Suprema Corte di Cassazione

Sezioni unite civili

sentenza n. 8077  del 22 maggio 2012

 

 

Svolgimento del processo

 

Con atto notificato il 31 agosto 1999 il curatore del fallimento della Casillo Grani s.n.c. citò la Banca Popolare di Novara in giudizio dinanzi al Tribunale di Foggia proponendo sia una domanda di risarcimento dei danni per concessione abusiva di credito alla società ormai decotta, sia una domanda di revoca di atti negoziali e di pagamenti eseguiti da detta società nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento.
Con sentenza non definitiva il tribunale dichiarò improcedibili le domande revocatorie, perchè, ad onta delle specificazioni fornite dall’attore nel termine a tal fine assegnatogli in corso di causa, reputò che il loro oggetto non fosse sufficientemente determinato.
Rigettò invece l’analoga eccezione sollevata dalla banca convenuta con riferimento alla domanda risarcitoria, così come l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del curatore, e provvide con separata ordinanza alla prosecuzione del giudizio relativo a tale ultima domanda.
La corte d’appello di Bari, chiamata a pronunciarsi sui contrapposti gravami di entrambe le parti, con sentenza depositata il 29 luglio 2005, rigettò l’impugnazione del fallimento ed accolse invece quella della banca, sia con riguardo alla nullità della citazione per difetto di specificità anche dell’oggetto della domanda risarcitoria, sia per difetto di legittimazione del curatore a proporre

tale domanda, che fu perciò respinta. La curatela fu condannata al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il curatore del fallimento.
Il Banco Popolare di Verona e Novara (subentrato alla Banca Popolare di Novara) ha resistito con controricorso.
La prima sezione civile di questa corte, cui la causa era stata inizialmente affidata, con ordinanza n. 20146 del 2011, premesso che col ricorso principale è stata posta in discussione la sussistenza dei requisiti di validità dell’atto di citazione in giudizio, con particolare riferimento all’individuazione dell’oggetto della domanda, e che nella giurisprudenza di legittimità si rinvengono indicazioni difformi quanto alla possibilità che, in casi siffatti, il giudice di cassazione svolga un esame diretto degli atti processuali di cui si discute, piuttosto che limitarsi a valutare la sufficienza e logicità della motivazione esposta in argomento dal giudice di merito, ha sollecitato la rimessione della questione alle Sezioni unite. Sono state depositate memorie.

Motivi della decisione

1. Il ricorso, rivolto unicamente contro i capi della sentenza impugnata che hanno negato ingresso all’azione revocatoria proposta dalla curatela del fallimento ed hanno provveduto di conseguenza sulle spese del giudizio, denuncia la violazione degli artt. 163 e 164 c.p.c., nonchè vizi di motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alla ritenuta nullità dell’atto di citazione per insufficiente determinazione dell’oggetto della domanda.
La banca controricorrente, prima ancora di sostenere l’infondatezza nel merito del ricorso, ne ha eccepito l’inammissibilità, assumendo che con esso si vorrebbe sollecitare il riesame di profili la cui valutazione è rimessa alla competenza esclusiva del giudice di merito. Ciò investe la questione per la quale il ricorso è stato rimesso all’esame delle sezioni unite, occorrendo che si definiscano preliminarmente ì limiti dell’indagine che il giudice di legittimità è chiamato a compiere in presenza della denuncia di vizi che, come nella specie, attengono alla corretta applicazione di norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione del giudice di merito, ma, al tempo stesso, comportano anche la verifica del modo in cui uno o più atti di quel processo sono stati intesi e motivatamente valutati da parte dello stesso giudice di merito.
2. Il principio, assolutamente consolidato, secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto (inteso qui, ovviamente, come fatto processuale) ed è perciò investita del potere di procedere direttamente all’esame ed alla valutazione degli atti del processo di merito (si vedano tra le altre, a mero titolo d’esempio, Cass. n. 14098 del 2009, n. 11039 del 2006, n. 15859 del 2002 e n. 6526 del 2002) non sempre si armonizza agevolmente con l’affermazione, pure assai frequente, che assegna in via esclusiva al giudice di merito il compito d’interpretare gli atti processuali di parte, e quindi d’individuarne il significato ed il contenuto giuridico, circoscrivendo il sindacato della Cassazione ai soli eventuali vizi di motivazione nei quali detto giudice di merito sia eventualmente incorso nell’espletamento di tale compito (sempre solo a titolo d’esempio, si vedano Cass. n. 5876 del 2011, n. 20373 del 2008, n. 7074 del 2005 e n. 19416 del 2004; ma si veda anche Cass. n. 9471 del 2004, che ha ammesso la possibilità di esame diretto degli atti di causa ad opera della Suprema corte al fine di stabilire se l’errore processuale in cui sia eventualmente incorso il giudice di merito abbia dato luogo ad un vizio di motivazione nell’interpretazione del contenuto della domanda).

La questione si può riproporre in una molteplicità di casi, accomunati dalla natura processuale del vizio denunciato dal ricorrente e dalla sua interdipendenza con l’interpretazione da dare ad una domanda o ad un’eccezione di parte.

Qui occorre però concentrare in modo particolare l’attenzione sulla fattispecie in relazione alla quale è stato sollecitato l’intervento delle sezioni unite: che si riassume nello stabilire se il sindacato di legittimità sulla nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza del petitum o della causa petendi debba esplicarsi nell’esame diretto dei dati processuali rilevanti al fine di ravvisare l’esistenza o meno di tale nullità, anche a prescindere dalla valutazione che di quei dati abbia già fornito il giudice di merito e da come egli l’abbia motivata, oppure se, implicando il giudizio sulla determinatezza dell’oggetto della domanda e delle ragioni che la sorreggono necessariamente anche una preliminare opera d’interpretazione della domanda medesima, come tale riservata al giudice di merito, alla Corte di cassazione competa solo di vagliare la sufficienza e la logicità della motivazione esposta sul punto nell’impugnata sentenza, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Talune decisioni di questa corte appaiono senz’altro orientate in quest’ultima direzione, poichè vi si afferma che la lettura complessiva del ricorso, al fine di valutare la determinabilità dell’oggetto della domanda, costituisce apprezzamento di fatto, cometale riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione (Cass. n. 7074 del 2005 e n. 7479 dei 2003), o che la valutazione sull’idoneità dei documenti prodotti in causa per meglio specificare il contenuto della domanda, se suffragata da adeguata valutazione, non è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 16591 del 2008).

Si registrano però anche pronunce secondo le quali la denuncia di errata applicazione dell’art. 164, comma 4, in relazione all’art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 3 e 4, (o delle corrispondenti norme processuali vigenti nel rito del lavoro), si riferisce ad un error in procedendo e perciò comporta che la Corte di cassazione debba accertare direttamente se la violazione processuale vi sia stata, indipendentemente dalla giustificazione della decisione impugnata (si vedano, ad esempio, Cass. n. 14065 del 2008, n. 15817 del 2004, n. 7089 del 1999, n. 12067 del 1991).

Un corollario che sovente si trae da questo secondo orientamento è poi quello dell’inammissibilità, in simili casi, della proposizione di motivi di ricorso riconducibili alla previsione del citato art. 360, n. 5, appunto perchè la verifica ad opera del giudice di legittimità dell’esistenza di errores in procedendo, occorsi nelle precedenti fasi del giudizio, non è condizionata dalla motivazione sul punto dell’impugnata sentenza.
3. Ciò posto, è opportuno ricordare che la stessa distinzione tra errores in iudicando ed errores in procedendo, il cui fondamento ultimo è stato talora messo in dubbio dalla dottrina, la quale ha fatto notare come l’errore abbia sempre ad oggetto l’interpretazione o l’applicazione di una norma di legge, sia essa sostanziale o processuale, trova nondimeno una sua plausibile ragion d’essere proprio nella diversa latitudine che il giudizio di cassazione assume a seconda che abbia ad oggetto l’uno o l’altro tipo di errore:
nell’un caso negandosi e nell’altro ammettendosi che la Corte di cassazione abbia il potere di controllare direttamente le circostanze di fatto sulle quali è basata la decisione impugnata.
Può convenirsi sul rilievo che questa diversa latitudine dei poteri del giudice di legittimità, pur se radicata da lunghissimo tempo nella giurisprudenza e recepita dalla dottrina di gran lunga prevalente, non risulta formulata in modo espresso dal legislatore.
Essa non è però priva di riscontro nel testo normativo ed ha un fondamento razionale.
Il motivo per il quale la cognizione della Corte di cassazione non si estende all’accertamento del fatto, quando ad essere denunciato col ricorso sia un errore di giudizio vertente sul rapporto sostanziale, dipende dalla scelta di attribuire a detta corte funzione di giudice di legittimità e di non trasformare il ricorso per cassazione in un ulteriore grado di merito. Scelta che ha ben note radici storiche ed è attestata dalla stessa definizione degli errori di diritto deducibili col ricorso, in termini di “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con esclusione quindi delle censure afferenti ai presupposti di fatto rilevanti ai fini dell’applicazione di quelle norme. Ora, è vero che anche gli errores in procedendo possono essere frutto della violazione o della falsa applicazione di una norma di diritto, in quanto anche il rapporto processuale è disciplinato da norme di diritto, ma in questo caso – quando, cioè, il motivo di ricorso sia riconducibile alla previsione del successivo n. 4 del medesimo comma 1 dell’art. 360 – è la nullità della sentenza o del procedimento a dover essere sindacata dalla Suprema corte: e la nullità dipende da un difetto di attività del giudice o delle parti, cioè proprio da un fatto (processuale), sul quale dunque il giudizio verte e del quale la Corte di cassazione deve necessariamente poter prendere cognizione. Appare quindi ben evidente, specialmente con riguardo ai vizi del procedimento, come in questo caso l’oggetto dello scrutinio che è chiamato a compiere il giudice di legittimità, a differenza di quel che accade con riferimento agli errores in iudicando denunciati a norma dell’art. 360, comma 1, n. 3, non sia costituito dal contenuto della decisione formulata nella sentenza (che segna solo il limite entro cui la parte ha interesse a dedurre il vizio processuale), bensì direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver provocato. E’ perciò del tutto naturale che la Corte di cassazione debba prendere essa stessa cognizione di quei fatti.
La diversa latitudine dei poteri di cognizione del giudice di legittimità, nelle due situazioni di cui s’è detto, si spiega inoltre anche con la considerazione che un conto è rilevare un errore di giudizio imputabile al giudice di merito nell’esame del rapporto sostanziale dedotto in lite, altro conto è ravvisare un errore di attività che, essendosi verificato nel corso del processo, ne possa avere inficiato l’esito. Si è osservato che nelle due diverse ipotesi sopra indicate il “fatto” ha una pregnanza ed un rilievo differenti: perchè, se attiene alle circostanze del rapporto sostanziale, quel “fatto”, che il giudice di merito è chiamato ad accertare, è anteriore al processo ed esaurisce la propria funzione nella sua stessa valenza storica; ed, invece, se attiene al rapporto processuale, il “fatto” si colloca all’interno di una vicenda che è tuttora in corso di sviluppo, sia quando quella vicenda ancora si sta svolgendo nella fase del giudizio di merito sia quando è transitata nel giudizio di legittimità, che pur sempre nel medesimo rapporto processuale s’inserisce.

Vi è, insomma, una fondamentale unitarietà del procedimento, pur nei diversi gradi e fasi in cui si svolge, che ne rende il vizio sempre attuale, ove sia tale da incidere sulla decisione della causa e da compromettere la realizzazione di quello che oggi la Carta costituzionale e lo stesso codice di rito hanno definito il “giusto processo”. Ed è questo che giustifica – ed al tempo stesso impone – anche al giudice di legittimità di conoscere dell’errar in procedendo in ogni suo aspetto (a condizione, ovviamente, che sia stato denunciato nei termini e secondo le regole proprie del ricorso per cassazione), perchè la rottura della corretta sequenza procedimentale investe in ultima analisi anche il medesimo giudizio di cassazione e dunque colui che vi è preposto deve direttamente accertarsene. Proprio la fattispecie in esame lo evidenzia, giacchè l’eventuale nullità dell’atto introduttivo del giudizio, dovuta ad un difetto di determinazione dell’oggetto o delle ragioni della domanda, ove in concreto ravvisabile, comporta un vulnus del contraddittorio che, prodottosi al principio del processo, non potrebbe poi non contagiarne l’intero sviluppo successivo.
Se è questo il fondamento sul quale riposa l’estensione anche ai profili di fatto dell’esame che la Corte di cassazione è chiamata a svolgere, quando sia denunciato un vizio del procedimento svoltosi dinanzi al giudice di merito, non sembra coerente postulare che quell’esame debba ridursi alla valutazione di sufficienza e logicità della motivazione del provvedimento impugnato, sol perchè la cognizione del fatto processuale in ordine al quale il vizio è stato dedotto implichi un’attività connotata anche da profili valutativi o interpretativi.
“Fatto processuale” è quello che ha rilevanza ai fini dello svolgimento del processo, che cioè è idoneo a produrre effetti sul rapporto processuale. Come per ogni evento della realtà non lo si può percepire senza, per ciò stesso, dargli un significato: senza, quindi, interpretarlo ed, almeno sotto certi aspetti, valutarlo per intenderne gli effetti, giacchè s’è già visto che sono proprio i suoi effetti – in termini di eventuale nullità della sentenza o del procedimento – a formare oggetto del giudizio di cassazione. Se si afferma che la Corte di cassazione è giudice del fatto processuale, non si può allora non dedurne che le compete percepire direttamente e pienamente quel fatto, apprezzarne la portata ed individuarne il significato e la concreta idoneità a produrre effetti nel processo, perchè solo in tal modo è possibile vagliarne la conformità al modello legale.

Ne deriva l’ulteriore corollario che è inammissibile, se verte su questo profilo, il motivo di ricorso con cui si denuncino vizi di motivazione del provvedimento impugnato, giacchè non è attraverso la motivazione del provvedimento impugnato, o non solo attraverso di essa, che la Corte di cassazione conosce del vizio processuale denunciato dal ricorrente.
4. Due precisazioni tuttavia ancora s’impongono.
4.1. La prima è che quanto ora detto attiene solo, ovviamente, a quei vizi del processo che si sostanziano nel compimento di un’attività deviante rispetto alla regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore. E’ quel che accade, appunto, quando si tratta di stabilire se sia stato o meno rispettato il modello legale d’introduzione del giudizio che richiede una modalità di formulazione della domanda idonea,alla corretta instaurazione del contradditorio.
Altro è invece il caso in cui lo stesso legislatore abbia conferito al giudice di merito il potere di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine ne valutare se e quale attività possa o debba essere svolta. Si pensi, a titolo d’esempio, alla scelta di disporre o meno una consulenza tecnica, di ordinare un’ispezione o un’esibizione di cose o documenti; ma si pensi anche alle valutazioni che il giudice è chiamato a compiere in ordine alla rilevanza di mezzi di prova dei quali sia stata chiesta l’ammissione o all’indispensabilità di documenti prodotti per la prima volta in appello: situazioni tutte nelle quali la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perchè siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perchè, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle.

4.2. E’ poi appena il caso di aggiungere – e lo si è già del resto accennato – che il riconoscere al giudice di legittimità il potere di cognizione piena e diretta del fatto processuale, nei termini sopra chiariti, non comporta certo il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal codice di rito per la proposizione e lo svolgimento di qualsiasi ricorso per cassazione, ivi compreso quello con cui si denuncino errores in procedendo.
Ciò vuoi dire non solo che, com’è del tutto ovvio, i vizi del processo non rilevatali d’ufficio possono esser conosciuti dalla Corte di cassazione solo se, e nei limiti in cui, la parte interessata ne abbia fatto oggetto di specifico motivo di ricorso, ma anche che la proposizione di quel motivo resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della corte.
Nemmeno in quest’ipotesi viene meno, in altri termini, l’onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d’impugnazione, ora tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (disposizioni in cui si fa espressa menzione anche degli “atti processuali”, ma che, peraltro, non sono applicabili, ratione temporis, nella presente causa): sicchè l’esame diretto degli atti che la corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato.

5. E’ possibile allora formulare i seguente principio di diritto:
“Quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)”. 6. L’applicazione del suesposto principio al caso in esame fa sì che il ricorso proposto dalla curatela del fallimento debba esser preso in considerazione solo nella parte in cui è riconducibile alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, risultando irrilevante la denuncia di vizi di motivazione dell’impugnata sentenza.

6.1. Procedendo oltre nell’esame del suaccennato ricorso, giova premettere che la nullità della citazione si produce, a norma dell’art. 164 c.p.c., comma 4, solo quando il petitum sia stato del tutto omesso o sia assolutamente incerto, oppure quando manchi del tutto l’esposizione dei fatti costituenti la ragione della domanda.
Nello scrutinare la conformità dell’atto al modello legale, l’identificazione dell’oggetto della domanda va peraltro operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, producendosi la nullità solo quando, all’esito del predetto scrutinio, l’oggetto risulti “assolutamente” incerto. Ma occorre anche tener conto che quest’ultimo elemento deve essere vagliato in coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che impone all’attore di specificare sin dall’atto introduttivo, a pena di nullità, l’oggetto della sua domanda: ragione che risiede nell’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora che di offrire al giudice l’immediata contezza del thema decidendum), con la conseguenza che non può prescindersi, nel valutare il grado d’incertezza della domanda, dalla natura del relativo oggetto e dalla relazione in cui, con esso, si trovi eventualmente la controparte: se tale, cioè, da consentire, comunque, un’agevole individuazione di quanto l’attore richiede e delle ragioni per cui lo fa, o se, viceversa, tale da rendere effettivamente difficile, in difetto di maggiori specificazioni, l’approntamento di una precisa linea di difesa (cfr. già, in tal senso, Cass. n. 17023 del 2003 e n. 27670 del 2008). Donde si è tratta la conseguenza che l’atto di citazione per la revoca di rimesse in conto corrente bancario non è affetto da nullità per vizio del petitum se l’attore ha identificato una somma minima o un importo complessivo ed ha chiesto la revoca di tutte le rimesse affluite, non essendo necessaria per l’individuazione della domanda l’indicazione di ciascuna singola rimessa revocabile (Cass. n. 17023 del 2003, cit. e n. 14676 del 2007).
Giova altresì precisare che la nullità dell’atto di citazione può essere dichiarata soltanto in situazioni nelle quali l’incertezza investe l’intero contenuto dell’atto. Nel caso, invece, in cui risulti possibile individuare una o più domande sufficientemente identificate nei loro elementi essenziali, l’eventuale difetto di determinazione di altre domande, malamente formulate nel medesimo atto, comporterà l’improponibilità solo di quelle, ma non anche la nullità della citazione nella sua interezza.

6.2. Ciò chiarito, non resta che procedere all’esame dell’atto di citazione di cui si discute nel presente ricorso.
Tale esame consente subito di rilevare come la quasi totalità di quell’atto sia dedicato ad illustrare le ragioni della proposta domanda di risarcimento dei danni per abusiva concessione di credito da parte della banca alla società in procinto di fallire. Aspetti, questi, che evidentemente non rilevano ai fini della precisa individuazione dell’altra domanda, avente ad oggetto la revoca di atti o pagamenti posti in essere da detta società nell’arco di tempo preso in considerazione dalla già citata L. Fall., art. 67. Tale ultima domanda è infatti prospettata, in termini alquanto laconici, solo nella parte terminale dell’atto di citazione, subito prima della formulazione delle conclusioni, nel seguente modo: “Debbono inoltre essere revocati i pagamenti ricevuti dalla banca convenuta nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Nel biennio anteriore, e almeno fino al luglio del 1993,le varie banche e le società di factoring spesso collegate agli istituti di credito o loro diretta emanazione continuavano a prendere tutto ciò che era possibile prendere; si rendevano cessionarie di crediti di ogni tipo; facevano propri i fondi provenienti da banche estere; vendevano titoli e realizzavano quelli offerti in garanzia dalle varie società del gruppo riversandone il netto ricavo sui conti correnti che scoppiavano; incameravano i saldi dei libretti di garanzia;
compensavano, ecc. Si tratta di atti estintivi di debiti effettuati con mezzi anomali o, comunque di prestazioni di garanzia per debiti preesistenti non scaduti, come tali sottoposti a revocatoria fallimentare”. Nelle pagine precedenti la curatela attrice aveva peraltro riferito espressamente di versamenti effettuati dalla società su un ben identificato conto corrente bancario per L. 487.480.000 nell’anno 1992, sul medesimo conto per L. 2.449.738.832 nell’anno 1993 e su un altro conto, del pari ben identificato, per L. 8.614.106.694 nell’anno 1994. Nelle conclusioni dell’atto, dopo la formulazione della domanda di risarcimento del danno, è esposta anche la domanda revocatoria, che si dirama in plurimi oggetti, giacchè viene chiesta la revoca sia degli “atti a titolo oneroso a norma della L. Fall., art. 67, comma1, in considerazione dello smodato tasso di interessi praticato e per finalità non conformi all’attività di credito”, sia di “tutti i versamenti effettuati con mezzi propri di pagamento a norma della L. Fall., art. 67, comma 2 o tramite dazione di pegno, cessioni di credito, mandati a riscuotere o altri mezzi analoghi, a norma dell’art. 67, comma 1, n. 2, o subordinatamente a norma della L. Fall., art. 67, comma 1, n. 3, dalla fallita Casillo Grani s.n.c., e dai suoi soci sigg.ri C. P., C.A. e A.L.”, con una conclusiva richiesta di condanna al “pagamento della somma di L. 11.601.325.526 per gli anni 1992-1993 ed alla somma da determinarsi in corso di causa per l’anno 1994, ovvero alle somme che saranno accertate in corso di giudizio, oltre interessi legali”. La successiva memoria di precisazione della domanda non ha apportato a questo quadro significative variazioni.

Da tutto ciò si può agevolmente desumere che, se per un verso restano effettivamente del tutto imprecisati gli atti a titolo oneroso dei quali la curatela attrice ha chiesto la revoca richiamandosi alla previsione del n. 1 del comma 1 del citato art. 67, così come i pagamenti con mezzi anomali che si vorrebbero ricondurre alla previsione dei successivi nn. 2 e 3, altrettanto non è a dirsi per almeno una parte dei pagamenti che si assume essere revocabili a norma del secondo comma. Pagamenti indicati, è vero, in modo ridondante e per certi versi impreciso nelle conclusioni, laddove si mettono insieme alla rinfusa dazioni di pegno, cessioni di credito, ed altre analoghe situazioni di cui nel medesimo atto non è fornita traccia, ma che risultano nondimeno inequivocabilmente riferibili anche a quei versamenti in conto corrente prima specificamente indicati, come è confermato dalla coincidenza dell’importo complessivo di questi con la somma di cui nelle conclusioni si chiede la condanna della banca convenuta alla restituzione.
Nè la circostanza che la curatela attrice abbia chiesto la revoca di pagamenti intervenuti in un arco di tempo superiore all’anno che ha preceduto il fallimento, nè quella (particolarmente sottolineata dall’impugnata sentenza) che possa esservi incertezza sugli estremi temporali del periodo entro il quale i pagamenti eseguiti dalla società poi fallita sarebbero eventualmente revocabili, si riflettono sull’individuazione dell’oggetto della domanda di revoca di quei pagamenti – ossia dei versamenti per complessive L. 11.601.325.526, intervenuti in anni compresi tra il 1992 ed il 1994 – giacchè tali circostanze investono solo la questione della fondatezza (totale o parziale) della domanda di revoca, che resta ovviamente del tutto impregiudicata, ma non hanno certo impedito alla banca convenuta di comprendere quali sono i pagamenti dei quali è stata chiesta la revoca.
7. Il ricorso, nei termini sopra riferiti, risulta perciò fondato, restando assorbite le censure riguardanti il regime delle spese processuali, giacchè la cassazione dell’impugnata sentenza rende necessario il rinvio della causa alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, alla quale competerà sia di pronunciarsi sul merito della sola domanda di revoca dei pagamenti che si è visto esser stata validamente proposta dalla curatela del fallimento, sia di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

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