Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 7 aprile 2014, n. 8053
Svolgimento del processo
La controversia concerne l’impugnazione da parte della società AOM Rottami S.p.A. di due avvisi di accertamento relativi ad IRES ed IRAP per gli anni 2005 e 2006, con i quali l’amministrazione aveva recuperato a tassazione costi ritenuti indeducibili perché attinenti sia a traffico illecito di rifiuti, sia ad operazioni soggettivamente inesistenti.
La Commissione adita rigettava il ricorso, ma la decisione era riformata in appello, con la sentenza in epigrafe, che annullava gli avvisi di accertamento impugnati.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con due motivi. Resiste la società contribuente con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivazione
1. Con il primo motivo, l’amministrazione ricorrente formalmente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.
1.1. Nella sostanza la parte ricorrente, dopo aver precisato che oggetto di censura è il solo capo della sentenza d’appello concernente la ripresa a tassazione di costi relativi ad operazioni inesistenti, rileva che il giudice a quo ha erroneamente motivato l’illegittimità dell’atto impositivo, affermando:
– da un lato, l’irrilevanza, ai fini della deducibilità dei relativi costi, della falsità ideologica delle fatture alla luce delle disposizioni di cui all’art. 8, commi 1 e 2, D.L. n. 16 del 2012, in assenza (o in mancanza di prova della ricorrenza nella specie) delle condizioni previste dalle richiamate norme;
– dall’altro, la mancata contestazione da parte dell’amministrazione dell’inerenza dei costi in questione nell’avviso di accertamento e comunque nel giudizio di primo grado.
1.2. L’amministrazione, tuttavia, evidenzia che il giudice d’appello non avrebbe in realtà esaminato gli “avvisi di accertamento e i fatti che essi rappresentavano”, altrimenti non avrebbe potuto non rilevare che “l’Ufficio non aveva contestato la deduzione dei costi invocando l’art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537 del 1993 – poi modificato nel corso del giudizio – ma aveva, ben diversamente, sostenuto l’indeducibilità dei costi medesimo in quanto non inerenti (ai sensi dell’art. 109 TUIR)”, implicitamente richiamando l’orientamento di questa Corte “secondo il quale la derivazione dei costi da un’attività che integra oggettivamente un illecito penale fa presume
re la distrazione di essi verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa”.
2. Con il secondo motivo, l’amministrazione ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., una nullità processuale derivante da violazione dell’art. 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per aver il giudice di appello qualificato inammissibile, in quanto nuova e tardiva, la contestazione di non inerenza dei costi documentati nelle fatture ideologicamente false, laddove, invece, tale contestazione era già stata esternata negli avvisi di accertamento.
3. Chiamata la causa innanzi alla VI Sezione di questa Corte, il Collegio rilevava che dalla lettura del primo motivo di ricorso emergeva, dietro la “forma”, la “sostanza” di una dedotta “insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio”, cioè del vizio previsto nel testo dell’art. 360 n.5), anteriore alla recente riforma che si applica ai ricorsi avverso sentenze depositate dopo il giorno 11 settembre 2012: di modo che la decisione del ricorso presupponeva che fosse preliminarmente risolto “il problema della applicabilità o meno ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie delle disposizioni modificative del codice di procedura civile contenute nel d.l. 22 giugno 2012, n. 83 [c.d. Decreto crescita] convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134”.
3.1. Ad avviso del Collegio sia la nuova formulazione restrittiva del motivo di cui al n. 5) del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., sia, indirettamente, la sua radicale espunzione in caso di c.d. doppia conforme troverebbero applicazione in relazione ai ricorsi per la cassazione delle sentenze del giudice tributario. A tanto non osterebbe il comma 3-bis dell’art. 54 della citata legge (I. n. 134 del 2012) secondo cui “le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”: la predetta disposizione, infatti, “riguarda solo il processo tributario vero e proprio (primo e secondo grado) delineato dalla legge 546/1992, mentre il giudizio di cassazione, anche ove verta in materia tributaria, non è più processo tributario ed è disciplinato dalle disposizioni del codice di procedura civile”.
3.2. Per quanto attiene ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze del giudice tributario l’art. 62, del citato decreto legislativo n. 546 del 1992 “contiene un rinvio al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (ed alle disposizioni del codice di procedura civile relative al giudizio di cassazione) che è sempre stato applicato come un rinvio alle norme processuali comuni così come via via plasmate dal legislatore e non al testo vigente alla data di entrata in vigore del d.lgs. 546/1992”. Sicché non esiste nell’attuale sistema normativo un “giudizio di legittimità tributario”, come comprova l’ispirazione riformatrice che connota un progetto, elaborato di recente dal CNEL, inteso ad introdurre nell’ordinamento un tale speciale “giudizio di legittimità”, disciplinato da proprie specifiche norme.
3.3. Sulla base di siffatte considerazioni il Collegio – constatata, da un lato, l’esistenza di un maggioritario orientamento della dottrina “secondo cui la riforma (di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83) non tocca il processo di cassazione, quando formino oggetto di ricorso sentenze delle Commissioni tributarie” e, dall’altro, la rilevanza della questione, che si palesa come “questione di massima di particolare importanza” – ha ritenuto necessario sollecitare, con ordinanza interlocutoria del 14 ottobre 2013, n. 23273, l’intervento monofilattico delle Sezioni Unite.
4. Nella logica che l’ordinanza di rimessione propone, è necessario verificare preliminarmente se le disposizioni modificative del codice di procedura civile contenute nel d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, trovino applicazione con riferimento ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pronunciate dal giudice tributario. Ciò perché, come è facile intuire, l’eventuale applicabilità della riforma condiziona il parametro al quale occorrerà far riferimento per la valutazione dell’ammissibilità e della fondatezza del motivo di ricorso che sollecita al giudice di legittimità il controllo critico sulla motivazione della sentenza impugnata.
5. Il dubbio sull’applicabilità della riforma trova ragione della previsione di cui al comma 3-bis dell’art. 54, d.l. n. 83 del 2012 (aggiunto dalla legge di conversione n. 134 del 2012), secondo la quale “Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”.
5.1. Tra le disposizioni previste nei precedenti commi di tale norma vi sono, oltre quelle relative al processo d’appello, anche quelle relative specificamente al giudizio di cassazione, che stabiliscono:
– la modifica dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ. la cui previsione dell’impugnabilità “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio” è sostituita dalla previsione di impugnabilità “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;
– l’introduzione nel codice di rito di un articolo 348-ter il cui ultimo comma prevede la proponibilità del ricorso per cassazione esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell’articolo 360, qualora l’impugnazione sia proposta avverso una sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata.
5.2. L’eccezione all’applicazione delle disposizioni previste dall’art. 54, d.l. n. 83 del 2012, concerne, per espressa previsione normativa, il processo tributario che il d.lgs. n. 546 del 1992 compiutamente disciplina con norme speciali per quanto riguarda la fase di primo grado e quella d’appello. Si tratta di un processo che si svolge innanzi ad una giurisdizione speciale, la giurisdizione tributaria, che a norma dell’art. 1, comma 1, del predetto decreto “è esercitata dalle Commissioni tributarie provinciali e dalle Commissioni tributarie regionali di cui all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1992, n. 546”.
6. Il d.lgs. n. 546 del 1992 non prevede, invece, una disciplina speciale per il giudizio di legittimità concernente l’impugnazione delle sentenze d’appello pronunciate dal giudice tributario, ma si limita a rinviare, in proposito, alle norme del codice di rito che regolano il ricorso per cassazione avverso le sentenze d’appello pronunciate dal giudice ordinario.
6.1. L’art. 62 del citato decreto, infatti, dispone, al primo comma, che “avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale può essere proposto ricorso per cassazione per i motivi di cui ai numeri da 1) a 5) dell’art. 360, primo comma, del codice di procedura civile”; e al secondo comma “al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto”.
7. Se questo è, come non v’è dubbio che sia, il sistema che emerge dalla complessa regolamentazione predisposta dal d.lgs. n. 546 del 1992, risulta meglio comprensibile il senso dell’eccezione che il comma 3-bis dell’art. 54, d.l. n. 83 del 2012 ha inteso stabilire.
7.1. Questa norma trova giustificazione nel fatto che, essendo il giudizio d’appello, per quanto concerne le controversie tributarie, regolato da una specifica disciplina dettata dalla normativa speciale, sarebbe contrario all’assetto del sistema rendere a quel giudizio applicabili modificazioni delle norme che il codice di rito detta per il giudizio d’appello innanzi al giudice ordinario.
7.2. Per la stessa logica, appare manifestamente contrario all’assetto del sistema pensare ad un’inapplicabilità delle modifiche che il richiamato art. 54 apporta alle regole per il ricorso per cassazione (quelle relative al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. in particolare), quando tale ricorso investa una decisione emessa dal giudice tributario: infatti, per esplicito richiamo disposto proprio dal decreto legislativo n. 546 del 1992, le regole per il ricorso per cassazione non divergono se la sentenza impugnata sia stata emessa dal giudice ordinario o dal giudice tributario, restando sempre, nell’uno e nell’altro caso, quelle dettate dal codice di rito.
7.3. Pervenire a conclusioni diverse, ammettendo che l’eccezione prevista dal comma 3-bis del surrichiamato art. 54 riguardi anche la novellata norma di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., significherebbe prevedere in buona sostanza l’esistenza di un giudizio per cassazione “speciale” in materia tributaria: ne conseguirebbe un inammissibile ampliamento, per via interpretativa, della specialità della giurisdizione tributaria, che, invece, il legislatore del 1992 ha voluto si arrestasse sulle soglie della Corte di Cassazione, eletta a simbolo di garanzia dell’unità del sistema di tutela giurisdizionale dei diritti del cittadino. Mediante il ricordato rinvio alle norme del codice di rito disposto dall’art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992, la giustizia tributaria riduce lo spessore della propria specialità e si colloca, sia pur al livello di ultima istanza, nel più generale e complesso sistema di giustizia funzionale all’affermazione e alla tutela dei diritti del cittadino che costituisce l’orizzonte costituzionale dell’ordinamento giuridico italiano. Sicché leggere la riforma del d.P.R. n. 636 del 1972 realizzata dal d.lgs. n. 546 del 1992 come ispirata ad un criterio di riduzione dello spessore della specialità del processo tributario in seno all’ordinamento giurisdizionale (in particolare con riferimento all’impugnabilità per cassazione in via ordinaria delle sentenze dei giudici tributari), significa dare di quella riforma una interpretazione costituzionalmente orientata.
7.4. Questa sottile linea di confine tra processo tributario e processo civile, che la normativa traccia con riferimento al giudizio per cassazione, trova una sua ragione essenziale nel principio cardine che la legge delega aveva posto al legislatore delegato nella disciplina del processo tributario.
7.4.1. Nel dettare tale sistema di regole, il legislatore delegato avrebbe dovuto realizzare un tendenziale adeguamento del processo tributario al processo civile, le cui norme, dettate dal codice di rito, il giudice tributario sarebbe stato tenuto ad applicare per quanto non disposto dalla normativa speciale e nei limiti di compatibilità con questa disciplina: l’art. 30, comma 1, lettera g), della legge n. 413 del 1991, stabiliva, infatti, l’”adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile”.
7.5. Nella delineata prospettiva si è costantemente mossa la giurisprudenza di questa Corte, dichiaratamente affermando che “alla proposizione del ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali devono ritenersi esclusivamente applicabili le disposizioni dettate dal codice di procedura civile, atteso il richiamo di queste da parte dell’art. 62, comma secondo, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e l’inesistenza, in tale decreto legislativo, di qualsivoglia disposizione peculiare in ordine alle modalità di proposizione di detto ricorso” (Cass. n. 17955 del 2004). “L’esame delle disposizioni sul processo tributario contenute in detto decreto legislativo”, afferma il Collegio, “evidenzia l’inesistenza, nella sedes materiae od altrove, di qualsivoglia disposizione peculiare in ordine alle modalità di proposizione del ricorso per Cassazione avverso sentenza di una commissione tributaria regionale per cui non si evidenzia nessun problema di compatibilità delle norme dettate all’uopo dal vigente codice di procedura civile con quelle contenute nel d.lgs. n. 546 del 1992: da tale constatazione discende che alla proposizione del ricorso per Cassazione debbono ritenersi applicabili esclusivamente le disposizioni dettate dal codice di procedura civile per presentare qualsiasi ricorso giurisdizionale innanzi a questa Corte” (Cass. n. 17955 del 2004, in motivazione; nello stesso senso Cass. n. 19577 del 2006, in motivazione).
7.6. Nella ricerca di un ragionevole equilibrio tra norme speciali e norme ordinarie, il vaglio di compatibilità, prescritto dall’art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992, ha sempre avuto un esito positivo.
7.6.1. Così questa Corte ha evidenziato la significativa contrapposizione tra le disposizioni di rinvio contenute negli artt. 1, secondo comma, e 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, relative al processo e alle impugnazioni in generale, e la disposizione di rinvio contenuta nel successivo art. 62, relativa al giudizio di cassazione: gli artt. 1 e 49 istituiscono un’autentica specialità del rito tributario, sancendo la prevalenza della norma processuale tributaria, ove esistente, sulla norma processuale ordinaria, la quale ultima si applica, quindi, in via del tutto sussidiaria, oltre che nei limiti della compatibilità; l’art. 62, viceversa, per il giudizio di cassazione, “fa espressamente riferimento all’applicabilità delle norme del codice di procedura civile, invertendo così, per questa sola ipotesi, la prevalenza delle norme processuali ordinarie” (Cass. nn. 5504 del 2007; 10961 del 2009).
7.6.2. Così ancora è stato affermato che “al ricorso per cassazione avverso le decisioni delle commissioni tributarie e al relativo procedimento si applicano, ai sensi dell’art. 62, comma secondo, d.lgs. 31 dicembre 1992, n.546, le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili, tra le quali è compresa, direttamente, quella, dettata dall’art. 365, che impone che il ricorso sia sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo, munito di procura speciale, e, indirettamente, quella, di cui all’art. 82, terzo comma, che prescrive che davanti alla Corte di cassazione le parti stiano in giudizio col ministero di un avvocato iscritto nell’apposito albo, per il necessario fondamento tecnico di quel ricorso, implicitamente richiamato tanto dall’art. 365 cod. proc. civ., che dall’art. 62, comma primo, del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui fa riferimento all’art. 360 cod. proc. civ.” (Cass. nn. 8818 del 2003; 8024 del 2011).
7.6.3. Oppure la ritenuta applicazione al ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali della “disposizione di cui all’art. 373, comma primo, secondo periodo, cod. proc. civ., secondo cui l’esecuzione della sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno, essere sospesa dal giudice a quo, dovendo peraltro evidenziarsi come la specialità della materia tributaria e l’esigenza che sia garantito il regolare pagamento delle imposte renda necessaria la rigorosa valutazione dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora” (Cass. n. 2845 del 2012). Come emerge chiaramente la “specialità della materia tributaria” non osta all’applicazione della “regola ordinaria”, ma esaurisce la propria rilevanza in un “ambito esterno” nell’imporre al giudice un particolare rigore nella valutazione dei requisiti della sospensione. E non è privo di senso il fatto che l’applicabilità dell’art. 373 cod. proc. civ. sia riconosciuta “anche in caso di impugnazione davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione delle pronunce dei giudici speciali, nulla prevedendo al riguardo l’art. 111 Cost. sul ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti” (Cass. S.U. nn. 4112 del 2007; 14503 del 2013): un altro esempio del valore costituzionale dell’unità della giurisdizione e della limitatezza dei margini di specialità ammessi dal nostro ordinamento, che “fisiologicamente”, si potrebbe dire, fissa livelli oltre i quali la specialità di una giurisdizione(riconosciuta come tale in relazione alla particolare natura del suo oggetto) non può comunque eccedere.
7.7. In questa visione della concreta realtà ordinamentale si iscrivono tante pronunce di questa Corte che hanno rafforzato un più completo riconoscimento delle commissioni tributarie come effettivi organi giurisdizionali di fronte ai quali le parti, in ambito processuale, si trovino in una situazione di parità, superando definitivamente ogni posizione di privilegio dell’Amministrazione finanziaria di fronte al cittadino, accentuando un processo di assimilazione, sul piano delle garanzie processuali, tra contenzioso tributario e contenzioso civile.
7.7.1. Oltre alle già ricordate sentenze, possono esemplificarsi l’affermazione (Cass. SU ord. n. 13899 del 2013) che “il giudice tributario può conoscere anche la domanda risarcitoria proposta dal contribuente ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., potendo, altresì, liquidare in favore di quest’ultimo, se vittorioso, il danno derivante dall’esercizio, da parte della Amministrazione finanziaria, di una pretesa impositiva temeraria”.
7.7.2. O ancora (Cass. n. 21396 del 2012) la ritenuta applicabilità al processo tributario della sospensione necessaria di cui all’art. 295 cod. proc. civ., “qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità, tale che la definizione dell’uno costituisca indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto di giudicati”.
8. In buona sostanza questa Corte ha costantemente riconosciuto ed affermato che il legislatore delegato del 1992 non ha istituito un giudizio tributario di legittimità, ma, semplicemente, ha esteso il giudizio ordinario di legittimità alla materia tributaria, che prima ne era esclusa. Il legislatore delegato, peraltro, nemmeno avrebbe potuto istituire un siffatto giudizio alla luce dei principi dettati dalla legge delega che all’art. 30, comma 1, lettera d), L. n. 413 del 1991 imponeva l’”articolazione del processo tributario in due gradi di giudizio da espletarsi da commissioni tributarie di primo grado con sede nei capoluoghi di provincia e da commissioni tributarie di secondo grado con sede nei capoluoghi di regione, con conseguente applicazione dell’articolo 360 del codice di procedura civile e soppressione della commissione tributaria centrale”: ciò implicava una riduzione dei margini di specialità del processo tributario destinata ad arrestarsi, nel quadro di una prospettiva costituzionalmente orientata, alla soglia del giudizio di legittimità senza possibilità che in quest’ultimo quella specialità esondasse anche indirettamente.
8.1. L’esclusione del giudizio di legittimità dall’area di specialità del processo tributario è, peraltro, confermata, sul piano normativo, anche dall’art. 261 del d.p.R. n. 115 del 2002 (testo unico sulle spese di giustizia), che, in materia di contributo unificato, prevede, con riferimento al processo tributario, che “al ricorso per cassazione e al relativo processo si applica la disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”.
8.2. Sicché il rinvio ai numeri da 1) a 5) dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., operato dall’art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992, non può ritenersi un rinvio “materiale” e “fisso”, diretto, cioè, a recepire il testo storico della norma richiamata, cristallizzandone il contenuto. Se la voluntas legis, come più prove dimostrano, era nel senso di parificare la giurisdizione tributaria alla giurisdizione ordinaria in punto di sindacato di legittimità, esimendola dai limiti del ricorso straordinario, il rinvio alla norma del codice di rito non può che essere “formale” e “mobile”, idoneo a conservare, nel tempo, la raggiunta parificazione. La specializzazione del giudizio di legittimità in materia tributaria, può solo costituire una mera prospettiva de iure condendo.
8.3. Ne è conferma il fatto, ricordato nell’ordinanza di rimessione, che il CNEL abbia confezionato un progetto di legge delega “per razionalizzare e codificare l’attuazione e l’accertamento dei tributi e per la revisione delle sanzioni amministrative e del processo tributario”, caratterizzato da una ispirazione alquanto diversa e incline più ad approfondire, che a ridurre, la separatezza tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione tributaria, arrivando fino a prevedere l’istituzione di una sorta di BFH – Bundesfinanzhof italiana. Sicché la specialità di un giudizio di legittimità in materia tributaria è manifestamente una questione de iure condendo e non di diritto vigente.
8.4. Quanto tuttavia alle attuali prospettive di riforma, diversamente orientata sembra essere la “delega fiscale” approvata con la legge 11 marzo 2014, n. 23, che entrerà in vigore il 27 marzo 2014. Ed invero, all’art. 10, recante disposizioni relative alla “revisione del contenzioso tributario e della riscossione degli enti locali”, il legislatore delegato è invitato “ad introdurre… norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante”: una scelta questa che non è certamente intesa a favorire un accrescimento dello spessore di specialità del processo tributario, sotto il decisivo profilo della tutela giurisdizionale dei diritti, ma semmai a incoraggiare quel processo di assimilazione alle regole ordinarie che questa Corte ha costantemente perseguito. E nessuno dei principi enunciati nelle lettere a) e b) del citato articolo 10 legittima l’idea di un differente percorso.
9. Alla luce di siffatte considerazioni non vi sono elementi per affermare che il comma 3-bis dell’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, oltre a preservare la specialità del giudizio tributario di merito, introduca, peraltro per via indiretta ed implicita, la specializzazione del giudizio di legittimità in materia tributaria, senza che possa aver rilievo l’asserito “difetto di professionalità” dei giudici tributari come causa di giustificazione del mantenimento di un più penetrante controllo sulla motivazione delle sentenze emesse da tali giudici in sede di giudizio di legittimità.
9.1. Una riforma così rilevante, e per di più non immediatamente percepibile come coerente attuazione del sistema normativo vigente, quale è quella dell’istituzione di uno speciale giudizio di legittimità in materia tributaria, esige una espressa, specifica e consapevole espressione di volontà legislativa. Mentre resta nel limbo del “non giuridico” ogni discorso sulla (mancanza di adeguata) “professionalità” del giudice tributario, che non reclama come ineludibile corollario logico una specialità del controllo di legittimità, ma semmai pone l’accento sulla irrinunciabile professionalizzazione del giudice quale elemento determinante della tutela giurisdizionale dei diritti (e in ciò sembra rientrare, a pieno titolo, la previsione dell’art. 10, comma 1, lettera b), n. 8), della ricordata legge n. 23 del 2014, circa la doverosa ispirazione del legislatore delegato all’adozione di misure volte al “rafforzamento della qualificazione professionale dei componenti delle commissioni tributarie, al fine di assicurarne l’adeguata preparazione specialistica” nel quadro una prospettiva di una crescita dello spessore della tutela giurisdizionale del contribuente con l’assicurata terzietà dell’organo giudicante).
10. Da ultimo, e sempre nel solco tracciato con i ragionamenti fin qui svolti, è doveroso richiamare l’attenzione su quanto dichiara la relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 83 del 2012 a proposito dell’art. 54. Questa norma, secondo la relazione, ha il dichiarato scopo di “migliorare l’efficienza delle impugnazioni sia di merito che di legittimità, che allo stato violano pressoché sistematicamente i tempi di ragionevole durata del processo”.
10.1. In questa prospettiva si colloca sia la riduzione dei motivi di impugnazione della c.d. doppia conforme, con l’esclusione del “vizio di motivazione contraddittoria o insufficiente, la cui strumentalizzazione ad opera delle parti sta rendendo insostenibile il carico della Suprema Corte di Cassazione”; sia la “riformulazione del n. 5) del primo comma dell’articolo 360 del codice di procedura civile, mirata (anch’essa) a evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali”. Tutto ciò a supporto della “generale funzione nomofilattica propria della Suprema Corte di Cassazione quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris”: un’idea che non ammette alcuna comprensibile distinzione tra controllo di legittimità sulle sentenze del giudice ordinario e controllo di legittimità sulle sentenze del giudice tributario.
11. Sicché si deve concludere per l’applicabilità ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionale delle disposizioni di cui all’art. 54, d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazione dalla legge n. 134 del 2012, che sono riferite alla disciplina del giudizio di cassazione. Tra quest’ultime rientra certamente, nonostante la non felice collocazione “topografica” tra le norme preposte alla regolamentazione dell’appello, la disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 348-ter, aggiunto dalla norma in esame, al codice di rito, giusta il cui disposto non è ammesso ricorso ai sensi del n. 5) dell’articolo 360 cod. proc. civ. avverso quelle sentenze d’appello che confermino la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata. È facile accorgersi, infatti, che si tratta di una disposizione che attiene non all’appello, ma alle condizioni (e ai limiti) di ricorribilità per cassazione avverso una sentenza d’appello, che avrebbe avuto forse maggior senso prevedere come comma aggiuntivo all’art. 360 cod. proc. civ..
12. Può, quindi, affermarsi il seguente principio di diritto:
“Le disposizioni di cui all’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conver-tito con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie regionali e ciò sia per quanto riguarda la nuova formulazione del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., secondo la quale la sentenza d’appello è impugnabile “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, sia per quanto riguarda l’ultimo comma dell’aggiunto articolo 348-ter cod. proc. civ., secondo il quale la proponibilità del ricorso per cassazione è ammessa esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell’articolo 360, qualora l’impugnazione sia proposta avverso una sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata”.
13. Ciò posto è possibile passare all’esame del merito del ricorso che ha dato origine all’ordinanza di rimessione discussa nelle precedenti analisi e valutazioni, precisando che dei due motivi di ricorso, solo il primo coinvolge la riconosciuta applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 54, d.l. n. 83 del 2012, relative al giudizio di cassazione, limitatamente peraltro alla nuova formulazione del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., non ricorrendo nella specie l’ipotesi della c.d. “doppia conforme”.
14. Per poter procedere, tuttavia, all’analisi del motivo proposto occorre preliminarmente stabilire il senso della nuova formulazione dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ. prevista dall’art. 54, d.l. n. 83 del 2012 e definire i limiti entro i quali il nuovo testo abbia ammesso la valutazione da parte del giudice di legittimità della motivazione del provvedimento innanzi a lui impugnato.
14.1. Il legislatore del 2012 ha riformulato il n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., riferendolo all’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ritornando, quasi letteralmente, al testo originario del codice di rito del 1940, che prevedeva quale motivo di ricorso in cassazione, l’”omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Appare immediatamente evidente che l’unica differenza testuale è l’utilizzo della preposizione “circa” da parte del legislatore del 2012, rispetto all’utilizzo della preposizione “di” da parte del legislatore del 1940: ma è una “differenza testuale” irrilevante, trattandosi, dell’uso di una forma linguistica scorretta (un solecismo, come talvolta suoi dirsi), che non ha forza di mutare in nulla il senso della disposizione del codice di rito del 2012, rispetto alla disposizione del codice di rito del 1940.
14.2. Nella riformulazione del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., scompare ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (che pur cambia in buona misura d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. La ratio legis è chiaramente espressa dai lavori parlamentari, laddove si afferma che la riformulazione del n. 5) dell’art. 360 è “mirata…..a evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, supportando la generale funzione nomofilattica propria della Suprema Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris”.
14.3. In questa prospettiva, volontà del legislatore e scopo della legge convergono senza equivoci nella esplicita scelta di ridurre al minimo costituzionale il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Ritorna così pienamente attuale la giurisprudenza delle Sezioni Unite sul vizio di motivazione ex art. 111 Cost., come formatasi anteriormente alla riforma del decreto legislativo numero 40 del 2006: il vizio si converte in violazione di legge nei soli casi di omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile, sempre che il vizio fosse testuale.
14.4. Nel quadro di tale orientamento le Sezioni Unite (sent. n. 5888 del 1992) avevano sottolineato che la garanzia costituzionale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali dovesse essere correlata alla garanzia costituzionale del vaglio di legalità della Corte di cassazione, funzionale “ad assicurare l’uniformità dell’interpretazione ed applicazione del diritto oggettivo a tutela dell’uguaglianza dei cittadini”. Esse avevano, quindi, stabilito che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante atteneva solo all’esistenza della motivazione in sé, prescindente dal confronto con le risultanze processuali, e si esauriva nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
14.4.1. Le Sezioni Unite evidenziavano, altresì, che “il vizio logico della motivazione, la lacuna o l’aporia che si assumono inficiarla sino al punto di renderne apparente il supporto argomentativo, devono essere desumibili dallo stesso tessuto argomentativo attraverso cui essa si sviluppa, e devono comunque essere attinenti ad una quaestio facti (dato che in ordine alla quaestio juris non è nemmeno configurabile un vizio di motivazione). In coerenza con la natura di tale controllo, da svolgere tendenzialmente ab intrinseco, il vizio afferente alla motivazione, sotto i profili della inesistenza, della manifesta e irriducibile contraddittorietà o della mera apparenza, deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, sì da comportare la nullità di esso; mentre al compito assegnato alla Corte di Cassazione dalla Costituzione resta estranea una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti, la quale implichi un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito”.
14.5. Siffatte conclusioni che erano state costantemente riaffermate nella giurisprudenza di legittimità sino alle modifiche al testo dell’art. 360 cod. proc. civ. introdotte con la riforma del 2006, appaiono oggi nuovamente legittimate dalla riformulazione dello stesso testo adottate con la riforma del 2012, che ha l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.
14.5.1. In proposito dovrà tenersi conto di quanto questa Corte ha già precisato in ordine alla “mancanza della motivazione”, con riferimento al requisito della sentenza di cui all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ.: tale “mancanza” si configura quando la motivazione “manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum” (Cass. n. 20112 del 2009).
14.6. Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.
14.7. Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
14.7.1. La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la deci-sività del fatto stesso.
14.8. Per quanto riguarda specificamente il processo tributario la descritta riforma del 2012 non ha sottratto al controllo di legittimità le questioni relative al “valore” e alla “operatività” delle presunzioni, che nel predetto processo hanno una loro specifica e particolare rilevanza.
14.8.1. Infatti, la peculiare conformazione del controllo sulla motivazione non elimina, sebbene riduca (ma sarebbe meglio dire, trasformi), il controllo sulla sussistenza degli estremi cui l’art. 2729, primo comma, cod. civ. subordina l’ammissione della presunzione semplice. In realtà è in proposito possibile il sindacato per violazione di legge, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. Ciò non solo nell’ipotesi (davvero rara) in cui il giudice abbia direttamente violato la norma in questione deliberando che il ragionamento presuntivo possa basarsi su indizi che non siano gravi, precisi e concordanti, ma anche quando egli abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione dell’art. 2729 cod. civ., fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nella enunciazione della “fattispecie astratta”, ma erroneamente applicata alla “fattispecie concreta”.
14.8.2. In altre parole, poiché la sentenza, sotto il profilo della motivazione, si sostanzia nella giustificazione delle conclusioni, oggetto del controllo in sede di legittimità è la plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze. L’implausibilità delle conclusioni può risolversi tanto nell’apparenza della motivazione, quanto nell’omesso esame di un fatto che interrompa l’argomentazione e spezzi il nesso tra verosimiglianza delle premesse e probabilità delle conseguenze e assuma, quindi, nel sillogismo, carattere di decisività: l’omesso esame è il “tassello mancante” alla plausibilità delle conclusioni rispetto alle premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.
14.8.3. Ciò non significa che possa darsi ingresso, in alcun modo, ad una surrettizia revisione del giudizio di merito, dovendosi tener per fermo, mutatis mutandis, il rigoroso insegnamento di questa Corte secondo cui: “in sede di legittimità il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice del merito circa la propria statuizione esibisca i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione (fatto probatorio -massima di esperienza – fatto accertato) senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata (potendo questa essere disattesa non già quando l’interferenza probatoria non sia da essa necessitata, ma solo quando non sia da essa neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita, avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo) o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione” (Cass. n. 14953 del 2000).
15. Si può quindi affermare il seguente principio di diritto:
a) La riformulazione dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., disposta con l’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. cod. civ., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
b) Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
c) L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
d) La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
16. Venendo ora all’esame specifico del primo motivo del presente ricorso va rilevato che con esso la parte ricorrente denuncia, in riferimento all’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., l’”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, secondo la nuova formulazione del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ.: in realtà, tuttavia, la parte ricorrente deduce, non un “omesso esame”, bensì un “vizio di motivazione”, per aver il giudice di appello motivato affermando erroneamente che il difetto di inerenza dei costi non sarebbe stato censurato negli avvisi di accertamento.
16.1. Ma quand’anche si volesse ritenere che la censura in questione sia stata enunciata in corretta adesione al modello proposto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., essa dovrebbe egualmente essere ritenuta inammissibile, perché non coerente con il principio espresso dall’art. 366 del codice di rito.
16.2. Nel caso di specie l’amministrazione ricorrente lamenta che il giudice di merito avrebbe erroneamente escluso che nell’avviso di accertamento fosse stato dedotto dall’ufficio accertatore l’indeducibilità dei costi per difetto di inerenza, ma non riporta testualmente nel ricorso i “contenuti” dell’atto impositivo che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di giudicare sulla congruità della valutazione del giudice a quo esclusivamente in base al ricorso medesimo.
16.2.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte “nel giudizio tributario, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 cod. proc. civ., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento… è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti testualmente i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento” (Cass. n. 9536 del 2013; v. nello stesso senso Cass. nn. 8312 del 2013; 13007 del 2007; 12786 del 2006; 15867 del 2004).
16.3. In realtà l’unico elemento offerto dal ricorso a sostegno della tesi ivi sostenuta è che Tatto impositivo avrebbe disposto il recupero a tassazione di costi indeducibili “ai sensi dell’art. 109 TUIR”. Ma siffatto riferimento, per la sua genericità e indeterminatezza non ha alcuna utilità al fine di precisare se nell’atto impositivo fosse stato espressamente e specificamente dedotto dall’Ufficio il difetto di inerenza dei costi in questione. Sicché il motivo di ricorso deve ritenersi inammissibile.
16.4. Dalla ritenuta inammissibilità del primo motivo di ricorso alla luce del mancato rispetto del principio enunciato dall’art. 366 cod. proc. civ. discende l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, con il quale l’amministrazione ricorrente denuncia una violazione dell’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, per aver il giudice di merito ritenuto novum in appello la contestata inerenza dei costi come ragione dell’affermata indeducibilità.
16.4.1. Invero, il fatto, già rilevato, che nel ricorso non sia stato testualmente riportato il “passo” dell’atto impositivo impugnato che denuncerebbe il difetto di inerenza dei costi recuperati a tassazione, rende conclamata la novità dell’istanza proposta in secondo grado dall’ufficio finanziario, con la conseguente infondatezza della censura. Costantemente questa Corte ha affermato che “nel processo tributario di appello, l’Amministrazione finanziaria non può, mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento” (Cass. n. 25909 del 2008; v. anche nello stesso senso, Cass. n. 10806 del 2012): pertanto, solo la prova dello specifico contenuto dell’atto di accertamento può escludere la “novità” della questione dedotta in appello.
17. Sicché, conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Il carattere di novità delle questioni affrontate giustifica la compensazione delle spese della presente fase del giudizio.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il primo motivo, rigettato il secondo. Compensa le spese.
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