51] I principi ispiratori della riforma Brunetta sono avvinti da un legame eziologico in quanto, talvolta, l’impiego di uno di essi si anima di significato soltanto se applicato insieme ad un altro. In particolare, per garantire l’effettività del controllo, è necessario soddisfare due esigenze, ovverosia il livello essenziale delle prestazioni nonché l’accessibilità effettiva all’andamento della P.A. Orbene, in concreto, ciò viene garantito dal binomio performance-trasparenza e, quindi, dal collegamento tra performance, rectius ciclo di gestione della performance, e trasparenza.

[52] RAMBAUDI, La valutazione scalda i motori, in Italia oggi, 17/09/2010, 36.

[53] Quest’ultima introduce un controllo ab externo di vigilanza e potrebbe essere ricondotto nell’alveo delle amministrazioni indipendenti.

[54] TARASCO, Amministrazione di qualità e controlli efficaci: un’endiadi possibile per la nuova azione per l’efficienza?, in www.rivistacortedeiconti.it, n. 1/2010.

[55] Ex art. 6 del D.lgs. n. 150 del 2009.

[56] MORIGI, Il decreto Brunetta e la sua applicazione negli enti locali. Comuni e province alle prese con misurazioni della performance e trasparenza, in La finanza locale, n. 1 del 2010, 34.

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