L’errore revocatorio è configurabile in ipotesi di omessa pronuncia

Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 6 febbraio 2020, n. 947.

La massima estrapolata:

L’errore revocatorio è configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dalla parte istante o su un’eccezione prospettata dalla controparte, purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima o l’eccezione; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo o dell’eccezione e non di un difetto di motivazione della decisione.

Sentenza 6 febbraio 2020, n. 947

Data udienza 16 gennaio 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4218 del 2018, proposto da
Co. Cu., in proprio e nella qualità di amministratrice della Te. Fe. s.r.l., e Sa. Cu., rappresentati e difesi dagli avvocati An. Ab. e Gi. Lu. Le., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ad. Ca. e Lu. Ci., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 05471/2017, resa tra le parti, concernente la realizzazione di opere edilizie abusive.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis)o;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2020 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati An. Ab. e Gi. Lu. Le.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con ricorso al T.A.R. Campania – Napoli, la sig.ra Co. Cu., in proprio e nella qualità di amministratrice della Te. Fe. s.r.l., e il sig. Sa. Cu. hanno impugnato le ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive nn. 115/2012, 23/2013 e 45/2014 emesse dal Comune di (omissis)o.
Con due successivi ricorsi per motivi aggiunti i sig.ri Cu. hanno esteso l’impugnazione al diniego di permesso in costruire in sanatoria 13/8/2015 n. 28598, al verbale di immissione in possesso in data 6/8/2015, prot. 28138, all’ordinanza di demolizione n. 23/2015, alla diffida a demolire n. 15/2015, alla comunicazione di avvio del procedimento 23/6/2015, prot. 22664.
Il gravame è stato definito con sentenza 15/7/2016, n. 3549, con la quale il Tribunale adito ha dichiarato irricevibile il ricorso introduttivo con riguardo alle ordinanze 115/2012 e 32/2013, lo ha respinto relativamente all’ordinanza n. 45/2014. Ha accolto inoltre i motivi aggiunti per l’effetto annullando l’ordinanza n. 23/2015, la diffida n. 15/2015 e il verbale di immissione in possesso.
La decisione del Tribunale è stata confermata dalla Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato con sentenza 23/11/2017, n. 5471.
Avverso quest’ultima i sig.re Cu. hanno proposto ricorso per revocazione.
Per resistere al ricorso si è costituito in giudizio il Comune di (omissis)o.
Alla pubblica udienza del 16/1/2020 la causa è passata in decisione.
Con un unico articolato motivo di gravame i ricorrenti deducono che l’impugnata sentenza sarebbe inficiata da un evidente errore revocatorio derivante da una cattiva lettura degli atti amministrativi gravati in prime cure.
Difatti il giudice d’appello, condividendo la sentenza di primo grado sulla base del rilievo che quest’ultima “ha correttamente posto in risalto la trasformazione complessiva dell’area sul piano edilizio – urbanistico, facendo discendere da tale presupposto la legittimità della disposta acquisizione, al patrimonio del Comune, dell’intera area di proprietà della società “, e che con riguardo “… alla mancata esatta individuazione dell’area di sedime da acquisire di diritto gratuitamente al patrimonio indisponibile del Comune, area che, nella prospettazione di parte appellante, andava specificata sin dalla ingiunzione a demolire n. 45 del 2014 (l’atto impugnato in primo grado afferma che nel caso di inottemperanza entro i 90 giorni verrà acquisita di diritto l’area di 49.320 mq.), il che inficerebbe l’ingiunzione a demolire, va richiamata la giurisprudenza di questa Sezione (v., tra le altre, la sentenza n. 894 del 2013), per la quale la mancata esatta identificazione dell’area che viene acquisita ai sensi del citato art. 31, comma 3, cit., non costituisce ragione di illegittimità dell’ingiunzione a demolire…”, sarebbe incorso in un duplice errore di fatto e conseguentemente in un’omessa pronuncia su capo decisivo e autonomo della controversia.
E invero:
a) l’acquisizione, come adempimento conseguente all’ordinanza di demolizione, sarebbe stata collegata dal Comune all’ordinanza 32/2013;
b) l’ordinanza n. 45/2014 individua 10 abusi che coprono una superficie di circa 1.500 mq e si limita a rilevare che l’area di servizio “nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive” da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, è pari a circa 49.320 mq;
c) in sede d’appello la suddetta quantificazione dell’area da acquisire gratuitamente è stata espressamente contestata dai sig.ri Cu. col motivo sub I/C.
Orbene, una corretta lettura dell’ordinanza n. 45/2014 avrebbe condotto il giudice di secondo grado a rilevare come questa avesse un contenuto sostanzialmente confermativo dell’ordinanza n. 32/2013, ovvero ad accogliere la citata censura sub I/C con cui era stata contestata l’immotivata quantificazione dell’area da acquisire in 49.320 mq.
L’impugnata sentenza d’appello si sarebbe limitata a richiamare la giurisprudenza che esclude la necessità di fornire l’individuazione catastale dei beni da demolire, mentre ciò che rilevava era il riferimento contenuto nella detta ordinanza alla elevata superficie da acquisire al patrimonio comunale.
In definitiva il giudice di secondo grado non avrebbe dato risposta alle censure formulate omettendo di verificare “la caducazione degli atti acquisitivi del 2015, e dunque non qualificando neanche l’effetto espansivo autonomo dell’ordinanza n. 45/2014 se ed in quanto posta a base dell’acquisizione dell’intera proprietà della ricorrente”.
Sotto un distinto profilo rescindente la sentenza risulterebbe, inoltre, viziata in quanto il giudice:
a) avrebbe aderito alla tesi secondo cui i vari interventi posti in essere non avrebbero dovuto essere considerati atomisticamente, bensì nel loro complesso;
b) non si sarebbe avveduto del fatto che il Comune con l’ordinanza di demolizione n. 45/2014 avrebbe sanzionato opere dal medesimo realizzate (pozzetti e recinzioni) con conseguente illegittima acquisizione delle relative aree.
Le doglianze così sinteticamente riassunte non meritano accoglimento.
In punto di diritto occorre premettere che l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti:
1) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato;
2) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
3) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 14/5/2015 n. 2431).
L’errore deve, inoltre, apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. Stato, Sez. IV, 13/12/2013, n. 6006).
Pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale – senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell’errore di fatto di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo (Cons. Stato, Sez. III, 24/5/2012, n. 3053) – esso, invece, non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo semmai ad un ipotetico errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione, la quale altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall’ordinamento (Cons. Stato, Sez. V, 20/2/2018, n. 1078; 11/12/2015 n. 5657; Sez. IV, 5/1/2017, n. 13; 26/8/2015 n. 3993; Sez. III, 8/10/2012, n. 5212; Sez. IV, 28/10/2013, n. 5187; Sez. V, 11/6/2013, n. 3210; Sez. VI, 2/2/2012, n. 587; Cass. Civ., Sez. I, 23/1/2012, n. 836; Sez. II, 31/3/2011, n. 7488).
L’errore revocatorio è, inoltre, configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dalla parte istante o su un’eccezione prospettata dalla controparte, purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima o l’eccezione; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo o dell’eccezione e non di un difetto di motivazione della decisione (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 5/4/2016, n. 1331; 22/1/2015, n. 264; Sez. IV, 1/9/2015, n. 4099).
A questo particolare riguardo giova puntualizzare, in termini generali, che l’errore revocatorio di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c., che legittima la revocazione della sentenza impugnata per omesso esame di un motivo di ricorso, sussiste non già per il solo fatto che dalla motivazione della sentenza risulti non esaminato un motivo pur presente, naturalmente senza l’enunciazione di alcunché che possa giustificare in iure tale mancato esame, bensì allorquando la sentenza riveli che l’omesso esame del motivo è stato frutto di un’erronea convinzione circa l’inesistenza del motivo stesso, che invece era incontestabilmente presente nel ricorso, al contrario di quanto supposto dal giudice.
Ammettendo, infatti, la revocazione anche nel primo caso, si censurerebbe una mera dimenticanza e dunque la violazione dell’art. 112 c.p.c. per error in procedendo ovvero in iudicando, e non la falsa supposizione dell’inesistenza di un fatto processuale invece esistente (Cass. Civ., Sez. VI, ord. 6/3/2019, n. 6455 e sent. 6/6/2016, n. 11530).
Esula poi dal perimetro dell’errore revocatorio quello che si sostanzia nell’erronea interpretazione delle norme di diritto disciplinanti la fattispecie controversa (Cons. Stato, Sez. V, 25/9/2014, n. 4828; Sez. VI, 11/9/2013, n. 4505).
Alle luce dei consolidati principi poc’anzi illustrati, deve escludersi che nel caso di specie sussistano gli elementi tipici dell’errore di fatto che giustificano e legittimano la proposizione del ricorso per revocazione.
Parte ricorrente denuncia, infatti, l’errore a suo dire commesso dall’organo giudicante:
a) nel percepire l’esatto tenore e contenuto dell’ordinanza di demolizione n. 45/2014;
b) nel ritenere corretta la tesi secondo cui dovesse effettuarsi una valutazione complessiva dei vari abusi commessi;
c) nell’omettere di pronunciare sul motivo con cui era stata contestata la legittimità dell’ordinanza n. 45/2014 a cagione della sproporzione tra abuso commesso e entità dell’area da acquisire al patrimoni comunale.
Tuttavia nessuno dei tre pretesi errori ha natura revocatoria.
Il primo, ove anche sussistente, si risolverebbe in un inesatto o incompleto apprezzamento del materiale probatorio, ovvero in un’anomalia del procedimento logico di interpretazione dello stesso e quindi in un’ipotesi che semmai darebbe luogo ad un ipotetico errore di giudizio, non censurabile, giusta quanto più sopra osservato, mediante la revocazione.
Il secondo si sostanzia in un’inammissibile critica al giudizio espresso dal giudice d’appello, che mira a introdurre artatamente una sorta di inesistente giudizio di terzo grado.
Non sussiste, infine, l’ipotizzato errore per omessa pronuncia.
E invero, il giudice d’appello dopo aver riassunto tutte le censure prospettate e ritenuto opportuno trattarle congiuntamente, ha affermato, per quanto qui rileva, quanto segue: “Se dunque la valutazione delle condotte, e la verifica di legittimità degli atti adottati dal Comune, nel particolare contesto sopra descritto, non andava, e non va, “frazionata e segmentata” in tanti abusi distinti quanti sono i comportamenti posti in essere, e quanti sono gli interventi di alterazione dello stato dei luoghi effettuati senza titolo, e nel corso degli anni, sull’area de qua, vincolata paesaggisticamente, ma richiede prima di tutto di essere apprezzata nella sua unitarietà e in una visione di insieme, anche secondo un criterio che tenga conto della continuazione delle condotte illecite; perde peso il profilo di censura imperniato sulla eccessività e sproporzione della disposta acquisizione, al patrimonio del Comune, della intera area di circa 50.000 mq”.
Contrariamente a quanto parte ricorrente sostiene l’organo giudicante ha, quindi, espressamente vagliato il motivo di censura di sui si lamenta l’omesso esame.
Il ricorso va, in definitiva, dichiarato inammissibile.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del Comune intimato, liquidandole forfettariamente in complessivi Euro 4.000/00 (quattromila), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Diego Sabatino – Presidente FF
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Dario Simeoli – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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