Corte di Cassazione, civile, Sentenza|12 ottobre 2022| n. 29862.

Domanda limitata ab origine all’accertamento del solo an debeatur

È consentito alla vittima di un fatto illecito proporre una domanda limitata ab origine all’accertamento del solo an debeatur, con riserva di accertamento del quantum in un separato giudizio. La condanna provvisionale di cui all’articolo 278 del Cpc può essere pronunciata – su istanza di parte – anche nel giudizio introdotto da una domanda limitata all’accertamento del solo an debeatur”. Il giudice civile, adito in sede di rinvio ai sensi dell’articolo 622 del Cpp con una domanda di condanna generica, può condannare il responsabile al pagamento di una provvisionale, ai sensi dell’articolo 278 del Cpc.

Sentenza|12 ottobre 2022| n. 29862. Domanda limitata ab origine all’accertamento del solo an debeatur

Data udienza 12 luglio 2022

Integrale

Tag/parola chiave: Pubblica amministrazione – Danno civile all’immagine – Evasione fiscale costituente reato – Danno arrecato tanto dal pubblico funzionario quanto da persona estranea all’amministrazione stessa – Possibili letture ermeneutiche di una norma processuale – Lettura dotata di sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza di legittimità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente di Sezione

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sezione

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 22455/2019 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), e (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro tempore, COMMISSIONE DELL’UNIONE EUROPEA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
e
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
e da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente successivo –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro tempore, COMMISSIONE DELL’UNIONE EUROPEA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
e contro
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 2420/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 13/06/2019;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/07/2022 dal Consigliere MARCO ROSSETTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA, che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso di (OMISSIS); l’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale di (OMISSIS) con rimessione della causa alla Terza Sezione civile per la decisione dei restanti motivi;
uditi gli Avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) per la ricorrente (OMISSIS);
udito l’Avvocato dello Stato (OMISSIS) per il Ministero dell’Economia, l’Agenzia delle Dogane e la Commissione Europea.

FATTI DI CAUSA

1. Premessa per una migliore comprensione dei fatti di causa.
L’importazione della frutta da Paesi extracomunitari e’ soggetta a regole intese a favorire la concorrenza.
Tra queste regole, all’epoca dei fatti che diedero origine al presente giudizio, vi erano le seguenti:
-) contingentamento delle importazioni (ciascun importatore non puo’ importare piu’ del quantitativo autorizzato);
-) ripartizione delle quote di mercato tra importatori gia’ da tempo attivi sul mercato (c.d. “operatori tradizionali”, cui e’ assegnato il 92% delle importazioni) e operatori presenti sul mercato da minor tempo (c.d. “nuovi arrivati”, cui e’ assegnato I’8% delle importazioni);
-) i dazi cui e’ soggetta l’importazione di frutta variano in funzione del Paese di provenienza e della qualita’ dell’importatore: sono piu’ bassi – sino ad arrivare a zero – per la frutta proveniente dall’Africa e dai Caraibi, nonche’ per la frutta importata dai “nuovi arrivati”;
-) l’importatore di frutta per beneficiare del dazio agevolato deve munirsi di un titolo (“certificato AGRIM”) rilasciato dall’allora Ministero del commercio con l’estero; i certificati indicavano quantita’ e provenienza della frutta che l’importatore era autorizzato ad acquistare, e non potevano essere ceduti ad altri importatori.
2. Il fatto.
Nel 2003 (OMISSIS) e (OMISSIS) vennero rinviati a giudizio dinanzi al Tribunale di Verona con l’accusa di avere, eludendo la normativa suddetta, evaso il pagamento di dazi sull’importazione di oltre 5.000 tonnellate di banane, beneficiando di esenzioni e riduzioni non dovute, e commettendo cosi’ il delitto di contrabbando di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, articoli 292, 295 e 301.
Secondo l’ipotesi accusatoria, il contrabbando si sarebbe consumato – detto in estrema sintesi e semplificando alquanto – con le seguenti modalita’:
a) la societa’ (OMISSIS) s.r.l. (avente la veste di “operatore tradizionale” e della quale (OMISSIS) era direttore generale) acquistava all’estero ingenti partite di banane;
b) il prodotto veniva poi rivenduto solo formalmente, e sempre all’estero, a societa’ compiacenti aventi la veste di “nuovi arrivati”;
c) queste ultime importavano il prodotto in Italia beneficiando del dazio ridotto ad esse accordato;
d) una volta importato il prodotto in Italia, gli importatori (sempre formalmente) le rivendevano alla (OMISSIS).
L’intera operazione sarebbe stata solo cartolare, ed era intermediata dall’altro imputato, (OMISSIS), dominus di fatto della societa’ (OMISSIS) s.r.l..
3. Nel giudizio si costituirono parti civili la Commissione Europea, il Ministero dell’economia e l’Agenzia delle Dogane, chiedendo la condanna degli imputati al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio.
4. Nel 2005 il Tribunale di Verona assolse (OMISSIS) e condanno’ (OMISSIS).
La sentenza venne appellata dalle parti civili e da (OMISSIS).
Con sentenza 24.11.2011 n. 1252 la Corte d’appello di Venezia rigetto’ l’appello delle parti civili, e dichiaro’ estinto per prescrizione il reato ascritto a (OMISSIS), confermando le statuizioni civili a suo carico.
La suddetta sentenza d’appello fu impugnata per cassazione dalle parti civili e da (OMISSIS).
Ambedue tali impugnazioni vennero accolte e la sentenza d’appello fu cassata con rinvio – ai soli effetti civili – dalla III Sezione penale di questa Corte (sentenza 29.8.2016 n. 35575).
La suddetta sentenza ritenne che:
a) il giudice di merito avrebbe dovuto previamente stabilire se la condotta degli imputati costituisse un mero “abuso del diritto”, come tale penalmente irrilevante; oppure una dolosa violazione delle norme doganali;
b) il giudice di merito aveva motivato in modo illogico e contraddittorio la decisione di ritenere indimostrato che (OMISSIS) avesse volutamente aggirato la normativa doganale.
4. Riassunto il giudizio a cura delle parti civili, con sentenza 13.6.2019 n. 2420 la Corte d’appello di Venezia in sede civile ritenne che:
a) (OMISSIS) e (OMISSIS) avevano consapevolmente tenuto una condotta qualificabile non gia’ come “abuso del diritto” (ex articolo 10 bis L. 212/00), ma una condotta intesa a violare in modo diretto la normativa sui dazi: una condotta, dunque, astrattamente qualificabile come reato ed idonea a far sorgere l’obbligo di risarcimento del danno in favore delle parti civili;
b) le prove raccolte dimostravano che gli accordi tra la societa’ (OMISSIS) e (OMISSIS) avevano lo scopo di “dissimulare la vendita di certificati AGRIM”, e consentire in tal modo alla societa’ (OMISSIS) di importare frutta in misura eccedente la quantita’ ad essa assegnata, per di piu’ non pagando alcun dazio, oppure pagandone uno minore del dovuto.
5. La Corte d’appello condanno’ di conseguenza (OMISSIS) e (OMISSIS) in via generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio.
La condanna venne pronunciata in favore del solo Ministero della finanze, sul presupposto che mancasse la prova del danno subito dalla Commissione Europea.
La Corte d’appello condanno’ altresi’ (OMISSIS) e (OMISSIS), in solido, al pagamento in favore del Ministero d’una provvisionale di Euro 1.580.950,15, pari alla meta’ della differenza tra il dazio dovuto e quello effettivamente riscosso, oltre gli interessi nella misura legale dal 31.12.2000 alla sentenza (13.6.2019).
6. La sentenza d’appello pronunciata in sede di rinvio e’ stata impugnata per cassazione da (OMISSIS) e (OMISSIS), con separati ricorsi fondati il primo su otto ed il secondo su nove motivi, ed in via incidentale condizionata dal Ministero dell’economia, dall’Agenzia delle Dogane e dalla Commissione Europea.
7. Il ricorso venne assegnato alla Terza Sezione Civile e discusso nella camera di consiglio del 22.9.2021, prima della quale (OMISSIS) deposito’ una memoria illustrativa.
All’esito, con ordinanza 6.12.2021 n. 38711, la III Sezione di questa Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinche’ ne valutasse l’assegnazione alle Sezioni Unite: cio’ sul presupposto che alcuni dei motivi del ricorso principale (il 3, il 6, il 7 e l’8) ponevano questioni di massima di particolare importanza.
8. (OMISSIS) e l’Avvocatura dello Stato hanno depositato memoria. Il Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso di (OMISSIS), e l’accoglimento del terzo motivo del ricorso di (OMISSIS), con rimessione alla Terza Sezione civile del ricorso, per l’esame degli altri motivi.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Inammissibilita’ del ricorso proposto da (OMISSIS).
Preliminarmente va dichiarata l’irrilevanza della rinuncia al mandato depositata dal difensore di (OMISSIS), giusta la previsione di cui all’articolo 85 c.p.c., e l’inammissibilita’ del ricorso proposto da (OMISSIS), per tardivita’.
La ricorrente principale ( (OMISSIS)), infatti, ha notificato il proprio ricorso per cassazione anche a (OMISSIS), nel domicilio da questi eletto presso l’indirizzo PEC del proprio difensore.
Da tale momento, pertanto, e’ iniziato a decorrere per (OMISSIS) il doppio termine di cui agli articoli 370 e 371 c.p.c. per la proposizione del ricorso incidentale.
Tale termine tuttavia e’ vanamente scaduto, in quanto:
-) (OMISSIS) ha ricevuto la notifica del ricorso principale il 17 luglio 2019;
-) il termine per la proposizione del ricorso incidentale sarebbe dunque scaduto il 26 agosto 2019;
-) per effetto della sospensione feriale di 31 giorni la suddetta data fu prorogata ope legis al 26 settembre 2019;
-) il ricorso incidentale di (OMISSIS), tuttavia, e’ stato proposto soltanto l’11 gennaio 2020.
1.1. La tardivita’ del ricorso incidentale di (OMISSIS) non e’ evitata, ne’ sanata, dalla circostanza che questi abbia proposto la propria impugnazione non gia’ contro l’impugnante principale, ma aderendo alle censure di quest’ultima, e dunque proponendo un ricorso incidentale adesivo.
Questa Corte, infatti, da oltre quarant’anni viene ripetendo che “il principio dell’unicita’ del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo”, e dunque nel rispetto dei termini di cui agli articoli 370 e 371 c.p.c.. Altrettanto pacifica e’ l’affermazione che tale principio “non trova deroghe” nel caso di impugnazione di tipo adesivo che venga proposta dal litisconsorte dell’impugnante principale e persegue il medesimo intento di rimuovere il capo della sentenza sfavorevole ad entrambi (Sez. 3, Ordinanza n. 36057 del 23/11/2021, Rv. 663183 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 18696 del 22/09/2015, Rv. 636708 – 01; Sez. L, Sentenza n. 5695 del 20/03/2015, Rv. 634799 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 26622 del 06/12/2005, Rv. 586075 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 21829 del 17/10/2007, Rv. 599244 – 01; Sez. U, Sentenza n. 11219 del 13/11/1997, Rv. 509833 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 6873 del 23/07/1994, Rv. 487481 – 01; Sez. L, Sentenza n. 5601 del 09/06/1990, Rv. 467589 – 01; Sez. L, Sentenza n. 4860 del 29/07/1986, Rv. 447562 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 616 del 22/01/1983, Rv. 425361 – 01).
2. Il primo motivo del ricorso principale.
Col primo motivo (OMISSIS) lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, la violazione degli articoli 538 e 539 c.p.p., o, in subordine, dell’articolo 278 c.p.c..
Nella illustrazione del motivo si sostiene che il giudice di rinvio non poteva condannare (OMISSIS) al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio, per due indipendenti ragioni:
-) sia perche’ il giudice civile in sede di rinvio ai sensi dell’articolo 622 c.p.p. non puo’ pronunciare una condanna provvisionale;
-) sia perche’ in ogni caso l’articolo 278 c.p.c., non consente la condanna del convenuto al pagamento di una provvisionale, se l’attore non abbia formulato espressa domanda di quantificazione del danno.
Con la memoria depositata ai sensi dell’articolo 378 c.p.c., e poi ancora nella discussione orale, la difesa della ricorrente principale ha corroborato il motivo in esame con un ulteriore argomento di diritto: quello secondo cui il giudice di merito non avrebbe potuto pronunciare una condanna generica (ne’, di conseguenza, condannare (OMISSIS) al pagamento d’una provvisionale) perche’ la legge consente, a chi abbia formulato una domanda di condanna, di limitare in corso di causa la propria richiesta all’an debeatur; non consentirebbe, invece, di formulare ab origine una domanda di condanna generica, come invece avevano fatto nel giudizio di merito le Amministrazioni oggi controricorrenti.
A sostegno di tale allegazione ha invocato il decisum di Sez. 3, Ordinanza n. 17984 del 3.6.2022, secondo cui “l’attore che chiede la tutela giurisdizionale di una situazione giuridica soggettiva (…) non puo’ proporre la domanda limitando la richiesta di tutela ad una condanna generica, cioe’ al solo an debeatur e fare riserva di introdurre un successivo giudizio per l’accertamento del quantum, a somiglianza di quanto l’articolo 278 c.p.c., consente all’attore di chiedere nel corso del processo in cui abbia proposto la domanda di condanna in modo pieno”.
2.1. Il motivo e’ infondato in tutte le censure in cui si articola.
2.2. Sulla ammissibilita’ di domande di condanna limitate all’an debeatur. Infondata, in primo luogo, e’ l’allegazione secondo cui il codice di rito non consentirebbe la proposizione di domande di condanna limitate all’an debeatur.
Tale questione e’ stata gia’ affrontata e risolta da queste Sezioni Unite, con orientamento dal quale non v’e’ motivo di discostarsi – ed al quale, anzi, si intende qui dare continuita’ -, secondo cui la domanda di danno puo’ essere legittimamente rivolta ab origine ad ottenere una condanna generica, senza che sia necessario il consenso del convenuto.
Tale facolta’ costituisce infatti espressione del principio di libera scelta delle forme di tutela offerte dall’ordinamento. Spettera’ poi al convenuto, ove lo ritenga, formulare domanda riconvenzionale di accertamento dell’insussistenza del danno: domanda che, se proposta, ribaltera’ sull’attore l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare del danno.
Questo principio e’ stato piu’ volte affermato sia da queste Sezioni Unite (in particolare da Sez. U, Sentenza n. 12103 del 23/11/1995, che rappresento’ la sentenza capostipite, e poi da Sez. U, Sentenza n. 390 del 2.6.2000; Sez. U, Sentenza n. 390 del 2.6.2000; Sez. U, Sentenza n. 108 del 10.4.2000); sia da tutte le sezioni semplici di questa Corte: dalla Prima Sezione (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 16776 del 24.5.2022); dalla Seconda Sezione (ex multis, Sez. 2, Ordinanza n. 19873 del 20.6.2022; Sez. 2, Ordinanza n. 10323 del 29.5.2020; Sez. 2, Sentenza n. 4962 del 04/04/2001); dalla Terza Sezione (ex multis, Sez. 3, Ordinanza n. 4653 del 22.2.2021; Sez. 3, Sentenza n. 25113 del 24.10.2017); dalla Sezione Lavoro (ex multis, Sez. L, Sentenza n. 2262 del 16.2.2012; Sez. L, Sentenza n. 15154 del 5.7.2007).
E se principio analogo non risulta mai affermato dalla giurisprudenza della Sezione Tributaria, cio’ e’ dovuto solo all’ovvia considerazione che il processo tributario e’ un giudizio c.d. “di impugnazione-merito”, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva, sicche’ il giudice non puo’ limitarsi ad annullare l’atto dell’Amministrazione, ma deve esaminare nel merito la pretesa fiscale o il diniego del rimborso e determinarne la corretta misura: con il che resta di norma esclusa la possibilita’ di una sentenza limitata all’an debeatur o di una condanna generica (ex multis, Sez. 5, Ordinanza n. 27875 del 31.10.2018).
2.3. A fronte di questo orientamento cosi’ risalente e consolidato, tale da costituire un vero e proprio “diritto vivente”, non puo’ essere condiviso il precedente di questa Corte invocato dalla difesa della ricorrente (e cioe’ l’ordinanza 17984/22, cit.), per quattro ragioni.
2.3.1. In primo luogo perche’, in quella decisione, l’affermazione del principio secondo cui l’attore non potrebbe chiedere ab origine una condanna generica costituisce un mero obiter dictum. E’ la stessa ordinanza, infatti, ad affermare che la domanda introduttiva del primo grado di quel giudizio non era affatto limitata al solo an debeatur. Il principio di cui si discorre, pertanto, e’ stato affermato in relazione ad un caso in cui l’applicazione di esso non era necessaria.
2.3.2. In secondo luogo alla decisione invocata dalla difesa della ricorrente non e’ possibile dare continuita’, in virtu’ del principio della necessaria stabilita’ nell’interpretazione delle norme processuali.
Questo principio, ripetutamente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, puo’ cosi’ riassumersi: sebbene nel nostro sistema processuale non viga la regola dello stare decisis, nondimeno la stabilita’ dell’interpretazione delle norme processuali e’ un valore immanente nell’ordinamento, a salvaguardia della certezza del diritto ed a tutela del diritto di difesa.
Pertanto quando l’interpretazione di una norma processuale sia consolidata, essa puo’ essere abbandonata solo in due casi: o in presenza di “forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo” (cosi’, testualmente, Sez. U, Sentenza n. 13620 del 31/07/2012; nonche’, nello stesso senso ed ex multis, Sez. U, Sentenza n. 927 del 13.1.2022; Sez. U, Ordinanza n. 2736 del 2.2.2017); oppure quando l’interpretazione consolidata “risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, atteso che l’affidabilita’, prevedibilita’ e uniformita’ dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo” (cosi’ Sez. U, Ordinanza n. 23675 del 06/11/2014, Rv. 632844 – 01).
Corollario di quanto esposto e’ che quando una norma processuale puo’ teoricamente essere interpretata in due modi diversi, ambedue compatibili con la lettera della legge, e’ doveroso preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilita’ di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione.
2.3.3. In terzo luogo, il principio invocato dalla ricorrente non puo’ essere condiviso perche’ il nostro ordinamento costituzionale e processuale e’ imperniato sui principi di liberta’ del diritto di azione (articolo 24 Cost.), e la liberta’ del diritto di azione si manifesta ovviamente con la facolta’ dell’attore di stabilire, in totale liberta’, cosa chiedere, quanto chiedere e quando chiedere, con l’unico limite del divieto di abuso del diritto.
2.3.4. Infine, al precedente invocato dalla difesa della ricorrente non puo’ essere data continuita’, in quanto l’interpretazione da esso preferita non e’ compatibile con vari principi stabiliti dal diritto comunitario, ovvero da norme interposte ai sensi dell’articolo 10 Cost..
E’ noto che l’articolo 6, comma 3, del Trattato sull’Unione Europea (c.d. “Trattato di Lisbona”, ratificato e reso esecutivo con L. 2 agosto 2008, n. 130), stabilisce che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali (…) fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Per effetto di tale norma i principi della CEDU sono stati “comunitarizzati”, e sono divenuti “principi fondanti dell’Unione Europea”.
Tra questi principi la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea da tempo include quello di certezza del diritto.
Il principio della certezza del diritto secondo la Corte di giustizia discende dall’articolo 6 CEDU; e’ recepito dall’ordinamento comunitario dall’articolo 6 TUE, ed ha – fra gli altri – due corollari: il principio di tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei diritti quesiti (per l’affermazione di questi principi, ex multis, si vedano in particolare le tre decisioni pronunciate da Corte giust. CE, 14 aprile 1970, Bundesknappschaft, in causa C-68/69, in particolare p. 7; Corte giust. 7 luglio 1976, IRCA, in causa C-7/76, e Corte giust. CE 16 giugno 1998, Racke, in causa C-162/96).
In campo processuale i principi affermati dalla Corte di Lussemburgo sono stati ripresi e sviluppati dalla Corte EDU, la quale ne ha tratto il corollario che e’ impedito ai giudici degli Stati membri interpretare le norme processuali in modo che conducano all’inammissibilita’ d’una domanda giudiziale, quando tali interpretazioni siano “troppo formalistiche”, adottate “a sorpresa” e niente affatto chiare ed univoche (Corte EDU, sez. I, 15.9.2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, p.p. 42-44; Corte EDU, sez. II, 18.10.2016, Miessen c. Belgio, in causa n. 31517/12, p.p. 71-73).
In particolare, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che costituisce violazione dell’articolo 6 CEDU l’adozione d’una interpretazione della norma processuale che comporti per l’individuo la perdita della possibilita’ di adire un Tribunale, senza che tale effetto potesse essere previsto ex ante (ex multis, Corte EDU, 20 dicembre 2016, Ljaskaj c. Croazia, in causa n. 58630/11); che la legge processuale “deve essere accessibile ai giustiziabili e da loro prevedibile quanto agli effetti” (Corte EDU 27.1.2017, Paradiso e Campanelli c. Italia, in causa n. 25358/12, p. 169); che ogni soggetto deve essere in grado di prevedere le conseguenze che possono derivare da un determinato atto (cosi’ Corte EDU 7.6.2012, Centro Europa 7 s.r.l. e Di Stefano c. Italia, in causa n. 38433/09, p. 140; nello stesso senso Corte EDU 17.5.2016, Kare’csony ed al. c. Ungheria, in cause nn. 42641/13 e 44357/13); che non possono imporsi cause di inammissibilita’ non previste dalla legge, se non indispensabili (Corte EDU, sez. I, 24.4.2008, Kemp c. Lussemburgo, in causa n. 17140/05); che, infine, i giudizi degli Stati membri devono osservare per quanto possibile orientamenti stabili, sicche’ non e’ loro consentito esercitare nel corso del tempo le loro competenze in modo da ledere imprevedibilmente situazioni e rapporti giuridici soggettivi (Corte giust. UE, 15 Febbraio 1986, Duff, in causa C-63/93).
Alla luce di tali principi deve concludersi che la regola di diritto invocata dalla ricorrente (“non e’ ammissibile una domanda ab origine limitata all’an debeatur”) non puo’ essere seguita perche’ non espressamente prevista dalla legge, imprevedibile dai litiganti e non indispensabile.
2.4. Sui restanti profili di censura del primo motivo di ricorso.
La deduzione secondo cui il giudice civile, pronunciando in sede di rinvio ai sensi dell’articolo 622 c.p.p., non potrebbe pronunciare una condanna provvisionale e’ infondata in diritto.
Il giudizio di rinvio ex articolo 622 c.p.p., si svolge dinanzi al giudice civile con le regole del processo civile (Sez. 3 -, Sentenza n. 517 del 15/01/2020, Rv. 656811 – 01): e fra queste regole rientra l’articolo 278 c.p.c., che consente per l’appunto la condanna del convenuto al pagamento d’una provvisionale.
2.5. Anche in questo caso non e’ decisivo, in senso contrario, il precedente invocato dalla difesa della ricorrente (e cioe’ Sez. 3, Sentenza n. 11117 del 28/05/2015, non massimata sul punto, secondo cui la condanna provvisionale ex articolo 278 c.p.c., non puo’ essere pronunciata quando l’azione “ha ad oggetto l’accertamento di responsabilita’ del convenuto e la sua condanna generica al risarcimento dei danni”, perche’ in tal caso “esula dal giudizio la concreta quantificazione del danno risarcibile”).
Tale orientamento non puo’ essere condiviso per due concorrenti ragioni.
2.5.1. Innanzitutto, negare la possibilita’ d’una condanna provvisionale nel giudizio limitato all’an debeatur e’ conclusione non sostenibile sul piano della logica formale, perche’ eleva il presupposto della norma (la richiesta di condanna generica) a fattore impeditivo dell’applicazione di essa.
Ed infatti il presupposto per la pronuncia d’una condanna provvisionale e’ la formulazione d’una domanda di condanna generica. Se, infatti, fosse formulata una richiesta di condanna estesa al quantum, la concessione d’una provvisionale non avrebbe senso ne’ utilita’, dal momento che il processo si chiuderebbe comunque con una sentenza – di accoglimento o di rigetto definitiva.
Negare, dunque, la possibilita’ di pronunciare la condanna provvisionale quando l’attore abbia limitato la propria richiesta all’an debeatur, significherebbe interpretare abrogativamente l’articolo 278 c.p.c..
A seguire quel ragionamento, infatti, mai tale norma potrebbe essere applicata, perche’ delle due l’una: o l’attore ha chiesto una condanna piena, ed allora la provvisionale non puo’ essere pronunciata perche’ il giudice dovra’ decidere su tutta la domanda; oppure e’ stata chiesta una condanna generica, ed allora la provvisionale non potrebbe essere pronunciata perche’ la causa non ha ad oggetto il quantum.
Quanto, poi, all’osservazione secondo cui in caso di domanda limitata all’an debeatur la provvisionale non potrebbe essere pronunciata perche’ la quantificazione del danno non forma oggetto del giudizio, e’ agevole replicare che proprio perche’ la quantificazione del danno non forma oggetto del giudizio, e’ accordata al giudice la potesta’ di pronunciare una condanna sommaria, nei limiti in cui, anche a prescindere dall’attivita’ assertiva delle parti, la prova del danno sia comunque rifluita nel giudizio. Basti pensare al caso – a mo’ d’esempio – del danno non patrimoniale da uccisione d’un prossimo congiunto, ipotesi nella quale, anche in assenza di prove specifiche, non potra’ di norma dubitarsi dell’esistenza d’un danno non inferiore ad un certo ammontare.
2.5.2. La seconda ragione per la quale non puo’ essere condiviso il principio invocato dalla ricorrente e’ che l’articolo 278 c.p.c., subordina la condanna generica alla circostanza che sia “accertata l’esistenza d’un diritto, ma (sia) ancora controversa la quantita’ della prestazione dovuta” (articolo 278 c.p.c., comma 1). La norma, dunque, non impone affatto che la “controvertibilita’” del quantum debba sussistere nel medesimo giudizio in cui si e’ chiesta la condanna generica.
La quantita’ della prestazione dovuta infatti puo’ essere qualificata come “ancora controversa” sia quando la liquidazione del danno sia richiesta nel medesimo giudizio in cui e’ stata pronunciata la condanna generica; sia quando la quantificazione del danno e’ stata riservata dall’attore ad un futuro e separato giudizio.
La formula che subordina la concessione della provvisionale alla circostanza che sia “ancora controversa la quantita’ della prestazione dovuta” sta a significare che sul quantum debeatur e’ mancata una decisione, ma non che quella decisione dovra’ emettersi nello stesso giudizio in cui si e’ chiesta o pronunciata la condanna generica.
L’articolo 278 c.p.c., pertanto, anche sul piano letterale non solo non esclude, ma anzi impone di ritenere ammissibile la richiesta – e la pronuncia – d’una condanna provvisionale nel giudizio incardinato al solo fine di ottenere una pronuncia generica sull’an debeatur.
2.6. La deduzione, infine, secondo cui l’articolo 278 c.p.c., non consentirebbe la condanna del convenuto al pagamento di una provvisionale, se l’attore non abbia formulato espressa domanda di quantificazione del danno, e’ infondata in punto di fatto.
Le Amministrazioni oggi controricorrenti, infatti, nel riassumere il giudizio dinanzi al giudice civile in sede di rinvio avevano espressamente chiesto la condanna dei convenuti al pagamento d’una provvisionale: in tal modo hanno non solo formulato la “istanza” di cui all’articolo 278 c.p.c., comma 2, ma manifestato implicitamente la volonta’ di chiedere una aestimatio anche parziale del danno.
2.7. Il primo motivo di ricorso va dunque rigettato, in applicazione dei seguenti principi di diritto:
-) “E’ consentito alla vittima di un fatto illecito proporre una domanda limitata ab origine all’accertamento del solo an debeatur, con riserva di accertamento del quantum in un separato giudizio”.
-) “La condanna provvisionale di cui all’articolo 278 c.p.c., puo’ essere pronunciata.
– su istanza di parte – anche nel giudizio introdotto da una domanda limitata all’accertamento del solo an debeatur”.
-) “Il giudice civile, adito in sede di rinvio ai sensi dell’articolo 622 c.p.p., con una domanda di condanna generica, puo’ condannare il responsabile al pagamento di una provvisionale, ai sensi dell’articolo 278 c.p.c.”.
2. Il secondo motivo del ricorso principale.
Col secondo motivo (OMISSIS) prospetta sia il vizio di nullita’ della sentenza, sia quello di omesso esame d’un fatto decisivo.
La censura investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto sussistente la prova del fatto che l’odierna ricorrente evase od eluse, con dolo, il pagamento dei dazi doganali.
Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene come accennato due censure.
2.1. Con una prima censura la ricorrente sostiene che la Corte d’appello ha trascurato di esaminare un “fatto decisivo”, rappresentato da un parere diramato da una Direzione Generale della Commissione Europea.
In questo parere si sosteneva che il Regolamento comunitario disciplinante la materia (Regolamento 2362/98) andasse interpretato nel senso che esso non vietava agli importatori “nuovi arrivati” ne’ di avvalersi di societa’ terze per il trasporto della merce importata; ne’ – una volta immessa la merce nel mercato interno – di venderla ad un “operatore tradizionale”; ne’, infine, di stipulare tali contratti di vendita prima ancora dell’importazione.
Sostiene la ricorrente che tale documento, se fosse stato esaminato, avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a ritenere che la condotta di (OMISSIS) fu coincidente con l’interpretazione che della normativa sui dazi diede la stessa Commissione Europea: e dunque non poteva ritenersi “dolosa” la condotta d’un operatore commerciale, conforme all’opinione d’un organismo comunitario.
2.2. Con una seconda censura la ricorrente sostiene che, anche a voler ammettere l’ipotesi che la Corte d’appello abbia effettivamente esaminato e valutato il documento suddetto, in ogni caso la motivazione con cui e’ stato ritenuto sussistente l’elemento soggettivo dell’illecito deve ritenersi inesistente o comunque soltanto apparente. La sentenza impugnata, infatti, si limita a rinviare su questo punto alla decisione di primo grado, decisione nella quale tuttavia non era contenuto alcun accertamento dell’elemento soggettivo del reato, tanto e’ vero che (OMISSIS) in primo grado fu assolta con una formula in ius concepta (e cioe’ “perche’ il fatto non costituisce reato”).
2.3. Sulla prima censura.
La prima censura del secondo motivo del ricorso principale e’ infondata.
In primo luogo essa e’ infondata perche’ il documento del cui omesso esame la ricorrente si duole risulta essere stato preso in esame dalla Corte d’appello a pagina 27, terzo capoverso, della sentenza impugnata.
In secondo luogo essa e’ infondata perche’ il “fatto controverso” fra le parti era l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato, e questo fatto e’ stato effettivamente esaminato dalla Corte d’appello.
L’omesso esame di un documento, per contro, non integra gli estremi del vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5, dal momento che il giudice non e’ obbligato a dare conto di ogni e ciascun elemento di prova acquisito nel corso dell’istruttoria, ma puo’ limitarsi ad indicare solo quelli sui quali ha fondato il proprio convincimento.
In terzo luogo la censura e’ infondata perche’ il documento del cui omesso esame la ricorrente si duole comunque non era decisivo.
In quel documento, infatti, si esprimeva l’opinione che l’importatore “nuovo arrivato” potesse legittimamente importare merci avvalendosi di mezzi altrui, e rivenderle – una volta importate – ad un “operatore tradizionale”.
Ma la Corte d’appello ha condannato (OMISSIS) non gia’ per il solo fatto di avere venduto le banane importate ad un “operatore tradizionale”, ma in base al diverso presupposto che quella vendita dissimulava una vendita di certificati AGRIM, e dunque una pratica abusiva.
2.4. Sulla seconda censura.
La seconda censura e’ del pari infondata.
Secondo queste Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014) la nullita’ della sentenza per vizio di motivazione puo’ affermarsi soltanto in due casi eccezionali: quando la motivazione manchi del tutto “sinanche come segno grafico”; oppure quando sia oggettivamente e insuperabilmente incomprensibile.
Nel caso di specie non ricorre alcuno dei suddetti presupposti. Da un lato, infatti, sarebbe arduo affermare che una sentenza di 38 pagine sia “nulla per mancanza di motivazione sinanche come segno grafico”; dall’altro lato la sentenza impugnata ha dato ampiamente conto degli elementi di fatto sui quali ha fondato il giudizio di colpevolezza.
La Corte d’appello ha ritenuto che la societa’ di cui (OMISSIS) era direttore generale importava banane in eccesso rispetto ai contingenti ad essa assegnati, avvalendosi di societa’ prestanome, e cosi’ facendo pagava dazi agevolati cui non aveva diritto.
Questa motivazione e’ ben chiara, e lo stabilire poi se essa sia stata corretta nel merito e’ questione di puro fatto, esulante dal perimetro del giudizio di legittimita’.
3. Il terzo motivo del ricorso principale.
Col terzo motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli articoli 1227, 2056, 2059 e 2697 c.c..
Il motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto di poter pronunciare una condanna generica a carico dei convenuti ed a favore del Ministero delle finanze.
3.1. Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene cinque censure tanto processuali quanto sostanziali, che questa Corte – nell’esercizio del proprio potere-dovere di qualificazione ed interpretazione degli atti processuali ritiene siano cosi’ riassumibili:
a) la Corte d’appello non poteva pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, perche’ le parti civili avevano a tal riguardo formulato domande generiche;
b) la Corte d’appello non poteva pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, perche’ le parti civili non avevano indicato le prove di cui intendevano avvalersi nel futuro giudizio sul quantum debeatur;
c) la Corte d’appello aveva accolto (anche) la domanda di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, danno concepibile solo con riferimento alle condotte di soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione, ma non con riferimento alle condotte di soggetti estranei ad essa;
d) la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno presuppone l’accertamento in concreto dell’esistenza d’un danno, accertamento che nel caso di specie era mancato;
e) il danno sofferto della pubblica amministrazione in caso di evasione fiscale non coincide con il tributo evaso, se non nei casi in cui l’erario, in conseguenza del fatto illecito, abbia perduto la possibilita’ di recuperare l’imposta con gli ordinari strumenti a tal fine previsti dall’ordinamento.
3.2. Prima di esaminare tali doglianze nel merito, va premesso che le censure appena riassunte, sub (a), (b) e (c), non possono ritenersi gia’ esaminate e decise dall’ordinanza di rimessione, nonostante in essa si dica delle prime due che sono “smentite” dagli atti; e della terza che “appare inammissibile”. Infatti il dispositivo dell’ordinanza di rimessione non contiene altra statuizione che la rimessione alle SS.UU.; ne’ vi e’ una statuizione espressa di rigetto delle due censure suddette.
Pertanto le affermazioni di “inammissibilita’” di cui alle pp. 26-28 dell’ordinanza di rimessione debbono ritenersi delle mere valutazioni preliminari ai fini della motivazione sulla rilevanza della questione di massima, questione che riguardava un profilo del motivo logicamente subordinato a quelle valutazioni.
3.3. Sulla prima censura (genericita’ delle domande).
L’allegazione secondo cui la Corte d’appello non avrebbe potuto pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, poiche’ i danneggiati avevano formulato domande generiche, e’ infondata.
La prima ragione e’ che le parti civili provvidero ad indicare il tipo di danni che assumevano di aver subito: turbamento della normale attivita’ dell’amministrazione; perdita del tributo; costi dell’attivita’ di accertamento del fatto-reato; danno all’immagine; danno da sviamento di funzione.
3.4. Sulla seconda censura (inammissibilita’ della domanda per mancata indicazione dei mezzi di prova).
La ricorrente allega poi che la domanda di condanna generica al risarcimento del danno si sarebbe dovuta dichiarare inammissibile, perche’ non corredata dall’indicazione dei mezzi di prova di cui le parti danneggiate avevano intenzione di avvalersi nel successivo giudizio di liquidazione, a dimostrazione dell’entita’ del danno sofferto.
Tale censura e’ infondata.
Infatti ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno e’ sufficiente che siano dimostrati la colpa e il nesso causale, mentre e’ sufficiente che sia anche solo probabile l’esistenza del danno.
Se dunque, ai fini dell’accoglimento della domanda generica, e’ necessario che il danno sia soltanto “probabile”, l’unica prova che il danneggiato deve offrire e’ quella della “probabilita’” del danno, non della sua certezza.
Ma se ai fini della condanna generica e’ sufficiente la dimostrazione della “probabilita’” del danno, non si comprende a qual fine e per qual frutto l’attore avrebbe l’onere, nel giudizio sull’an, di indicare analiticamente i mezzi di prova di cui intende avvalersi nel futuro e separato giudizio sul quantum.
La prova analitica del quantum debeatur andra’ fornita nel relativo e successivo giudizio, sicche’ a pretendere che essa debba essere offerta gia’ nel giudizio sull’an si perverrebbe al paradosso di obbligare la parte, a pena di inammissibilita’ della domanda, ad indicare mezzi di prova irrilevanti, perche’ non aventi ad oggetto una questione devoluta al giudicante.
Quel che e’ sufficiente, nel giudizio limitato all’an debeatur, e’ che l’attore fornisca la prova della probabile esistenza d’un danno, prova che ovviamente puo’ essere fornita con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici. Infine, non pertinente e’ la giurisprudenza invocata dalla ricorrente a p. 17, nota 13, del ricorso.
In tutti e quattro i precedenti ivi richiamati, infatti, non si afferma affatto che una domanda di condanna generica sia inammissibile se non corredata dall’indicazione della prova del quantum debeatur, ma si afferma il diverso principio secondo cui ai fini d’una condanna generica e’ sufficiente che l’attore alleghi e provi la mera “potenzialita’ dannosa” del fatto illecito. In particolare:
-) Sez. L, Sentenza n. 1631 del 22/01/2009, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da perdita di chance;
-) Sez. 3, Sentenza n. 25638 del 17.12.2010, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da distruzione dell’azienda commerciale;
-) Sez. 2, Ordinanza n. 6235 del 14.3.2018, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da violazione delle norme sulle distanze legali: qui, per di piu’, la domanda di condanna generica venne rigettata per difetto di “allegazione” del danno, sicche’ il riferimento alla prova costituiva una motivazione ad abundantiam;
-) Sez. 2, Sentenza n. 21326 del 29.8.2018, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da inadempimento d’un contratto preliminare.
3.4.1. In talune decisioni della Corte, ivi compresa l’ultima di quelle appena elencate, si legge la tralatizia affermazione secondo cui “l’articolo 278 c.p.c., (…) non esonera l’attore, all’atto della rimessione della causa al collegio, dall’onere di (…) indicare i mezzi di prova dei quali intenda avvalersi per la determinazione del “quantum”, secondo la disciplina generale, con la conseguenza che, in difetto di tali adempimenti, il giudice deve pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, rigettandola se non adeguatamente provata” (cosi’ Sez. 1, Sentenza n. 5736 del 23/03/2004, e, prima ancora, Sez. 2, Sentenza n. 5193 del 28/05/1999).
Questo principio tuttavia non e’ pertinente rispetto al caso che qui ci occupa.
Esso venne infatti affermato dalla sentenza capostipite (Cass. 5193/99, cit.), in un caso in cui l’attore, al momento della rimessione della causa al collegio, aveva chiesto si’ una condanna generica del convenuto, ma nella forma d’una sentenza non definitiva, con rimessione della causa sul ruolo per il prosieguo del giudizio ai fini dell’accertamento del quantum.
E’ dunque ovvio che, in quel caso, si pretese dall’attore la formulazione anche delle richieste istruttorie, giusta la previsione dell’articolo 189 c.p.c..
Lo stesso principio, pero’, non potrebbe valere quando l’attore chieda che il quantum debeatur sia accertato in un separato giudizio, e non nel prosieguo del medesimo giudizio.
3.5. Sulla terza censura (insussistenza d’un danno all’immagine dell’Amministrazione).
Con una terza censura la ricorrente ha dedotto che la Corte d’appello avrebbe illegittimamente accolto (anche) la domanda di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, danno non concepibile con riferimento alle condotte di soggetti estranei alla pubblica amministrazione. Il motivo e’, in primo luogo, inammissibile per estraneita’ alla ratio decidendi. La sentenza impugnata, infatti, non ha preso affatto posizione sull’esistenza d’un “danno all’immagine”, sicche’ il motivo censura una statuizione che nella sentenza impugnata manca.
3.5.1. Benche’ tale rilievo sia assorbente, osserva il Collegio ad abundantiam che la censura sarebbe comunque infondata.
Il principio di diritto invocato dalla ricorrente, secondo cui soltanto soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione potrebbero essere condannati a risarcire il danno all’immagine sofferto da quest’ultima, non e’ infatti corretto. Il danno civile e’ atipico: chiunque puo’ arrecarlo a chiunque, e con qualunque condotta. Cosi’, ad esempio, il funzionario di fatto, il calunniatore, il millantatore, l’appaltatore infedele, il concessionario di pubblici servizi disonesto, pur non appartenendo alla pubblica amministrazione, con le loro condotte ben potrebbero arrecare un danno all’immagine di quest’ultima. L’esistenza di un danno all’immagine della p.a. e’ un giudizio analitico a posteriori che dipende dalla natura della condotta illecita e dalle sue conseguenze, e non un giudizio sintetico a priori che dipenda dalla qualita’ soggettiva del responsabile.
Che un reato doganale possa nuocere all’immagine della p.a. e’ stato del resto gia’ ammesso dalla giurisprudenza penale di questa Corte (Sez. 5 pen., Sentenza n. 12777 del 22.3.2019, in motivazione, p. 8.3; Sez. 3 pen., Sentenza n. 35457 del 1/10/2010, Rv. 248632 – 01), cosi’ come in ripetute occasioni si e’ ammesso che il reato commesso dall’extraneus alla p.a. possa recare nocumento all’immagine di questa, suscitando nei cittadini la sensazione dell’inefficienza o della collusione di essa col reo (cosi’ Sez. 3, Sentenza n. 11752 del 17/03/2008, Rv. 239464; Sez. 3, n. 35868 del 1.10.2002, Rv. 222512; nonche’ Sez. 2 pen., Sentenza n. 150 del 4/01/2013, Rv. 254675, e Sez. 1 pen., Sentenza n. 10371 del 18/10/1995, Rv. 202736, ambedue con riferimento al danno all’immagine causato da una associazione criminale all’amministrazione comunale nel cui territorio si era insediata ed aveva operato).
3.5.2. Ne’ rileva, ai fini qui in esame, il disposto del Decreto Legge 1 luglio 2009, n. 78, articolo 17, comma 30 ter, (c.d. “lodo Bernardo”), ovvero la contestata norma la quale, nel novellare le regole sulla responsabilita’ erariale dei pubblici dipendenti, stabili’ che “procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, articolo 7”, e quindi soltanto nel caso di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Quale che sia, infatti, l’interpretazione che si volesse adottare di tale norma (se, cioe’, essa escluda o meno la responsabilita’ dei pubblici dipendenti nei confronti della p.a. per i danni all’immagine causati in conseguenza di reati comuni), quel che e’ certo e’ che: a) quella norma disciplina unicamente i limiti della responsabilita’ per danno erariale, la quale ha ambito e presupposti diversi dalla responsabilita’ civile; b) essa disciplina unicamente la responsabilita’ dei pubblici funzionari, non dei privati; c) il secolare canone ermeneutico inclusio unius, exclusio alterius, impone di ritenere che l’espressa limitazione della responsabilita’ dei pubblici funzionari verso la p.a. non possa estendersi anche ai soggetti ad essa estranei.
In tal senso si e’ gia’ espressa la Corte costituzionale con la sentenza 15.12.2010 n. 355, stabilendo che l’articolo 17, comma 30 bis, Decreto Legge cit. e’ norma la quale ha inteso limitare unicamente la responsabilita’ dei pubblici funzionari, e limitarla solo nell’ambito della giurisdizione contabile.
3.6. Sulla quarta censura (inammissibilita’ della condanna generica in assenza di prova del danno).
Con una quarta censura, come accennato, la ricorrente deduce che la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno presuppone l’accertamento in concreto dell’esistenza d’un danno, accertamento che nel caso di specie era mancato.
La censura e’ infondata in quanto, come gia’ detto, presupposto della condanna generica ex articolo 278 c.p.c., e’ la mera probabilita’ del danno, non la prova certa della sua esistenza.
Questa Corte, da molti anni e con orientamento costante, viene ripetendo che dinanzi ad una domanda di condanna generica al risarcimento del danno “l’attivita’ e la indagine del giudice (…) e’ principalmente diretta ad acquisire la certezza giuridica sui punti pregiudiziali dell’illiceita’ e della colpa e, quindi, della responsabilita’.
La pronunzia positiva sull’an debeatur si deve fondare sulla certezza giuridica dell’illiceita’ della condotta della persona contro la quale la condanna stessa viene pronunziata, e, quindi, sulla responsabilita’ di questa, sulla prova di un fatto idoneo, sia pure potenzialmente, a produrre conseguenze dannose, secondo un apprezzamento anche di semplice probabilita’ o di verosimiglianza dell’evento (…), nel senso che per la particolare natura dell’illecito sia legittimo presumere il verificarsi di dette conseguenze, la cui valutazione, in concreto sara’ poi compiuta in sede di liquidazione, e sull’esistenza del nesso di causalita’ fra il comportamento illecito dell’agente ed il danno” (cosi’, testualmente, ovvero Sez. 1, Sentenza n. 2507 del 09/08/1962).
E questa mera “potenzialita’ dannosa” del fatto illecito, per altrettanto pacifica giurisprudenza, prescinde dalla misura e anche dalla stessa concreta esistenza del danno, come gia’ stabilito da queste Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 8545 del 03/08/1993; nello stesso senso, ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 21326 del 29/08/2018, Rv. 650031 – 01; Sez. 2 -, Ordinanza n. 6235 del 14/03/2018, Rv. 647851 – 01; Sez. L, Sentenza n. 1631 del 22/01/2009, Rv. 606294 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 14/07/2006, Rv. 591479 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9709 del 18/06/2003, Rv. 564383 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6257 del 02/05/2002, Rv. 554050 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2724 del 25/02/2002, Rv. 552505 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 10453 del 01/08/2001, Rv. 548638 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 14454 del 06/11/2000, Rv. 541416 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 985 del 14/05/1962, Rv. 251626 – 01).
3.7. Sulla quinta censura (possibilita’ di qualificare come “danno aquiliano”, per l’erario, l’evasione d’un tributo).
Con la quinta censura del secondo motivo la ricorrente, come accennato, lamenta che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che nei reati tributari il danno patito dall’erario coincida col tributo evaso.
Deduce la ricorrente che la commissione d’un reato tributario non fa venir meno la perdita del credito erariale; che l’amministrazione finanziaria puo’ sempre agire per la riscossione coattiva del tributo evaso; che pertanto l’esistenza d’un danno risarcibile potrebbe ammettersi soltanto se l’amministrazione deduca e dimostri che, in conseguenza del reato, abbia perduto irrimediabilmente il proprio credito tributario.
3.7.1. La quinta censura del terzo motivo del ricorso principale e’ una delle due che l’ordinanza 38711/21 ha ritenuto meritevole di essere sottoposta a queste Sezioni Unite.
A tale riguardo l’ordinanza di rimessione riferisce innanzitutto dell’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte. Segnala che secondo Cass. pen. 5554/91 il “danno da reato”, di cui all’articolo 185 c.p., derivante da un reato tributario, non coincide col tributo evaso, se non a due condizioni: che a causa del reato l’erario abbia perduto il credito tributario, e che il reo sia persona diversa dal debitore d’imposta.
Secondo Cass. pen. 52752/14, invece, la astratta possibilita’ di ravvisare il danno da reato nel tributo evaso deve ammettersi sempre, e non soltanto nel caso di non coincidenza tra reo e contribuente.
L’ordinanza di rimessione prosegue chiedendosi se, ad exemplum di quanto comunemente ammesso in tema di concorso dell’azione contrattuale di danno con quella aquiliana, non possa parimenti accordarsi all’erario la facolta’ di scelta tra la riscossione coattiva del tributo e l’ordinaria azione di danno mediante costituzione di parte civile, e come debba ripartirsi nel relativo giudizio di danno l’onere della prova che il credito tributario sia andato perduto in conseguenza della commissione del reato.
L’ordinanza di rimessione conclude la propria illustrazione formulando – con riferimento a questo terzo motivo di ricorso – tre quesiti cosi’ riassumibili:
1) se e a quali condizioni il danno causato da una evasione fiscale coincida con l’imposta evasa;
2) se, in caso di evasione fiscale, l’amministrazione finanziaria abbia l’onere di procedere all’accertamento ed alla riscossione coattiva del tributo, o possa scegliere di agire ai sensi dell’articolo 2043 c.c., nei confronti del responsabile civile;
3) se nel giudizio di risarcimento del danno proposto dall’erario nei confronti dell’evasore o del suo correo debba essere l’amministrazione a dover dimostrare di aver perduto senza colpa il proprio credito in conseguenza del fatto illecito, oppure se debba essere il convenuto a dimostrare che l’erario non ha perduto il proprio credito tributario, ovvero l’ha perduto per propria colpa.
Tali questioni saranno esaminate separatamente.
3.7.2. (A) Evasione fiscale e azione aquiliana: il rapporto tra erario e contribuente.
Il debito d’imposta e’ una obbligazione scaturente dalla legge, ai sensi dell’articolo 1173 c.c.. Non mette conto in questa sede seguire le sottilissime distinzioni dottrinarie sulla natura dell’atto d’accertamento o della autodichiarazione nella tassonomia delle fonti dell’obbligazione. Per l’articolo 1173 c.c., le fonti dell’obbligazione possono essere solo tre: il contratto, il fatto illecito e la legge: e poiche’ l’obbligazione tributaria ovviamente non sorge ne’ da contratti, ne’ da fatti illeciti, e’ giocoforza inquadrarla nella terza.
Questa obbligazione ha ad oggetto una somma di denaro, ed e’ dunque una obbligazione pecuniaria.
Il creditore di una obbligazione pecuniaria, in caso di inadempimento, conserva il diritto di esigere coattivamente il proprio credito, ed acquista quello di pretendere il risarcimento del danno (articolo 1218 c.c.).
Diritto alla prestazione e diritto al risarcimento del danno formano oggetto di due obbligazioni diverse: la prima nascente dalla legge, la seconda dall’inadempimento della prima.
Il creditore d’una obbligazione pecuniaria non perde il credito sol perche’ il debitore sia inadempiente: il debito di denaro e’ infatti debito di cosa generica, e genus numquam perit.
Il creditore d’una obbligazione pecuniaria, se questa resti inadempiuta, resta creditore e il suo credito conserva intatti fonte, struttura, contenuto e mezzi di tutela.
“Danno” in senso tecnico, invece, e’ il pregiudizio causato dall’inadempimento, non la prestazione dovuta. Ed infatti nelle obbligazioni pecuniarie il creditore che domandi la condanna del debitore non esercita un’azione di danno, ma un’azione di adempimento. La stessa esecuzione forzata non e’ un “risarcimento” per il creditore, ma la coattiva realizzazione di quel risultato non garantito spontaneamente dal debitore.
Dalla distinzione tra prestazione dovuta e risarcimento del danno discende che l’imposta non versata dall’evasore non costituisce – di norma – per l’erario un “danno” in senso tecnico.
In primo luogo perche’ il credito accertato e non adempiuto spontaneamente non e’ perduto, ma se ne potra’ esigere l’esecuzione forzata.
In secondo luogo perche’ l’amministrazione finanziaria dispone d’una vasta gamma di strumenti sostanziali, processuali e cautelari per tutelare le proprie ragioni e riscuotere i propri crediti tributari. L’esistenza di tali strumenti, e la concreta possibilita’ di ricorrervi, impedira’ di norma all’erario di pretendere a titolo di risarcimento del danno l’importo dell’imposta evasa. Gli atti di imposizione o di accertamento compiuti dall’amministrazione finanziaria le consentiranno infatti di procedere alla riscossione coattiva del tributo, e soddisfarsi sul patrimonio del debitore ai sensi dell’articolo 2740 c.c..
In terzo luogo, perche’ l’amministrazione finanziaria e’ titolata ad emettere provvedimenti idonei ad acquistare ex se l’efficacia del titolo esecutivo, ed il creditore munito di titolo esecutivo senza utilita’ ne pretenderebbe un secondo, sicche’ un’azione di danno sarebbe inammissibile per difetto di interesse.
In definitiva, nei rapporti tra l’erario ed il contribuente che abbia commesso un reato tributario, il capitale dovuto da quest’ultimo a titolo d’imposta costituisce l’oggetto dell’obbligazione tributaria, non un “danno” che a quella vada ad aggiungersi ai sensi dell’articolo 1218 c.c..
Dunque in tutti i casi in cui l’amministrazione non abbia perduto il diritto di agire esecutivamente nei confronti del debitore, e questi abbia un patrimonio capiente, il danno causato dal reato non puo’ ravvisarsi nell’importo del tributo evaso.
3.7.3. Si e’ gia’ detto che il debito del contribuente verso l’erario e’ una obbligazione pecuniaria.
L’evasione del tributo costituisce dunque inadempimento d’una obbligazione pecuniaria, e l’inadempimento d’una obbligazione pecuniaria puo’ generare un solo tipo di danni patrimoniali: quelli disciplinati dall’articolo 1224 c.c..
Nell’ordinamento tributario gli interessi di mora formano oggetto di una disciplina ad hoc, che deroga all’articolo 1224 c.c., comma 1, quanto a saggio applicabile e decorrenza (Decreto Legislativo 24 settembre 2015, n. 159, articolo 13, comma 3).
Anche il credito per interessi moratori, tuttavia, deve essere obbligatoriamente liquidato e riscosso secondo le forme della riscossione delle imposte. E l’esistenza di tale obbligo esclude che di tale credito si possa chiedere la liquidazione al giudice penale, a titolo di risarcimento del danno da reato, per le stesse ragioni gia’ esposte al p. precedente.
3.7.4. Non puo’ tuttavia escludersi che l’evasione fiscale possa causare all’erario un pregiudizio ulteriore o diverso rispetto a quello ristorato dagli interessi di mora, e per il quale non sia possibile ricorrere agli strumenti di riscossione coattiva previsti dal diritto tributario.
Tali ipotesi, avendo ad oggetto un danno diverso od ulteriore rispetto a quello ristorato ope legis dagli interessi di mora, rientrano nell’ipotesi del “maggior danno” di cui all’articolo 1224 c.c., comma 2.
Infatti l’articolo 1224 c.c., comma 2, e’ espressione d’un precetto generale. Pertanto in assenza di norme che ad esso deroghino espressamente e’ applicabile anche alle obbligazioni tributarie, come ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 4131 del 20.2.2009; Sez. 5, Sentenza n. 14909 del 28.6.2007; Sez. 5, Sentenza n. 10783 del 11.5.2007; Sez. 5, Sentenza n. 17919 del 6.9.2004; Sez. 5, Sentenza n. 2087 del 04/02/2004). Quale possa essere nel caso concreto questo “maggior danno” non e’ ovviamente possibile stabilire a priori. Esso potra’ sussistere – ad esempio allorche’ in presenza di forti fenomeni inflazionistici l’Amministrazione alleghi e dimostri che la tardiva riscossione del tributo le abbia impedito di adottare adeguate misure per salvaguardare il valore reale del proprio credito; oppure allorche’ l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilita’ giuridica o di fatto di riscuotere il credito erariale, per decadenza od altra causa (beninteso, sempre che non ricorrano le condizioni per ritenere prorogato il dies a quo del termine di decadenza, come stabilito in tema di dazi doganali da Corte giust. UE, 16 luglio 2009, in cause C-124/08 e C125/08, Gilbert Snauwaert e altri, e come gia’ ritenuto da questa Corte: Sez. 5 -, Sentenza n. 25979 del 15/10/2019, Rv. 655445 – 01).
Va pero’ escluso che il “maggior danno” di cui si discorre possa ritenersi in re ipsa ed identificarsi nel c.d. “danno funzionale” (e cioe’ nel “turbamento dell’attivita’ amministrativa” conseguito all’attivita’ di accertamento dell’evasione).
L’attivita’ di accertamento e’ infatti una delle funzioni per le quali gli uffici dell’amministrazione finanziaria sono costituiti e finanziati, e non puo’ ritenersi “danno” ex articolo 1218 c.c., lo svolgimento proprio di quell’attivita’ per la quale una struttura amministrativa e’ costituita.
Un “maggior danno” ex articolo 1224 c.c., comma 2, derivante dalla commissione d’un reato tributario, potra’ dunque ammettersi solo a condizione che l’amministrazione deduca e dimostri l’esistenza d’uno specifico pregiudizio, che sia conseguenza immediata e diretta dell’illecito (articolo 1223 c.c.), ulteriore o diverso rispetto a quello costituito dal costo della propria normale attivita’ istituzionale (come gia’ ritenuto dalle Sezioni penali di questa Corte: in tal senso, Sez. 5 pen., Sentenza n. 3555 del 1.2.2022; Sez. 3, Sentenza n. 52752 del 19.12.2014).
3.7.4.1. Le conclusioni che precedono ricevono indiretta conferma dall’evoluzione del quadro normativo.
Il Decreto Legge 31 dicembre 1996, n. 669, articolo 6, (convertito nella L. 28 febbraio 1997, n. 30) stabili’ come dovesse effettuarsi il risarcimento spontaneo del danno, nell’ambito del processo penale per reati tributari, chiarendo che degli importi a tal fine versati dovesse “tenersi conto” nella liquidazione dell’imposta dovuta in base all’accertamento tributario.
Tale norma suscito’ in parte della dottrina la convinzione che in presenza d’un reato tributario, il “danno da reato” di cui all’articolo 185 c.p., consistesse per l’appunto nell’imposta evasa.
La norma, tuttavia, ebbe vita breve, dal momento che fu successivamente abrogata dal Decreto Legislativo n. 10 marzo 2000, n. 74, articolo 25, comma 1, lettera m), e sostituita dalla introduzione (articolo 14 Decreto Legislativo cit.) d’una circostanza attenuante, rappresentata dallo spontaneo versamento di un importo indicato dallo stesso imputato, a titolo di “equa riparazione” nell’ipotesi in cui il credito erariale fosse andato perduto per prescrizione o decadenza.
Ora, se l’imputato d’un reato tributario e’ ammesso a versare del denaro all’erario a titolo di “equa riparazione” solo quando il credito tributario sia andato perduto, mentre tale facolta’ non e’ prevista nel caso in cui l’erario abbia conservato le proprie ragioni di credito, cio’ dimostra indirettamente che solo nel primo, ma non nel secondo caso, il legislatore ha ritenuto ipotizzabile un “danno da inadempimento”, diverso dall’imposta non versata.
3.7.4.2. Resta solo da aggiungere che, ovviamente, ai fini del problema qui in esame non vengono in rilievo le opinioni contenute nella Circolare del Ministero delle Finanze 4 agosto 2000 n. 154.
Con tale Circolare l’amministrazione finanziaria ha ritenuto di fornire “istruzioni operative” agli Uffici finanziari interpretando il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, e affermando (al p. 7.1) che nel caso di costituzione di parte civile degli uffici finanziari le domande da essi avanzate dinanzi al giudice penale, “per quanto non possano essere rappresentate, di per se’, dall’esercizio della pretesa tributaria, potranno avere come contenuto (…) una richiesta di risarcimento del danno coincidente con il debito tributario”.
Ma va da se’, per un verso, che il concetto di “danno risarcibile” ed i suoi limiti sono stabiliti dalla legge (articolo 1223 c.c. e ss.), e non possono essere modulati per mezzo d’un atto, quale la Circolare, che non e’ fonte del diritto; per altro verso la suddetta Circolare prevede la mera possibilita’, ma non certo la necessita’, che il danno patito dall’erario coincida col tributo evaso. Possibilita’ che, per quanto detto, deve ammettersi nelle residuali ipotesi indicate supra, al p. 3.7.4.
3.7.5. In conclusione, nel rapporto tra il contribuente e l’erario il danno patrimoniale da evasione penalmente rilevante di cui l’amministrazione finanziaria puo’ chiedere il risarcimento e’ necessariamente diverso dall’imposta evasa, dalle sanzioni e dagli interessi moratori previsti dalla legislazione speciale, e potra’ consistere solo negli eventuali ulteriori o diversi pregiudizi sopportati dalla p.a..
Tali pregiudizi rientrano nella previsione di cui all’articolo 1224 c.c., comma 2, non sono in re ipsa e vanno allegati e dimostrati in modo preciso.
Il danno non patrimoniale da evasione penalmente rilevante, ovviamente, resta soggetto alle regole di cui all’articolo 2059 c.c., e articolo 185 c.p..
3.7.6. (B) Evasione fiscale e azione aquiliana: il rapporto tra erario e reo diverso dal contribuente.
Resta da dire dell’ipotesi in cui il reato tributario sia stato commesso da, o col concorso di, persona diversa dal contribuente.
3.7.7. All’esame della questione va premesso che sul punto non sussiste il contrasto tra i due precedenti segnalati dall’ordinanza di rimessione (Cass. pen. 5554/91 e Cass. pen. 52752/14).
La sentenza 5554/91, avente ad oggetto una imputazione per false fatturazioni, si limito’ infatti ad affermare il principio secondo cui il danno patito dall’amministrazione finanziaria in conseguenza d’un reato tributario non coincide col tributo evaso, ma consiste nello “sviamento e turbamento dell’attivita’ della pubblica amministrazione diretta all’accertamento tributario” (Sez. 3 pen., Sentenza n. 5554 del 22/04/1991, Rv. 187973 – 01).
Quella decisione non si occupo’ del problema della coincidenza soggettiva tra autore del reato e debitore d’imposta, e non affermo’ affatto che il danno da reato tributario coincide con l’imposta evasa “quando il soggetto attivo del reato e il soggetto passivo del tributo non coincidono”.
Questa testuale affermazione, mai compiuta dalla sentenza 5554/91, le venne attribuita da una sentenza di merito: quella cassata da Cass. pen. 52752/14.
Nel caso deciso da quest’ultima decisione l’Agenzia delle Entrate si era costituita parte civile nel procedimento penale a carico d’un contribuente che, falsificando le scritture contabili, aveva evaso l’IVA.
Il giudice di merito tuttavia rigetto’ la domanda di danno proposta dall’erario, affermando che un danno si sarebbe potuto risarcire solo “quando il soggetto attivo del reato e il soggetto passivo del tributo non coincidono”, ed attribuendo (erroneamente) tale affermazione a Cass. pen. 5554/91.
La sentenza 52752/14, cassando tale decisione di merito, affermo’ il principio che il danno causato da un reato tributario puo’ in determinati casi consistere anche nell’importo del tributo evaso, quando la commissione del reato abbia avuto per effetto l’impossibilita’ per l’erario di recuperarne l’importo con gli ordinari mezzi di riscossione: e cio’ a prescindere dal fatto che reo e contribuente coincidano o no.(Av
3.7.8. Venendo dunque al merito della questione, occorre muovere dal rilievo che l’erario nei confronti del contribuente vanta un credito pecuniario.
Se dunque l’evasione e’ agevolata o concausata da un terzo, non possono che darsi due possibilita’: o il credito tributario resta esigibile, oppure la sua esazione in conseguenza del reato e’ divenuta impossibile o di difficile realizzo. Nel primo caso non e’ ipotizzabile alcun danno. Nel secondo caso, se in conseguenza dell’evasione l’erario perde la possibilita’ di riscuotere il proprio credito, ecco che il terzo avra’ arrecato all’erario un pregiudizio che non puo’ definirsi altrimenti che “danno da lesione del credito”.
Il danno da lesione del credito ha tre presupposti: l’esistenza d’un credito; la sopravvenuta impossibilita’ (fattuale o giuridica) della sua esazione; un nesso di causa tra l’illecito e la perdita del credito (principio pacifico: cosi’ gia’ Sez. 1, Sentenza n. 2938 del 13/06/1978, e poi sempre conforme).
Il terzo correo del reato tributario potra’ quindi essere chiamato a rispondere nei confronti dell’erario:
a) del danno da perdita del credito tributario, se sia dimostrato che in assenza della condotta illecita l’amministrazione finanziaria avrebbe potuto esigere il proprio credito dal contribuente, secondo la regola causale della preponderanza dell’evidenza;
b) di eventuali ed ulteriori danni diversi dal tributo evaso, ai sensi dell’articolo 1224 c.c., comma 2, secondo quanto esposto al p. 3.7.4 che precede;
c) nel caso di corresponsabilita’ penale, del danno non patrimoniale di cui all’articolo 2059 c.c., e articolo 185 c.p..
3.7.9. (C) Sull’altemativita’ tra riscossione coattiva del tributo ed azione aquiliana.
Deve escludersi che, nel caso di reati tributari, l’erario possa scegliere tra la riscossione coattiva del tributo e l’azione aquiliana, per la ragione che questa alternativa non e’ mai data.
Nei confronti del contribuente, infatti, l’alternativa tra riscossione coattiva e azione di danno e’ esclusa dalla gia’ rilevata circostanza che il “danno” in senso tecnico causato dall’evasore all’erario non coincide con l’imposta evasa (supra, p. 3.7.2).
Se si ammette che quella tributaria e’ una obbligazione rientrante nel novero di cui all’articolo 1173 c.c., si dovra’ conseguentemente ammettere che il tributo non riscosso e’ la prestazione dovuta dal contribuente, non il danno che dall’inadempimento e’ derivato.
Nel caso di evasione fiscale dunque non vi puo’ essere alcuna scelta da parte dell’erario tra la riscossione coattiva e l’azione di danno, perche’ l’azione aquiliana e’ inutilizzabile per ottenere l’esatta esecuzione della prestazione dovuta.
Nel caso, poi, in cui l’erario abbia diritto di agire ai sensi dell’articolo 1224 c.c., comma 2, per pretendere il ristoro del maggior danno secondo quanto esposto in precedenza, nemmeno e’ data alcuna facolta’ di scelta, perche’ le forme speciali della riscossione coattiva dei tributi non consentono di esigere il ristoro del “maggior danno” di cui alla norma citata: e dunque la scelta dell’azione ordinaria di danno non avrebbe alternative.
3.7.10. Anche nei confronti di eventuali correi (ex articolo 110 c.p) o corresponsabili (ex articolo 2055 c.c.) dell’evasione non e’ possibile alcuna alternativa tra riscossione coattiva del credito tributario e azione di danno. Delle due, infatti l’una:
-) se l’erario ha titolo, in base alla legislazione di settore, per agire in executivis nei confronti di persona diversa dal contribuente, l’esistenza di tale titolo rende inconcepibile l’azione di danno, secondo quanto gia’ detto al p. 3.7.2;
-) se l’erario non ha titolo per agire in executivis nei confronti del responsabile diverso dal contribuente, la via dell’azione aquiliana e’ obbligata e non vi saranno alternative possibili.
3.7.11. (D) Sull’onere della prova.
Dai principi sin qui esposti discende la soluzione dell’ultima questione di particolare importanza segnalata dall’ordinanza di rimessione, ovvero come debba ripartirsi l’onere della prova nei giudizi tra l’erario, l’evasore e il terzo correo (o corresponsabile dell’evasione).(A-1
3.7.12. Tra erario e contribuente, poiche’ l’unico danno (patrimoniale) risarcibile e’ quello di cui all’articolo 1224 c.c., comma 2, spettera’ all’erario dimostrarne l’esistenza, l’entita’ e la derivazione causale dal fatto illecito.
3.7.13. Tra erario e terzo corresponsabile dell’evasione, come s’e’ visto il fatto costitutivo della pretesa e’ la perduta possibile di esigere, in tutto od in parte, il credito tributario nei confronti del contribuente. Spettera’ dunque all’erario dimostrare la titolarita’ del credito; la perdita di questo per fatto del terzo; il nesso di causa tra condotta del terzo e perdita del credito.
Se poi l’erario, per negligenza, trascuri di riscuotere il proprio credito; incorra colpevolmente in prescrizione o decadenze; trascuri di avvalersi degli strumenti di conservazione della garanzia patrimoniale, tali condotte saranno concausative del danno (che e’ la perdita del credito), e non aggravative di esso. Rientreranno pertanto nell’ipotesi di cui all’articolo 1227 c.c., comma 1, e spettera’ al convenuto eccepire e dimostrare che l’erario ha perso il credito per propria negligenza, ai sensi della norma appena citata.
3.8. Alla luce di quanto esposto nei p. 3.7 e ss., la quinta censura del terzo motivo di ricorso deve essere accolta.
(OMISSIS), infatti, in quanto reputata “colpevole del contrabbando”, era debitrice del dazio doganale, giusta la previsione del Decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, articolo 338.
Nei suoi confronti pertanto l’erario vantava un credito tributario. L’evasione non estingue di per se’ il credito erariale, per quanto gia’ detto: e dunque l’accoglimento della domanda di danno avrebbe imposto al giudice di merito di accertare la probabile esistenza di un “maggior danno” ex articolo 1224 c.c., comma 2.
Naturalmente, trattandosi di un giudizio limitato all’au debeatur, tali accertamenti sarebbero potuti avvenire anche solo in via probabilistica, secondo quanto gia’ detto; tuttavia non era consentito al giudice di merito parametrare tout court il risarcimento del danno all’imposta evasa.
3.9. Il terzo motivo di ricorso va dunque accolto in parte, in applicazione dei seguenti principi di diritto:
a) ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno e’ sufficiente che l’attore dimostri la colpa e il nesso causale; mentre e’ sufficiente che l’esistenza del danno appaia anche solo probabile;
b) ai fini dell’ammissibilita’ della domanda di condanna generica al risarcimento del danno non e’ necessario che l’attore indichi le prove di cui intende avvalersi per dimostrare il quantum debeatur;
c) il danno civile all’immagine della pubblica amministrazione puo’ essere arrecato tanto da un pubblico funzionario, quanto da persona estranea all’amministrazione stessa, ed e’ risarcibile in ambo i casi;
d) il danno causato dall’evasione fiscale, allorche’ questa integri gli estremi di un reato commesso dal contribuente o da persona che del fatto di quest’ultimo debba rispondere direttamente nei confronti dell’erario, non puo’ farsi coincidere automaticamente con il tributo evaso, ma deve necessariamente consistere in un pregiudizio ulteriore e diverso”, ricorrente qualora l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilita’ di riscuotere il credito erariale;
e) il danno causato dall’evasione fiscale, allorche’ questa integri gli estremi di un reato commesso da persona diversa dal contribuente e non altrimenti obbligata nei confronti dell’erario, puo’ coincidere sia con il tributo evaso, sia con ulteriori pregiudizi, ma nella prima di tali ipotesi il risarcimento sara’ dovuto a condizione che l’erario alleghi e dimostri la perdita del credito o la ragionevole probabilita’ della sua infruttuosa esazione;
f) nel giudizio di danno promosso dall’erario nei confronti di persona diversa dal contribuente, cui venga ascritto di avere concausato la perdita del credito erariale, spetta all’amministrazione provare l’esistenza del credito, la perdita di esso ed il nesso causale tra la lesione del credito e la condotta del convenuto; spetta, invece, al convenuto dimostrare che la perdita del credito sia avvenuta per negligenza dell’amministrazione, negligenza che rientra nella previsione di cui all’articolo 1227 c.c., comma 1″.
4. Il quarto motivo del ricorso principale.
Anche col quarto motivo la ricorrente principale prospetta due diverse censure.
4.1. Con una prima censura la ricorrente lamenta la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Deduce che le amministrazioni costituitesi parti civili avevano posto a fondamento delle rispettive pretese risarcitorie la seguente condotta illecita: avere contrabbandato banane, mediante l’utilizzazione di certificati “AGRIM” rilasciati a “nuovi operatori”.
La Corte d’appello, per contro, ha posto a fondamento della condanna una condotta diversa, e cioe’ l’avere dissimulato una illecita compravendita di certificati “AGRIM”.
4.1.1. Il motivo e’ infondato.
Esso, infatti, pretende di esaltare una differenza puramente formale tra petitum e decisum.
Non vi e’ infatti differenza sostanziale tra il fatto di “contrabbandare banane utilizzando benefici non dovuti” (tale fu la condotta dedotta in giudizio dalle parti civili), e l'”utilizzare benefici non dovuti per contrabbandare banane” (ovvero la condotta ritenuta dalla Corte d’appello).
4.2. La seconda censura, secondo l’unica interpretazione che questa Corte ritiene plausibile, si puo’ cosi’ riassumere:
-) la Corte d’appello ha, nello stesso tempo, da un lato ritenuto che la societa’ diretta da (OMISSIS) avesse illecitamente acquistato certificati “AGRIM”; e dall’altro ritenuto sussistere, a carico di (OMISSIS), l’aggravante di aver commesso il contrabbando in connessione con altro delitto contro la fede pubblica, nella specie consistente nella falsificazione dei suddetti certificati;
-) tale valutazione fu contraddittoria, dal momento che l’illecita compravendita di certificati veri escludeva la possibilita’ di contestare l’aggravante di aver falsificato i medesimi certificati,
-) tale errore della Corte d’appello “si riflette in maniera assai rilevante sul risarcimento del danno richiesto dalle parti civili”.
4.2.1. Il motivo e’ inammissibile per piu’ di una ragione.
In primo luogo e’ inammissibile per irrilevanza: ed infatti la censura non espone per quali ragioni la pretesa contraddittorieta’ segnalata dalla ricorrente abbia inciso sulla misura della provvisionale.
In secondo luogo e’ inammissibile in quanto non si comprende perche’ mai questo errore costituisca una violazione dell’articolo 112 c.p.c.. Le parti civili formularono una domanda (generica) di danno, e su una domanda (generica) di danno la Corte d’appello ha provveduto. Divergenza tra chiesto e pronunciato, dunque, non vi fu; lo stabilire poi se la Corte d’appello abbia giudicato bene o male nel liquidare la provvisionale e’ questione che resta assorbita dall’accoglimento del terzo motivo di ricorso.
In terzo luogo il motivo e’ inammissibile per difetto di decisivita’: nel presente giudizio, infatti, si discorre unicamente della sussistenza d’una condotta illecita e dei danni da essa in tesi derivati, sicche’ e’ irrilevante stabilire se ricorrano o no gli estremi di questa o quella aggravante del fatto-reato. Il risarcimento del danno infatti non e’ una sanzione, e prescinde dall’esistenza di circostanze aggravanti od attenuanti, cosi’ come prescinde dall’intensita’ del dolo o dalla gravita’ della colpa.
5. Il quinto motivo di ricorso principale.
Col quinto motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la violazione del Decreto Legislativo n. 8 del 2016, articolo 1, in relazione all’articolo 25 Cost., ed all’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
5.1. L’illustrazione del motivo prospetta una tesi che possiamo riassumere come segue:
-) i fatti contestati a (OMISSIS) risalgono al 2000;
-) nel 2016 il legislatore depenalizzo’ numerosi reati con il Decreto Legislativo 15 gennaio 2016, n. 8;
-) tale provvedimento stabili’ che:
-) i reati puniti con la sanzione pecuniaria fossero depenalizzati;
-) i reati puniti con la sanzione pecuniaria per l’ipotesi di base, e con la pena detentiva per le ipotesi aggravate, fossero depenalizzati solo per l’ipotesi di base;
-) i reati puniti con la sanzione pecuniaria per l’ipotesi di base, e la pena detentiva per le ipotesi aggravate, fossero considerati fattispecie autonoma di reato limitatamente alle ipotesi aggravate;
-) poiche’ a (OMISSIS) venne contestata un’ipotesi aggravata del delitto di contrabbando, per la quale la legge prevedeva anche la pena detentiva, ella non pote’ beneficiare del provvedimento di depenalizzazione;
-) la legge di depenalizzazione, pertanto, per effetto della previsione di cui all’articolo 1, comma 2, fini’ per assoggettare l’odierna ricorrente ad “un trattamento in concreto piu’ sfavorevole” rispetto agli altri imputati del medesimo reato, cui non era stata contestata l’aggravante di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 42 del 1973, articolo 295, comma 2, lettera c).
5.3. Il motivo e’ inammissibile per piu’ ragioni.
In primo luogo e’ inammissibile perche’ impugna una statuizione che nella sentenza impugnata non c’e’.
La sentenza impugnata, infatti, non si e’ affatto occupata del problema della inapplicabilita’ a (OMISSIS) della legge di depenalizzazione di cui al Decreto Legislativo n. 8 del 2016.
In secondo luogo e’ inammissibile perche’ sulla questione si e’ formato il giudicato interno.
Che (OMISSIS) non potesse beneficiare della legge di depenalizzazione e’ statuizione contenuta nella decisione di questa Corte con cui venne cassata la prima sentenza d’appello (penale), ovvero Cass. pen. 35575/16.
Il motivo pertanto invoca una pronuncia che avrebbe l’effetto di modificare le statuizioni d’una pronuncia di questa Corte in sede penale.
6. Il sesto motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale condizionato.
Col sesto motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la “violazione delle decisioni CE 728/94 e 597/00”.
Il motivo censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha condannato la ricorrente al risarcimento del danno in favore del Ministero delle finanze. Deduce la ricorrente che l’imposta evasa costituiva un’entrata propria dell’Unione Europea, non del Ministero delle finanze; sicche’ la sentenza impugnata non avrebbe potuto da un lato affermare che la Commissione non avesse “offerto alcuna prova del danno subito”, e dall’altro condannare la convenuta al risarcimento del danno in favore del Ministero delle finanze.
6.1. Con riferimento a tale motivo di ricorso la Terza Sezione civile di questa Corte ha chiesto di stabilire, qualora si ammetta che il danno causato all’erario dal reato di contrabbando possa consistere nel tributo evaso, “se la pretesa risarcitoria debba riconoscersi in capo all’unione Europea ovvero in capo allo Stato membro cui attribuito il compito della relativa riscossione”.
6.2. Il motivo e’ fondato.
A partire dal 1970 (decisione del Consiglio del 21 aprile 1970, n. 70/243), l’Unione Europea si e’ dotata di un sistema di finanziamento autonomo e diretto, attraverso le c.d. “risorse proprie”, e cioe’ entrate autonome rispetto alle finanze degli Stati membri.
Nell’ambito del sistema delle “risorse proprie”, l’articolo 2, lettera (b), della Decisione del Consiglio 94/728/CE, Euratom (abrogata dall’articolo 10 della Decisione 29/09/2000 n. 597, ma applicabile ratione temporis ai fatti di causa), stabili’ che costituiscono entrate proprie dell’Unione, tra le altre, “i dazi della tariffa doganale comune e da altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni delle Comunita’ sugli scambi con i paesi terzi e dazi doganali sui prodotti rientranti nel trattato che istituisce la Comunita’ Europea del carbone e dell’acciaio”.
Il successivo articolo 8 della medesima Decisione attribui’ agli Stati membri il mero compito di provvedere alla riscossione “conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, eventualmente adattate alle esigenze della normativa comunitaria”.
Da cio’ consegue che qualunque fatto illecito che abbia per effetto la perdita del credito tributario avente ad oggetto un tributo “proprio” dell’Unione Europea costituisce un danno per quest’ultima.
Lo Stato italiano, tramite i suoi organi, e’ certo legittimato a domandare tale risarcimento, ma ovviamente nella qualita’ di soggetto incaricato della riscossione. Nel presente giudizio, pero’, la domanda e’ stata formulata direttamente dalla Commissione Europea, sicche’ a quest’ultima andava riconosciuta la qualita’ di creditore del diritto al risarcimento del danno.
In tal senso deve pertanto darsi risposta all’interrogativo posto dall’ordinanza di rimessione circa il problema della legitimatio ad causam.
6.3. La fondatezza del sesto motivo di ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato proposto dalla Commissione Europea.
7. Il settimo motivo del ricorso principale.
Il settimo motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha determinato la misura della provvisionale.
Con tale motivo la ricorrente sostiene che la sentenza d’appello, su questo punto, e’ priva di motivazione e di conseguenza nulla ex articolo 132 c.p.c.. Deduce che non e’ possibile ricostruire l’iter logico-giuridico seguito dalla Corte d’appello per pervenire alla quantificazione del danno nella misura di 3,8 milioni di Euro; e comunque tale importo non trova alcun riscontro negli atti di causa.
7.1. Con riferimento a tale motivo di ricorso la terza sezione civile della Corte di cassazione ha chiesto alle sezioni unite di stabilire “in presenza di quali presupposti, nel caso di translatio del processo dinanzi al giudice civile ex articolo 622 c.p.p., possa accordarsi la provvisionale richiesta dalle amministrazioni danneggiate al momento della costituzione di parte civile nel processo penale”.
A tal riguardo l’ordinanza di rimessione osserva che, una volta trasferito il giudizio penale dinanzi al giudice civile ai sensi della norma appena ricordata, dovevano trovare applicazione le regole del processo civile e, con esse, quella di cui all’articolo 278 c.p.c., comma 2, in virtu’ della quale la condanna provvisionale ivi prevista esige il raggiungimento della prova concreta ed effettiva del danno.
7.2. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del terzo motivo di ricorso. Reputa tuttavia utile il Collegio dare risposta alle due questioni poste dall’ordinanza di rimessione.
La prima di esse (se il giudice civile, in sede di rinvio ex articolo 622 c.p.p., possa pronunciare una condanna provvisionale) trova risposta affermativa in base alle osservazioni gia’ svolte supra, ai p.p. 2.4 e ss., con riferimento al secondo motivo di ricorso.
Quanto alla seconda questione (quale prova debba essere fornita dal creditore, per invocare la provvisionale di cui all’articolo 278 c.p.c., nel caso di danno da reato tributario), la risposta ad essa deve muovere dal rilievo gia’ svolto, secondo cui il giudizio di rinvio ex articolo 622 c.p.p., si celebra con le regole del processo civile, e tra queste regole rientra l’articolo 278 c.p.c., comma 2: dunque il giudice civile una provvisionale puo’ concederla “nei limiti in cui ritiene raggiunta la prova”.
Questo principio non e’ in contrasto con il precedente invocato dall’ordinanza di rimessione (e cioe’ Cass. pen. 52752/14).
Quella sentenza, infatti, non ha affermato che la condanna al pagamento d’una provvisionale possa pronunciarsi anche in assenza di prova.
Ha affermato (richiamando una massima tralatizia della giurisprudenza civile) che la condanna generica (e non la condanna provvisionale) al risarcimento del danno possa pronunciarsi anche quando “il fatto-reato appaia solo potenzialmente produttivo di conseguenze dannose”.
Affermazione, quest’ultima, che non contrasta con la regola processuale di cui all’articolo 278 c.p.c., comma 2.
Pertanto:
a) per l’accoglimento della domanda generica di danno e’ sufficiente che l’esistenza d’un danno sia probabile;
b) per l’accoglimento dell’istanza di provvisionale ex articolo 278 c.p.c., e’ necessario che l’esistenza d’un danno sia certa, almeno in parte.
8. L’ottavo motivo del ricorso principale.
Con l’ottavo motivo la ricorrente prospetta la violazione dell’articolo 115 c.p.c.. Anche con questo motivo e’ censurata la sentenza d’appello nella parte in cui ha quantificato il danno e, di conseguenza, la misura della provvisionale. Nella illustrazione del motivo si sostiene che tale quantificazione sarebbe erronea per molteplici ragioni:
-) la quantificazione del tributo evaso compiuta dalla Corte d’appello era superiore a quella che si sarebbe dovuta desumere dal “prospetto sinottico” depositata dalle stesse parti civili;
-) la Corte d’appello aveva ritenuto di desumere la prova della natura simulata delle transazioni commerciali tra la societa’ amministrata da (OMISSIS) e gli importatori “nuovi arrivati” da una serie di circostanze di fatto erroneamente ritenute “non contestate”.
8.1. La censura resta assorbita dall’accoglimento del terzo motivo di ricorso.
9. Nei rapporti tra (OMISSIS) e le controparti, le spese del presente giudizio di legittimita’ saranno liquidate dal giudice del rinvio.
Nei rapporti tra (OMISSIS) e le controparti le spese del presente giudizio vanno compensate interamente tra le parti, in considerazione della novita’ delle questioni disputate e della circostanza che il ricorso dichiarato inammissibile aveva un contenuto pressoche’ sovrapponibile a quello di (OMISSIS), sicche’ le amministrazioni controricorrenti non hanno dovuto svolgere difese ulteriori per resistere al ricorso di (OMISSIS).

P.Q.M.

Corte di Cassazione:
(-) accoglie il terzo ed il sesto motivo del ricorso principale, nei limiti indicati in motivazione;
(-) rigetta il primo, il secondo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti il settimo e l’ottavo;
(-) dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato;
(-) dichiara inammissibile il ricorso proposto da (OMISSIS);
(-) cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’ relativamente al rapporto tra le amministrazioni e (OMISSIS);
(-) compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimita’ tra (OMISSIS) e le amministrazioni qui controricorrenti;
(-) ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di (OMISSIS) di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

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