La destinazione agricola non potrebbe comunque mai impedire la localizzazione di un impianto di stoccaggio di rifiuti

Consiglio di Stato, sezione quinta, Sentenza 9 maggio 2019, n. 3014.

La massima estrapolata:

La destinazione agricola non potrebbe comunque mai impedire la localizzazione di un impianto di stoccaggio di rifiuti, anche pericolosi: ciò tanto più che la stessa disciplina di settore (art. 216, comma 3, T.U.L.P.S.) stabilisce espressamente che le industrie insalubri di I categoria, cui è appunto riconducibile l’impianto in oggetto, devono essere “isolate nelle campagne e tenute lontano dalle abitazioni.

Sentenza 9 maggio 2019, n. 3014

Data udienza 31 gennaio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 2586 del 2009, proposto da:
Ce. Am. Li. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Lo. Le. e Fe. Sc., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gi. Pl. in Roma, via (…);
contro
Regione Campania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ro. Pa., con domicilio fisico eletto presso l’Ufficio di Rappresentanza della Regione Campania in Roma, via (…);
Settore Provincia Ecologia – Disinquinamento e Protezione Civile e altri, non costituiti in giudizio;
Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Re. Sp. Vi., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Il. Co. in Roma, via (…);
Asl Na 3 Sud (Ex Asl Napoli 4), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ro. An. Pe., con domicilio fisico eletto presso l’Ufficio Legale dell’Asl Rm, viale (…);
Provincia di Napoli, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Di Fa. e Pa. Co., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Br. Mi. in Roma, Piazzale (…);
Comitato per la Tutela del Diritto alla Salute, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Bi. e Fr. Ia., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato M. Cr. Ma. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione Prima, n. 00566/2008, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2019 il consigliere Angela Rotondano e uditi per le parti gli avvocati Le. e De Ge., su delega di Pa.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1.La società Ce. Am. Li. s.r.l. (di seguito “Centro Ambiente”), odierna appellante, acquistava in data 12 novembre 2002, con decreto di trasferimento del Tribunale di Nola, dal Fallimento Ce. Ec. s.p.a. un opificio industriale per il trattamento dei rifiuti liquidi, civili e industriali, ubicato nel Comune di (omissis) (in zona Agricola (omissis)), alla via (omissis) (individuato in catasto al foglio (omissis), p.lle (omissis)).
1.1. La realizzazione e l’esercizio dell’impianto erano stati autorizzati secondo la disciplina, all’epoca vigente, di cui al d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, e precisamente: a) con delibera della Giunta Regionale per la Campania n. 6425 del 5 dicembre 1989 era stato approvato il progetto di adeguamento dell’impianto; b) con decreto del Presidente della Giunta Regionale della Campania n. 13692 del 19 dicembre 1991 era stato autorizzato l’esercizio dell’attività di stoccaggio e trattamento di rifiuti speciali, non classificabili tossici e nocivi (con validità sino al 9 febbraio 1995).
1.2. Con istanza del 24 maggio 2004 (prot. 0435410 del 26 maggio 2004) la Centro Ambiente chiedeva alla Regione Campania (di seguito “la Regione”) il rinnovo dell’autorizzazione n. 13692 del 19 dicembre 1991 rilasciata alla Ce. Ec. s.p.a. e contestualmente “l’approvazione della variante al progetto…rappresentata dall’inserimento della linea di trattamento chimico-fisico e sue pertinenze”.
Con nota del 23 novembre 2004, i competenti uffici regionali, ritenendo che non potesse volturarsi la precedente autorizzazione in capo alla Centro Ambiente, le comunicavano l’archiviazione della pratica, invitandola a presentare una nuova istanza volta ad ottenere una nuova autorizzazione, come difatti avveniva (con istanza n. 14435 prot. del 17 febbraio 2005).
1.3. Riaperto quindi il procedimento su richiesta della società appellante, la Regione, all’esito dell’istruttoria svolta, disponeva l’acquisizione della valutazione di impatto ambientale (V.I.A.), ravvisandone la necessità alla luce delle previsioni progettuali, e, con istanza del 5 ottobre 2005, la Centro Ambiente sottoponeva il progetto alla Commissione V.I.A.
1.4. Con decreto dell’Assessore Regionale dell’Ambiente n. 223 del 3 marzo 2006 veniva definitivamente approvata la V.I.A. per l’impianto di stoccaggio e trattamento di rifiuti liquidi, previa acquisizione del parere favorevole dell’apposita Commissione.
Ottenuto il parere favorevole di compatibilità ambientale, la Società Ce. Am., con ulteriore istanza n. 268869 del 22 marzo 2006, chiedeva l’esame della pratica e la Commissione incaricata dell’istruttoria, nella seduta del 27 giugno 2006, ne disponeva l’inoltro alla Conferenza di servizi.
1.5. La Regione aveva, infatti, convocato la Conferenza dei Servizi tra gli enti interessati ai fini dell’acquisizione dei necessari pareri, ritenendo che la richiesta di approvazione della variante al progetto (per il trattamento di rifiuti già oggetto della precedente autorizzazione e divenuti pericolosi per effetto della nuova classificazione, per ulteriore integrazione di tipologie classificate pericolose e per il raddoppio delle linee di trattamento) rendesse necessario, come per i nuovi impianti, il rilascio di un’autorizzazione unica per la realizzazione e per l’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 208 del d.lgs. 152 del 2006 e seguendo il procedimento ivi disciplinato.
1.6. Ai fini di una migliore comprensione delle questioni giuridiche prospettate dall’appellante, giova sin d’ora evidenziare che l’art. 208 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale” (nel prosieguo “T.U.A.”), nel disciplinare l'”autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti” prevede che “i soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono presentare apposita domanda…allegando il progetto definitivo dell’impianto e la documentazione tecnica prevista per la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute e sicurezza sul lavoro e di igiene pubblica”: la domanda è indirizzata alla Regione competente per territorio che “individua il responsabile del procedimento e convoca apposita conferenza di servizi”, alla quale partecipano, oltre ai responsabili degli uffici regionali competenti, “i rappresentanti delle autorità d’ambito e degli enti locali sul cui territorio è realizzato l’impianto, nonché il richiedente l’autorizzazione o un suo rappresentante al fine di acquisire documenti, informazioni e chiarimenti”.
1.7. La Conferenza in parola assicura una valutazione contestuale dei differenti interessi e profili incisi dalla realizzazione e gestione del nuovo impianto e assume le proprie decisioni a maggioranza, fornendo un’adeguata motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti ivi espresse dai soggetti partecipanti.
1.8. La Conferenza di Servizi, alla quale partecipavano il Comune di (omissis) (“il Comune”), la Provincia di Napoli (“la Provincia”), l’ASL Napoli 4 (l'”ASL”), si riuniva quindi in data 14 luglio 2006 e veniva nuovamente convocata (a seguito di richiesta di integrazione istruttoria avanzata dalla società ) il 15 gennaio 2007, esprimendo all’esito parere sfavorevole al rilascio dell’autorizzazione.
1.9. Pertanto, con decreto dirigenziale n. 152 del 18 aprile 2007 dell’Area Generale di Coordinamento ed Ecologia, tutela dell’ambiente, disinquinamento, protezione civile, l’Amministrazione regionale denegava l’approvazione del progetto e dichiarava altresì non accoglibili le osservazioni presentate dalla società istante a seguito del preavviso di rigetto ai sensi dell’articolo 10 bis legge 7 agosto 1990, n. 241, ritenendo, sotto il profilo procedimentale, che dovessero osservarsi le norme che disciplinano il rilascio dell’autorizzazione per nuovi impianti, trattandosi di impianto fermo dall’anno 1995 e di cui si sarebbe progettata una modifica sostanziale e, nel merito, che il progetto e l’autorizzazione per l’esercizio dell’impianto fossero incompatibili con la destinazione urbanistica dell’area, in quanto ricadente in zona agricola (omissis), al di fuori dell’area PIP (Piano di Insediamento Produttivo) del Comune ed, inoltre, non servita da una rete fognaria comunale; in ogni caso, la localizzazione di un impianto di smaltimento e di recupero rifiuti in zona agricola, benché non vietata in assoluto, sarebbe stata possibile solo in presenza di una decisione condivisa di tutti i partecipanti alla Conferenza di Servizi, i quali invece avevano all’unanimità espresso parere sfavorevole.
2. Avverso tale decreto (gravato insieme agli atti di convocazione della Conferenza, ai relativi verbali e ai pareri espressi dalle amministrazioni partecipanti) proponeva ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania la Centro Ambiente, domandone l’annullamento.
2.1. A sostegno dell’impugnazione proposta, incentrata su plurime e articolate censure di violazione di legge ed eccesso di potere affidate ad otto motivi di diritto, la predetta Centro Ambiente lamentava che: a) la Regione avrebbe dovuto adottare la procedura autorizzatoria disciplinata dall’art. 210 del d.lgs. 152 del 2006 (in base al regime transitorio recato da detta norma) in luogo di quella, più articolata, di cui all’art. 208 del medesimo decreto che contempla la conferenza dei servizi (primo motivo), anche in considerazione del fatto che si sarebbe trattato di un impianto preesistente, oggetto di provvedimenti di condono edilizio e, a suo tempo, autorizzato all’attività di smaltimento di rifiuti e non, come ritenuto dalla Regione, di impianto nuovo, per il quale sarebbe stata necessaria anche l’autorizzazione alla realizzazione anziché al solo esercizio dell’attività (terzo motivo); b) i soggetti partecipanti alla conferenza dei servizi non sarebbero stati legittimati a rappresentare validamente le amministrazioni di appartenenza, in quanto sprovvisti della necessaria delega o mandato (secondo motivo); c) erano errate le valutazioni espresse dal Comune sotto il profilo urbanistico-edilizio, anche in considerazione del fatto che i provvedimenti di concessione in sanatoria rilasciati nel 1992 e 1996 avrebbero definitivamente impresso all’immobile la destinazione d’uso di opificio industriale per stoccaggio e trattamento rifiuti in zona agricola (quarto motivo); d) erano parimenti erronee le valutazioni espresse dall’ASL nel parere igienico sanitario, contrastante con la procedura di V.I.A. e con il parere dell’A.R.P.A.C. ed emesso, inoltre, all’esito di un’istruttoria lacunosa, in quanto carente di accertamenti sull’attività e basata solo su profili formali, che aveva condotto a conclusioni infondate (quinto motivo); e) anche il parere negativo della Provincia sarebbe stato illegittimo per difetto di istruttoria e motivazione, per essersi limitato a recepire in modo acritico i pareri negativi del Comune e dell’ASL (sesto motivo); f) la Regione non avrebbe adottato la determinazione finale in base ad una propria autonoma valutazione, aderendo acriticamente ai pareri negativi resi dalle amministrazioni partecipanti alla Conferenza; g) sarebbe stato violato anche l’art. 10 bis, comma 3, legge 7 agosto 1990, n. 241, avendo la Regione omesso di esplicitare le ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni presentate dalla ricorrente.
2.2. Si costituivano in giudizio la Regione, il Comune, la Provincia, l’ASL Napoli 4 ed il Comitato per la Tutela del Diritto alla Salute.
2.3. Con la sentenza in epigrafe, il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso, ritenendo infondati tutti i motivi di censura.
3. Per la riforma della sentenza ha proposto appello la società Ce. Am., lamentandone l’erroneità e l’ingiustizia per i seguenti motivi: “I) Error in iudicando- Violazione di legge (artt. 208 e 210 T.U.A.; artt. 27 e 28 del D.Lgs. 22/97 in relazione all’art. 264 T.U.A.; II) Error in iudicando- violazione di legge (art. 27 D.Lgs. 22/97) in relazione agli artt. 208- 210 T.U.A.- art. 216 R.D. 1265/1934 illogicità manifesta e contraddittorietà ; III) Error in iudicando- Violazione di legge (artt. 208 e 210 del D.Lgs. n. 152 del 2006) – illogicità – contraddittorietà ; IV) Error in iudicando- illogicità – contraddittorietà – violazione di legge (artt. 208 e 210 D.Lgs. n. 152/2006) V) Error in iudicando. Illogicità – contraddittorietà – violazione di legge (artt. 208 e 210 D.Lgs. n. 152/2006, art. 10 bis e 14 ter L. 241/1990).”
3.1. Hanno resistito al gravame le amministrazioni già resistenti in primo grado, depositando apposite memorie con cui hanno argomentato diffusamente le proprie tesi difensive e l’infondatezza del gravame.
3.2. Con ordinanza collegiale n. 00641/2011 del 28 gennaio 2011 la Sezione ha disposto l’acquisizione di una dettagliata relazione da parte della Regione, unitamente alla relativa documentazione istruttoria, circa le ragioni sottese all’emanazione del provvedimento impugnato “con particolare riferimento alla situazione dell’impianto di stoccaggio prima dell’acquisizione da parte dell’attuale appellante” e che individuasse altresì puntualmente le ragioni della ritenuta irrilevanza di tale situazione pregressa.
3.3. La Regione ha adempiuto ai detti incombenti istruttori depositando in data 7 aprile 2011 la Relazione del Settore Amministrativo della Regione Campania con allegata documentazione (in particolare, la nota prot. n. 0435410 del 24 maggio 2004 contenente la richiesta di rinnovo dell’autorizzazione già rilasciata alla Ce. Ec. e i verbali della Conferenza dei Servizi del 14 luglio 2006 e del 15 gennaio 2007).
3.4. Rinviata più volte, su concorde richiesta delle parti, la trattazione dell’appello, all’udienza pubblica del 31 gennaio 2019 la causa è stata infine trattenuta in decisione.

DIRITTO

4. L’appello è infondato.
5. Con il primo motivo di gravame Centro Ambiente lamenta che il primo giudice avrebbe errato nell’individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie controversa, in quanto, pur escludendo correttamente il ricorso al procedimento autorizzatorio ordinario ai sensi dell’art. 208 del T.U.A., avrebbe erroneamente ritenuto l’ultrattività del procedimento di cui agli articoli 27 e 28 del D.Lgs. n. 22 del 1997, invece definitivamente abrogato ai sensi dell’art. 264 del T.u.a. dal 29 aprile 2006 (data della sua entrata in vigore) e inapplicabile ai procedimenti in itinere, in tal modo travisando l’assetto normativo e introducendo un “regime transitorio giudiziale”.
5.1. L’appellante ripropone in definitiva la tesi secondo cui al procedimento per l’autorizzazione dell’impianto de quo si applicherebbe, invece, il regime semplificato di cui all’art. 210 del T.u.a., alternativo a quello ordinario, come previsto dalla stessa norma, vista la presentazione della relativa istanza e la conclusione favorevole della procedura di V.I.A. (con decreto assessorile del 3 marzo 2006) precedenti all’entrata in vigore del T.U.A. in data 29 aprile 2006: ciò anche in considerazione del fatto che si tratterebbe di una domanda di autorizzazione per impianto già esistente, di cui era stata regolarmente autorizzato tanto la realizzazione quanto l’esercizio in virtù del regime giuridico all’epoca vigente (d.P.R. 915 del 1992 e L. 441/1997); secondo l’appellante, l’art. 210 cit. (rubricato “autorizzazioni in ipotesi particolari”, all’epoca vigente e successivamente abrogato dall’art. 39, comma 3, del D.Lgs. n. 205 del 2010) disciplina, infatti, sotto il profilo procedurale, tutte le ipotesi di riattivazione di preesistenti impianti di smaltimento, precedentemente utilizzati o adibiti ad altra attività .
5.2. Pertanto, sussistendo un valido titolo di localizzazione dell’impianto, non caducato per effetto del decorso del tempo (stante la rilevanza urbanistica del provvedimento), non era necessaria una nuova autorizzazione, ma il mero rinnovo di quella precedente secondo il regime semplificato di cui all’art. 210, cit., che, alla stregua del suo tenore letterale, richiederebbe esclusivamente l’esistenza di un impianto e l’eventuale disuso.
5.3. Il motivo è infondato.
5.3.1. Se anche è vero che, per un verso, le disposizioni di cui all’art. 208 del D.Lgs. n. 152 del 2006 si applicano “anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto, eccetto quelli per i quali sia completata la procedura di valutazione di impatto ambientale” (in base al comma 16 della stessa disposizione) e, per altro verso, che ai sensi dell’art. 264 del D.Lgs. n. 152 del 2006 “a decorrere dall’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto, restano o sono abrogati, escluse le disposizioni di cui il presente decreto prevede l’ulteriore vigenza…i) il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22” (sicché non può neppure ritenersi che i procedimenti in essere, in considerazione dell’avanzato stato di definizione stante il completamento della procedura di valutazione di impatto ambientale, sono sottratti al principio “tempus regit actum” e mantenuti per intero alla vecchia disciplina), tuttavia un’interpretazione sistematica delle norme e fondata sulla loro ratio induce a ritenere non condivisibili le deduzioni dell’appellante secondo cui costituirebbe elemento dirimente, ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile nella fattispecie, la conclusione favorevole della procedura di V.I.A. prima dell’entrata in vigore del T.U.A.
5.3.2. Ed invero, risulta in primo luogo condivisibile l’impianto motivazionale della sentenza impugnata nella parte in cui, sulla base delle circostanze fattuali, correttamente ha escluso che l’istanza presentata dalla Centro Ambiente potesse qualificarsi come mera domanda di rinnovo dell’autorizzazione già esistente rilasciata in capo alla fallita Ce. Ec., ma che piuttosto essa integrasse una domanda volta a realizzare e gestire un nuovo impianto di smaltimento e di recupero di rifiuti: tale profilo, essenziale e dirimente ai fini della corretta individuazione della disciplina regolante la fattispecie, è stato infatti ben colto dal primo giudice il quale, da un lato, ha rilevato come, a seguire il ragionamento della società ricorrente, si sarebbe dovuto concludere nel senso che la realizzazione di un nuovo impianto di recupero o smaltimento rifiuti in un opificio preesistente non vada mai sottoposta alla relativa autorizzazione, anche nell’ipotesi in cui non abbia conseguito il titolo abilitativo ai sensi dell’art. 27 del D.Lgs. 22 del 1997 (il che evidentemente non è stante la necessità di porre in essere le necessarie valutazioni della compatibilità del progetto con le esigenze territoriali e ambientali, previste così dalla previgente disciplina di cui al d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, come da quella attuale di cui al T.u.a.); dall’altro ha evidenziato che ai sensi dell’art. 208, commi 16 e 20, del T.u.a. gli impianti preesistenti sforniti di autorizzazione (id est: con procedimento ancora in itinere e interessati da modifiche sostanziali al progetto presentato) devono essere autorizzati al pari degli impianti nuovi di cui al comma primo.
5.3.4. Deve, dunque, verificarsi se sia corretto l’assunto, posto dal tribunale a fondamento del suo ragionamento (e della conseguente inapplicabilità al caso di specie del regime transitorio semplificato di cui all’art. 210 cit., che contempla una disciplina autorizzatoria semplificata per la sola gestione), secondo cui l’impianto da autorizzare fosse nella sostanza nuovo rispetto a quello preesistente e che fosse perciò necessario conseguire un’autorizzazione unica valevole sia per la sua realizzazione sia per il suo esercizio ai sensi dell’art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006.
5.3.5. Ebbene, risulta dagli atti e non è contestato che il progetto di adeguamento dell’impianto era stato approvato con D.G.R. n. 6425 del 5 dicembre 1989 e che la variante al progetto richiesta dalla Centro Ambiente riguardasse modifiche al processo tecnologico di trattamento dei rifiuti, mentre l’autorizzazione alla gestione a suo tempo concessa alla Ce. Ec. avesse validità sino al 9 febbraio 1995: da tale data, infatti, l’attività dell’impianto era cessata e la precedente autorizzazione, scaduta nel medesimo anno, non poteva essere considerata più attuale.
Il progetto da approvarsi ricomprendeva: a) il trattamento di rifiuti già autorizzati ma divenuti in parte medio tempore pericolosi per effetto della nuova classificazione; b) l’ulteriore richiesta di integrazioni di tipologie di rifiuti classificate pericolose; c) il raddoppio delle linee di trattamento.
In particolare, deve osservarsi come l’introduzione di nuove linee di trattamento, oltre a modificare le modalità di funzionamento degli impianti, imponeva una valutazione rinnovata alla luce della disciplina sopravvenuta in relazione agli effetti sull’ambiente indotti dalla nuova tipologia di lavorazione.
5.3.6. Pertanto, correttamente la Regione ha ravvisato il carattere sostanziale della variante al progetto della Centro Ambiente, tale da non renderne possibile (come richiesto con l’istanza del 22 giugno 2004) il mero rinnovo della sola autorizzazione alla gestione dell’attività in precedenza esercitata nell’opificio che, oltre ad essere cessata del tutto sin dal 1995 (con un’evidente soluzione di continuità tant’è che l’acquisto dal fallimento ha riguardato il solo complesso dei beni materiali e non la cessione dell’attività ), ne risultava sostanzialmente modificata per il previsto inserimento della linea di trattamento chimico-fisica e sue pertinenze; e perciò, altrettanto correttamente, disponeva, prima, l’acquisizione in via preliminare del giudizio di compatibilità ambientale e convocava, poi, la Conferenza dei Servizi ai sensi dell’art. 208.
A tale modus operandi prestava acquiescenza la Centro Ambiente che, difatti, con istanza del 5 febbraio 2005 domandava la riapertura del procedimento archiviato e ancora, il 22 marzo 2006, in data successiva al decreto assessorile che segnava la favorevole conclusione del procedimento di V.I.A., presentava una nuova istanza finalizzata ad ottenere una nuova autorizzazione per l’impianto, che era perciò legittimamente sottoposta alla disciplina ex art. 208 regolante anche “i procedimenti in corso” alla data di entrata in vigore del T.u.a.
5.3.9. Di tali circostanze danno puntualmente atto sia il decreto di diniego all’autorizzazione impugnato in prime cure dall’appellante, sia la relazione istruttoria acquisita in adempimento dell’ordinanza collegiale di questa Sezione: entrambi gli atti contengono, infatti, un’adeguata e compiuta motivazione in ordine alle ragioni per cui, pur tenendosi conto della situazione pregressa dell’impianto, ad essa tuttavia non si sia potuto riconoscere rilevanza nel senso, preteso dall’appellante, di non richiedere una nuova approvazione del progetto e autorizzazione dell’impianto previa valutazione di compatibilità con il sito, a tutela delle esigenze ambientali e territoriali: tale approvazione non poteva, dunque, che seguire il modulo procedimentale contemplato dalla legge al fine di acquisire una valutazione contestuale e ponderata da parte degli enti locali interessati.
5.3.7. Del resto, espressa finalità affermata dallo stesso legislatore (cfr. art. 264 lett. i) del d.lgs. 152 del 2006) è “assicurare che non via sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto”: anche tale aspetto è stato a ragione valorizzato dal tribunale; infatti, deve rilevarsi, come, per un verso, l’applicazione dell’art. 210 cit., oltre al completamento della procedura di v.i.a., presupponeva in ogni caso il possesso, in conformità all’art. 27 del 5 febbraio 1997, n. 22, dell’autorizzazione alla realizzazione dell’impianto (avendo la norma la medesima ratio dell’art. 28 del previgente decreto), per altro verso tale regime semplificato non poteva applicarsi in modo necessario e automatico (solo in virtù del rammentato conseguimento del parere favorevole di V.I.A.) nel caso di specie ove l’impianto, per cui era richiesta una variante sostanziale al progetto, non era munito di autorizzazione alla realizzazione né, di conseguenza, ad una gestione ed esercizio conforme alla stessa.
Tanto, del resto, trova espressa conferma nello stesso tenore testuale del richiamato art. 210che, nel delineare il suo ambito di applicazione, in modo chiaro prevede che la procedura semplificata ivi disciplinata può essere attivata da “coloro che alla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto non abbiano ancora ottenuto l’autorizzazione alla gestione dell’impianto ovvero intendano, comunque, richiedere una modifica all’autorizzazione alla gestione di cui sono in possesso, ovvero ne richiedano il rinnovo”.
L’art. 210 citato contempla, invero, una disciplina che individua con stretta tipicità la sua sfera di efficacia: ne consegue che, se pure l’impianto in parola fosse stato già esistente, precedentemente utilizzato o adibito ad altre attività, il regime semplificato avrebbe potuto trovare applicazione solo sul presupposto che l’impianto necessitasse della sola autorizzazione alla gestione (vale a dire quella contemplata dall’art. 28 del D.Lgs. n. 22 del 1997), non essendo perciò ragionevole non applicare il nuovo regime di autorizzazione unica (che assomma in sé i due titoli prima disciplinati separatamente dagli artt. 27 e 28 del d.lgs. n. 22 del 1997) nel caso opposto, come pure nell’eventualità, qui ricorrente, di previsione di modifiche sostanziali al progetto già approvato (e tali da richiedere la sottoposizione della nuova attività a valutazioni di impatto ambientale). Infatti, questa ultima ipotesi è expressis verbis attratta al regime autorizzatorio ordinario in base all’art. 208, comma 19, del T.u.a. secondo cui “Le procedure di cui al presente articolo si applicano anche per la realizzazione di varianti sostanziali in corso d’opera o di esercizio che comportino modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all’autorizzazione rilasciata”.
5.3.8. Peraltro, lo stesso art. 264 del T.U.A., nel prevedere l’abrogazione delle previgente disciplina, la esclude “per quelle disposizioni di cui il presente decreto prevede l’ulteriore vigenza”: tale norma, unitamente alla finalità espressa dal legislatore di assicurare che siano evitate soluzioni di continuità nel passaggio dal previgente regime a quello successivo, va intesa nel senso correttamente indicato dal primo giudice, secondo cui anche nell’attuale disciplina l’avvio dell’attività di smaltimento e trattamento dei rifiuti postula il rilascio di un’autorizzazione tanto alla realizzazione dell’impianto (con approvazione del progetto) quanto al suo esercizio, con conseguente attrazione al regime ordinario anche dei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della disciplina sopravvenuta per i quali non era stata rilasciata l’autorizzazione ai sensi dell’art. 27 del previgente decreto. In questo senso, corrette risultano nella sostanza le statuizioni della sentenza impugnata ove affermano che ciò che rileva non è il richiamo formale negli atti impugnati ad una determinata disciplina (quella previgente o quella sopravvenuta), ma piuttosto “l’effettiva osservanza delle regole poste dalla legge applicabile”, concludendo che, pertanto, a ragione si fosse fatto luogo nel caso di specie alla conferenza di servizi.
5.3.9. Non si ravvisano, dunque, disfunzioni o sviamenti né i vizi dedotti (di eccesso di potere e violazione di legge) nell’iter procedimentale seguito dalla Regione e sfociato nel provvedimento di diniego gravato.
6. Con il secondo motivo, l’appellante censura le statuizioni della sentenza che hanno condiviso il fulcro decisionale del provvedimento di diniego, rappresentato dal contrasto urbanistico dell’impianto con la destinazione di verde agricolo (zona (omissis)) del P.R.G. di (omissis), ritenendo (erroneamente, sempre ad avviso dell’appellante) che la stessa non sarebbe variata per effetto dei successivi condoni edilizi.
6.1. L’appellante contesta, in primo luogo, il travisamento della normativa vigente per quanto riguarda la portata oggettiva del giudizio di compatibilità territoriale: non sarebbe esatto ritenere, come ha fatto il primo giudice, che la disciplina di settore esiga la conformità urbanistica della localizzazione dell’intervento, dal momento che sarebbe espressamente previsto che l’approvazione del progetto equivale a variante al P.R.G.
Al contrario, rilevante sarebbe soltanto l’assenza di contrasto con la tutela territoriale e ambientale, assicurata, nella specie, dall’avvenuto rilascio della V.I.A. che avrebbe escluso il rischio di pericolo su tutti gli elementi del territorio in cui l’uomo vive.
6.2. La destinazione agricola non potrebbe comunque mai impedire la localizzazione di un impianto di stoccaggio di rifiuti, anche pericolosi: ciò tanto più che la stessa disciplina di settore (art. 216, comma 3, T.U.L.P.S.) stabilisce espressamente che le industrie insalubri di I categoria, cui è appunto riconducibile l’impianto in oggetto, devono essere “isolate nelle campagne e tenute lontano dalle abitazioni”.
6.3. Sotto altro concorrente profilo sarebbe censurabile la decisione di prime cure in quanto inficiata da illogicità per aver escluso qualsiasi rilevanza ai condoni edilizi, ritenendo che questi legittimassero il bene sotto il profilo urbanistico edilizio, ma non il suo uso.
6.4. In ogni caso, la ritenuta situazione di contrasto urbanistico sarebbe smentita dalla concreta situazione di fatto, in concreto esistente, che confermerebbe il carattere assiomatico ed astratto del giudizio espresso dal tribunale: a tacer d’altro, l’impianto confinerebbe ad est con una strada di conduzione agli impianti industriali di (omissis) e a sud con l’opificio di stoccaggio rifiuti della Ditta Pe., pure assentito con d.d. n. 607 del 27 luglio 2008; per il resto, l’intera zona sarebbe ormai industrializzata e, comunque, limitrofa all’area industriale di (omissis) (potendo perciò la piastra di stoccaggio e trattamento dei reflui dell’opificio utilizzarne tutte le infrastrutture).
6.5. Non a caso, con il citato decreto dirigenziale sarebbe stato autorizzato l’esercizio di un impianto di stoccaggio della società Pe., a confine con l’area in cui è ricompreso l’opificio della Ce. Am., e dunque nella stessa zona a destinazione agricola del Comune e per la medesima attività .
6.6. La censura non merita favorevole considerazione.
6.7. Il provvedimento di diniego impugnato presenta, invero, una motivazione complessa e articolata che si sofferma non solo sui profili afferenti alla compatibilità urbanistica in senso stretto, ma anche su quelli riguardanti la più ampia compatibilità territoriale su cui si sono espressi tutti gli enti partecipanti.
6.7.1. In particolare, in detto provvedimento l’Amministrazione regionale ha richiamato innanzitutto la delibera di Giunta provinciale n. 173 del 2006 che ritiene ostativa ad un ordinato assetto del territorio l’allocazione di impianti (come quello per cui è causa) in zone a destinazione agricola ed esclude, sino all’adozione del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, l’applicazione della procedura semplificata di variante a tali progetti (di cui all’art. 5 d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447).
6.7.2. È errato, poi, l’assunto di parte appellante secondo cui la concessione in sanatoria avrebbe impresso all’opificio l’invocata destinazione d’uso (quella di impianto di smaltimento rifiuti), in quanto essa vale solo a rendere l’edificio non abusivo sotto il profilo edilizio-urbanistico, ma non a legittimarne un uso non conforme alla destinazione urbanistica dell’area come risultante dagli strumenti urbanistici del Comune. Il conseguimento dei condoni edilizi non è, infatti, elemento idoneo a superare il dato fondamentale rappresentato dalla destinazione urbanistica dell’area (agricola) e dall’esistenza nel territorio comunale di (omissis) di una diversa zona finalizzata all’allocazione di impianti produttivi: il che delinea un quadro pianificatorio e di assetto territoriale incompatibile con la localizzazione, in quell’area, dell’impianto, in quanto contrastante con gli strumenti urbanistici comunali.
I condoni edilizi, in definitiva, non hanno affatto cristallizzato la destinazione d’uso dell’opificio preesistente, imprimendogli la destinazione di impianto per il trattamento e smaltimento dei rifiuti.
6.7.3. Sotto altro profilo, deve pure rilevarsi come la previsione per cui l’approvazione del progetto e l’autorizzazione all’esercizio e alla gestione possa costituire variante urbanistica, ove necessario, non poteva in concreto trovare applicazione nella fattispecie: come correttamente ritenuto nella sentenza appellata il rilascio dell’autorizzazione nel 1991 (scaduta nel 1995 e mai più rinnovata) non consentiva affatto di ritenere superata la questione della localizzazione urbanistica, non risultando in seguito l’impianto dotato di alcuna autorizzazione (ed approvazione del progetto) né ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, né del successivo D.Lgs. 152 del 2006.
6.7.4. Tali considerazioni, poste dal primo giudice a fondamento dal rigetto del ricorso e condivise dalla Sezione, non smentiscono, ma confermano i consolidati principi espressi dalla giurisprudenza richiamata dall’appellante, in base ai quali, nell’esercizio dei poteri di pianificazione del territorio da parte delle amministrazioni competenti, la localizzazione di un impianto produttivo in zona agricola e non industriale non costituisce di per sé motivo ostativo alla sua ammissibilità, dovendosi, da un lato, verificare in concreto la compatibilità dell’impianto per area di localizzazione e ferma restando, dall’altro, la preferenza per una sua localizzazione nelle aree industriali.
6.7.5. Tali criteri sono stati pienamente rispettati dalle amministrazioni nella fattispecie in esame.
La Regione ha, infatti, dato atto dell’inesistenza di un divieto assoluto di localizzazione dell’impianto in zona agricola, illustrando compiutamente le ragioni concrete, sulle base delle risultanze effettive dell’articolata istruttoria espletata (e non già alla stregua di generiche prassi, a ben vedere solo richiamate, ma non poste a fondamento del diniego), per cui ciò tuttavia non era assentibile nel caso di specie, senza pretermettere lo stato di fatto di preesistente, ma non potendo tuttavia attribuirgli la rilevanza prospettata dall’appellante (che, per quanto detto, non può dunque invocare la lesione di un affidamento tutelabile né l’esistenza di un’aspettativa qualificata ingenerata dai titoli abilitativi e dai condoni edilizi a suo tempo rilasciati a favore della Ce. Ec.); il Comune ha, inoltre, evidenziato che non intendeva autorizzare attività produttive localizzate al di fuori del realizzando PIP (Piano degli Insediamenti Produttivi), in corso di completamento (come da nota a firma del Sindaco di (omissis) prot. 1373 del 15 gennaio 2007).
6.7.6. A ragione il primo giudice ha ritenuto poi che non assuma neppure rilievo la circostanza che l’impianto sia limitrofo alla zona industriale del Comune di (omissis), in quanto ciò che rileva è la compatibilità con la programmazione urbanistica del Comune di (omissis).
6.7.7. Quanto poi all’assentita attività di stoccaggio di rifiuti del confinante opificio, si dà atto, in seno alla Conferenza, che detto impianto, contrariamente a quanto indicato nella relazione illustrativa, non risulta operante nel settore dei rifiuti e che la sua autorizzazione non è stata rinnovata: in ogni caso, l’eventuale autorizzazione di detta attività non può costituire argomento utile per ritenere, a sua volta, assentibile quella (di trattamento e stoccaggio dei rifiuti, pericolosi e non pericolosi) dell’impianto dell’appellante, dovendo, come già evidenziato, ogni valutazione sulla compatibilità della relativa localizzazione essere effettuata sulla base delle risultanze del caso specifico.
7. Le critiche formulate con il terzo motivo si appuntano, invece, sulla ritenuta legittimità del parere negativo dell’ASL Napoli 4 ai fini della localizzazione dell’impianto in zona agricola e sulla portata attribuita al medesimo nell’ambito della Conferenza dei Servizi per il rilascio dell’autorizzazione unica (alla realizzazione e all’esercizio dell’impianto).
7.1. Anche tale motivo è infondato.
7.1.2. Come correttamente ritenuto dal tribunale, il parere negativo dell’ASL sulla localizzazione dell’impianto in zona agricola non è fondato su astratte, vaghe e generiche considerazioni di natura urbanistica, non ricomprese nella materia di sua competenza, ma su valutazioni concrete e funzionali ad un giudizio di effettiva prevenzione igienico-sanitaria: tali sono, infatti, quelle espresse in relazione alla vicinanza dell’impianto a coltivazioni ortofrutticole destinate al consumo umano, all’elevato pericolo di inquinamento della falda acquifera derivante da possibili perdite di inquinanti (pericolo, non escluso neppure dalla relazione geologica di progetto che, anzi, raccomandava un costante monitoraggio del sito e dell’integrità delle strutture), alle evidenziate criticità dell’impianto e alle ricadute negative della sua collocazione sulla salute pubblica, specie a ragione della sua capacità di stoccare e trattare notevoli quantità di rifiuti.
7.1.3. Il giudizio negativo espresso in termini di incompatibilità dell’insediamento per l’intrinseca pericolosità di un’attività insalubre e fortemente inquinante in zona agricola (soprattutto, ma non solo, perché caratterizzata dalla presenza di coltivazioni ortofrutticole destinate al consumo umano) è altresì corroborato da ulteriori affermazioni, inerenti ulteriori aspetti problematici e criticità, quali: a) lo smaltimento dei reflui in fognatura, in assenza di specificazione in ordine al titolare della rete, e la loro depurazione, vista l’inadeguatezza rispetto alle esigenze dell’intera area, riscontrata a seguito di indagini svolte dalla stessa ASL delegate dalla Procura della Repubblica, del depuratore regionale di Boscofangone-(omissis) (a causa di scarichi fuori dai limiti accettabili e conseguente rischio che i reflui possano riversarsi nei Regi Lagni, inquinando i territori da essi percorsi); b) l’insufficiente indicazione sulle modalità di convogliamento delle acque; c) l’assenza di un sistema per l’abbattimento delle esalazioni da essiccazione dei fanghi e la mancanza di un sistema di captazione di emissioni; e) l’immediata vicinanza ai centri abitati (in particolare la frazione di (omissis)), con pericolo per la salute della popolazione raggiunta dalle emissioni (il che smentisce in radice l’assunto dell’appellante circa il presunto esercizio dell’attività insalubre in aree isolate nelle campagne); d) il concreto pericolo di inquinamento della falda acquifera (in specie quella superficiale); e) i pericoli connessi all’aumento del traffico veicolare (per le ridotte dimensioni della strada di accesso all’impianto) e il conseguente aumento dell’inquinamento atmosferico, anch’esso incompatibile con la caratterizzazione agricola dell’area (anche a causa dell’inidoneità delle infrastrutture presenti nell’area a raccogliere un transito elevato di mezzi pesanti, per giunta carichi di rifiuti, sicché l’eventuale percolamento potrebbe defluire sui terreni coltivati); f) l’assenza di una rete fognaria comunale a servizio dell’area su cui sorge l’impianto (con possibilità che i liquidi eventualmente fuoriusciti vadano a confluire nelle campagne circostanti) e la presenza del solo collettore fognario regionale, che avrebbe richiesto un’apposita autorizzazione (non conseguita) dell’ente competente a immettervi le acque.
7.1.4. Alla stregua di tali elementi valorizzati nell’istruttoria espletata, deve allora convenirsi che la destinazione agricola dell’area ha assunto una portata ben più ampia, ai fini del giudizio di incompatibilità della localizzazione dell’impianto, in quanto rapportata alle esigenze del territorio e alla tutela di tutti gli interessi di cui gli enti coinvolti sono portatori: giova a tal proposito evidenziare che, con decreto del Ministero dell’Ambiente del 31 gennaio 2006, l’area del Comune di (omissis) è stata peraltro inclusa nella perimetrazione del sito di interesse nazionale del Litorale (omissis), ritenuto “ad alto rischio ambientale”.
7.1.5. Sotto altro concorrente profilo, la zona agricola possiede una valenza conservativa dei valori naturalistici che stride in maniera insanabile con l’insediamento su di essa di un opificio suscettibile di introdurre consistenti disequilibri ambientali (si pensi alla rammentata immissione di agenti inquinanti sui terreni coltivati).
7.1.6. L’ASL ha, infatti, spiegato con puntuali e doviziose argomentazioni tecniche, alla luce del progetto e delle relazioni tecniche e geologiche allegate, le ragioni per cui l’impianto non poteva considerarsi “di limitata potenzialità ” stante, tra l’altro, la sua idoneità a produrre consistenti esalazioni dannose per la salute pubblica (anche per la presenza nell’impianto di rifiuti di sostanze organiche volatili: si veda pagina 47 e 48 della Relazione tecnica).
7.1.7. Nell’esprimere tali valutazioni in ordine ad una potenziale fonte di inquinamento, l’ASL (e nella specie il competente Dipartimento di Prevenzione) non ha travalicato le sue competenze, ma ha perseguito i compiti ad essa attribuiti (ai sensi dell’art. 7 bis, comma 1, D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229), garantendo la tutela della salute collettiva e verificando la compatibilità del progetto con tali esigenze di tutela.
7.1.8. Si tratta di valutazioni inerenti il profilo igienico-sanitario che, come correttamente ritenuto dal giudice di prime cure, involge aspetti differenti e ulteriori rispetto a quelli oggetto della valutazione di compatibilità ambientale: sicché, da un lato, il diverso oggetto del giudizio comportava, come difatti avvenuto, che potesse giungersi ad esiti differenti, dall’altro le valutazioni espresse dall’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (A.R.P.A.C.) di cui la Regione si è avvalsa per l’istruttoria tecnica non assorbono né esauriscono le competenze dell’ASL in materia di prevenzione sanitaria e igiene pubblica; ciò in quanto un giudizio di compatibilità ambientale non può prescindere dalla considerazione dei concorrenti profili attinenti alla tutela della salute, per la potenziale incidenza che su di essa possono avere fenomeni inquinanti derivanti dall’installazione di impianti quale è quello per cui è causa.
7.1.9. La sentenza impugnata evidenzia altresì in maniera corretta per quali ragioni non potesse darsi rilievo al nulla-osta rilasciato dall’ASL alla società Ce. Ec. nel lontano 1990 per “l’esercizio degli impianti per il trattamento delle acque biologiche e tecnologiche industriali anche di tipo tossico nocivo, rispettando le norme vigenti”: ciò per l’intuitiva considerazione per cui si trattava di valutare un diverso progetto rispetto ad un impianto fermo sin dal 1995 e caratterizzato da un significativo incremento della potenzialità inquinante (per l’evidenziata capacità di trattare e stoccare una notevole quantità di rifiuti).
Per le stesse ragioni non poteva neppure tenersi conto del verbale del 1991 richiamato dalla società nel corso della Conferenza che riguardava unicamente una visita ispettiva e dava conto dei trattamenti eseguiti presso gli impianti gestiti dalla Ce. Ec. su rifiuti speciali in base alle classificazioni allora vigenti e sulla tipologia dei rifiuti ivi stoccati e trattati, senza tuttavia esprimere alcun parere in ordine alla compatibilità sotto il profilo igienico-sanitario che, comunque, quand’anche esistente, riguardando le metodologie di trattamento e l’adozione di cautele per contenere i fattori inquinanti adottate all’epoca dell’accertamento, sarebbe stato ininfluente ai fini delle valutazioni inerenti l’odierno impianto.
8. Con il quarto motivo l’appellante deduce che avrebbe errato il giudice di prime cure nel ritenere infondate le censure di difetto di motivazione e carenza di istruttoria formulate avverso il parere della Provincia, sull’erroneo presupposto del mancato invio da parte della Centro Ambiente di documentazione il cui inoltro sarebbe stato reiteratamente sollecitato dall’Amministrazione; il tribunale non si sarebbe infatti avveduto che le note istruttorie richieste riguarderebbe il distinto procedimento di V.I.A., conclusosi con decreto assessorile prot. n. 223 del 3 marzo 2006 e che la Provincia aveva così oscurato, adducendo pretestuose lacune documentali, il deficit motivazionale sotteso al proprio giudizio. La carenza documentale avrebbe, ad ogni modo, potuto giustificare un differimento nell’esercizio del potere, ma non un provvedimento di diniego.
8.1. Il motivo è infondato.
8.2. Meritano, infatti, conferma le statuizioni della sentenza impugnata, non ravvisandosi la prospettata carenza di istruttoria, né un difetto di motivazione: invero l’appellante non ha dimostrato di aver ottemperato a fornire la documentazione richiestale, limitandosi a dissentire sulla sua utilità sol perché tale documentazione afferirebbe, a suo avviso, al diverso procedimento di valutazione di compatibilità ambientale, già conclusosi favorevolmente. Senonché il procedimento per il conseguimento della V.I.A. costituiva un segmento dell’iter procedimentale, più ampio, volto ad ottenere l’autorizzazione unica all’impianto: non sussistono pertanto elementi per ritenere pretestuose e inconferenti le richieste istruttorie della Provincia la quale peraltro anche con nota successiva al decreto assessorile di V.I.A. (nota prot. n. 1583 del 29 marzo 2006), indirizzata alla Regione e alla società interessata, lamentava l’omessa integrazione documentale da parte di quest’ultima e, ancora, nel verbale della Conferenza del 14 luglio 2006 evidenziava che la società non aveva prodotto in tempo utile la documentazione richiesta ai fini di una compiuta valutazione dell’istanza, ritenendo comunque di non doversi discostare dai pareri negativi espressi dal Comune e dall’ASL.
8.3. Ad ogni modo, come correttamente ritenuto dal primo giudice, l’assenza di un adeguato parere della Provincia non riveste alcuna portata rilevante e idonea ad inficiare la determinazione conclusiva della Regione, stante la natura istruttoria della Conferenza dei servizi che l’ha preceduta ed in cui tale parere, avente valenza meramente endoprocedimentale, è stato acquisito.
9. Infine, con il quinto mezzo di censura la società appellante assume la non condivisibilità delle statuizioni di prime cure che hanno respinto il settimo e ottavo motivo di ricorso, con cui si era stata contestata l’illegittimità del diniego regionale perché non sorretto da autonoma valutazione ed adottato senza alcuna considerazione in merito alle osservazioni presentate dalla Centro Ambiente ai sensi dell’art. 10 bis legge n. 241 del 1990.
9.1. Anche tale motivo non merita accoglimento.
9.2. Deve rilevarsi come nel provvedimento impugnato (nel quale sono state pure recepite e trascritte integralmente le determinazioni in senso negativo adottate nella Conferenza di Servizi, senza che ciò comporti un’adesione immotivata e acritica alle medesime determinazioni) siano state prese in considerazione, con autonoma valutazione, le osservazioni della società appellante e siano state altresì compiutamente esternate le ragioni per cui il parere favorevole di V.I.A., costituendo condizione necessaria, ma non sufficiente al perfezionamento del procedimento sfociante nel rilascio dell’autorizzazione unica, non poteva di per sé condurre ad esiti diversi, in quanto non esauriva la valutazione di tutti i profili ed interessi incisi dall’approvazione del progetto inerente l’impianto in parola, non consentendo di superare le valutazioni di segno opposto espresse dagli enti partecipanti nelle materie rimesse alle loro rispettive attribuzioni.
9.3. È pertanto errato e non condivisibile l’assunto dell’appellante secondo cui la valutazione favorevole di impatto ambientale svaluterebbe di fondamento i rilievi negativi delle altre amministrazioni.
9.4. Si tratta di profili che, come correttamente ritenuto dal tribunale, sono stati adeguatamente valorizzati nel provvedimento impugnato ove si dà atto che, anche a voler qualificare la domanda come istanza di mero rinnovo (seguendo la prospettazione della società ), il rilascio del titolo abilitativo per l’insediamento postulava (come peraltro riconosciuto dalla stessa Centro Ambiente nelle sue osservazioni), anche nella disciplina previgente (come nell’attuale), un articolato iter istruttorio, preordinato tanto alla valutazione dell’impatto ambientale quanto al giudizio sulla compatibilità del progetto con le esigenze ambientali e territoriali, nonché sulla sua idoneità sotto l’aspetto igienico-sanitario.
9.5. Non può pertanto condividersi l’assunto dell’appellante secondo cui l’omessa considerazione da parte della Regione della V.I.A. favorevole e del parere espresso dall’A.R.P.A.C. disveli un utilizzo distorto del modulo procedimentale della Conferenza: ciò in quanto unicamente sotto il profilo della compatibilità ambientale si era espresso parere favorevole (sia pure con prescrizioni) da parte degli organi a ciò preposti, ma quello ambientale, come si è detto, costituiva solo uno degli aspetti potenzialmente incisi dall’esercizio dell’attività da autorizzare; il che esclude i prospettati profili di contraddittorietà nell’esercizio dei poteri amministrativi.
Non a caso la Regione, come si è evidenziato, correttamente ha disposto la convocazione della Conferenza di servizi tra gli enti interessati (non coinvolti, difatti, nella fase anteriore di formazione della valutazione di compatibilità ambientale) “per l’acquisizione di tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con le disposizioni vigenti in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute e sicurezza sul lavoro e di igiene pubblica” (così testualmente il decreto di diniego impugnato).
9.6. Il diniego regionale contiene pure un’autonoma valutazione sulle ragioni per cui, pur in mancanza di un divieto assoluto alla localizzazione di un impianto in zona agricola, non fosse nondimeno autorizzabile l’ubicazione prospettata nel caso di specie, a ragione dell’assenza di un’approvazione condivisa del progetto e dei pareri sfavorevoli espressi al riguardo, in seno alla Conferenza, da tutte le amministrazioni interessate siccome portatrici di plurimi e differenti interessi (il Comune alla programmazione del proprio territorio, la Provincia ad assicurare le funzioni di controllo ambientale e urbanistico, l’ASL alla tutela della salute e dell’igiene pubblica): ciò in attuazione delle finalità alla cui realizzazione è per legge preordinata la Conferenza di servizi che, come prevede lo stesso art. 208, acquisisce e valuta tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con le molteplici esigenze ambientali e territoriali.
10. In conclusione, l’appello va respinto.
11. Sussistono, tuttavia, giusti motivi, in considerazione della complessità delle questioni trattate, per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Dispone compensarsi tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 gennaio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Carlo Saltelli – Presidente
Claudio Contessa – Consigliere
Fabio Franconiero – Consigliere
Valerio Perotti – Consigliere
Angela Rotondano – Consigliere, Estensore

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