Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 6 novembre 2014, n. 23676
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f.
Dott. RORDORF Renato – Presidente di Sez.
Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere
Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere
Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere
Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere
Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26139/2010 proposto da:
(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), nella qualita’ di socio accomandatario e legale rappresentante della (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), per delega a margine del controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1051/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 05/11/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/09/2014 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Procuratore Generale Aggiunto Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
– che peraltro egli aveva provveduto alla ristrutturazione dei locali, ai rapporti con i fornitori e prestato quotidianamente la propria opera nella conduzione del bar, fino al 31 ottobre 2002, data in cui aveva cessato la collaborazione, stante l’altrui rifiuto di consentirgli l’ingresso nella societa’.
Tutto cio’ premesso, ritenuta la sussistenza dei requisiti dell’impresa familiare ex articolo 230 bis cod. civ., chiedeva la condanna dei convenuti al pagamento della somma di euro 11.362,00 a titolo di mantenimento e di euro 71.233,00 quale quota del valore degli incrementi a lui spettante; oltre alla percentuale degli utili, da accertare in corso di giudizio.
Nel costituirsi ritualmente, i sigg. (OMISSIS) e (OMISSIS) eccepivano l’insussistenza dell’impresa familiare, incompatibile con la struttura societaria, e contestavano nei merito le avverse allegazioni sullo svolgimento concreto del rapporto.
Dopo l’assunzione di prova testimoniale e l’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio contabile, il Tribunale di Torino con sentenza 14 novembre 2008 accertava la sussistenza di un’impresa familiare dal 2 novembre 1999 al 31 ottobre 2002 e per l’effetto condannava la sig.ra (OMISSIS) al pagamento della somma di euro 22.356,43 a titolo di partecipazione agli utili e di euro 47.500,00 quale incremento di valore dell’azienda; oltre interessi, rivalutazione e rifusione delle spese di giudizio.
Rigettava, invece, la domanda nei confronti di (OMISSIS), con compensazione delle spese di lite.
In accoglimento del successivo gravame, la Corte d’appello di Torino, con sentenza 5 novembre 2009, rigettava le domande; compensando per intero le spese dei due gradi di giudizio, in considerazione del contrasto giurisprudenziale vigente in ordine alla compatibilita’ dell’impresa familiare con la forma societaria.
Motivava.
– che meritava adesione l’indirizzo negativo sulla predetta questione di diritto, dal momento che solo nell’impresa individuale era configurabile la collaborazione lavorativa svolta da un familiare del titolare, oggetto di tutela legale; laddove il medesimo apporto, in ragione del vincolo di parentela, non era certo ipotizzabile in favore di una societa’, ma solo, eventualmente, di un singolo socio: cui non poteva pero’ riconoscersi la qualita’ di imprenditore, presupposta dalla norma;
– che tale incompatibilita’ logica emergeva dalla stessa sentenza di primo grado, che aveva condannato al pagamento della quota degli utili e dell’incremento di valore dell’azienda la sola socia accomandataria: in tal modo, implicitamente negando la configurabilita’ del rapporto obbligatorio nei confronti di un imprenditore collettivo.
Avverso la sentenza, non notificata, il (OMISSIS) proponeva ricorso per cassazione in unico motivo, notificato il 4 novembre 2010 ed ulteriormente illustrato con memoria ex articolo 378 cod. proc. civ..
Deduceva la violazione dell’articolo 230 bis cod. civ. in una fattispecie di societa’ personale costituita solo da soggetti legati da un rapporto di parentela: per la quale sussisteva, quindi, l’eadem ratio della tutela legale del lavoro, prevista nell’ambito di un’attivita’ commerciale svolta da un aggregato familiare.
Resistevano con controricorso la sig.ra (OMISSIS), in proprio e quale socia accomandataria e legale rappresentante della (OMISSIS), nonche’ il sig. (OMISSIS).
La sezione lavoro della Corte di Cassazione, cui il ricorso era stata assegnato, lo rimetteva alle sezioni unite, ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla compatibilita’ dell’impresa familiare con la forma societaria.
All’udienza del 16 settembre 2014 il Procuratore generale ed il difensore del ricorrente precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
Il silenzio della norma sulla forma alternativa dell’imprenditore collettivo si palesa di non univoca lettura, dando luogo, oggettivamente, al dubbio se esso corrisponda ad una deliberata mens legis, o non sia piuttosto il portato di un’enunciazione sintetica, applicativa del principio di economicita’ (ipotesi del legislatore non ridondante), secondo cui la ripetizione logora la forza persuasiva dei messaggi e si giustifica solo se aggiunga un novum, non contenuto implicitamente nella proposizione principale: tecnica normativa di non infrequente riscontro, che lascia spazio all’integrazione della fattispecie in via ermeneutica.
Un primo indirizzo, partendo dal riconoscimento della natura eccezionale della norma, ne esclude l’applicazione all’impresa in forma societaria sul presupposto che sarebbe il frutto di una non consentita interpretazione analogica, e non solo estensiva, nell’ambito di una lacuna c.d. impropria, significativa dell’inequivoca volonta’ del legislatore ad excludendum, in omaggio al noto broccardo ubi lex dixit voluit… (articolo 14 disp. gen.). Il principio di diritto, pur affermato da questa Corte in ordine al diverso problema del riconoscimento di un’impresa familiare all’interno di una famiglia di fatto (Cass., sez. 2, 29 novembre 2004 n. 22405; Cass., sez. lavoro, 2 maggio 1994 n.4204), riuscirebbe risolutivo, in astratto, anche del problema in esame, dal momento che la dizione dell’articolo 230 bis cod. civ., incentrata sulla nozione soggettiva dei familiari dell’imprenditore (identificati entro precisi gradi di parentela ed affinita’), non potrebbe applicarsi al familiare del socio, a copertura di un oggettivo vuoto di disciplina legale, se non in virtu’ di analogia legis.
Ma la tesi della natura eccezionale non appare convincente.
Al riguardo, si osserva come siffatta qualificazione discenda, in sede concettuale, dal contrasto con principi e valori generali accolti nell’ordinamento, la cui deroga sia giustificata solo entro gli stretti limiti letterali dell’enunciato.
In questo senso, il connotato dell’eccezionalita’, genericamente definito dall’articolo 14 disp. gen. ( leggi che fanno eccezioni alla regola generale o ad altre leggi ), trovava una piu’ puntuale configurazione nel precedente storico dell’articolo 4 preleggi al c.c. 1865 ( leggi che restringono il libero esercizio dei diritti ); ed in tale accezione non si confa’, con tutta evidenza, alla fattispecie in esame, in cui si riconoscono diritti patrimoniali a chi abbia erogato prestazioni utili all’imprenditore.
Appare quindi corretto parlare, piuttosto, di un istituto autonomo – cui si puo’ riconoscere natura speciale, ma non eccezionale – creato ex novo nell’ambito della riforma del diritto di famiglia (Legge 19 maggio 1975, n. 151) con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali.
La medesima opinione negativa sull’applicabilita’ dell’articolo 230 bis cod. civ. all’impresa societaria e’ svolta, con iter argomentativo diverso, da Cass., sez. lavoro, 6 agosto 2003 n. 11.881 (alla quale aderisce espressamente la Corte d’appello di Torino nella sentenza impugnata), la cui ratio decidendi valorizza il presupposto sostanziale della fattispecie astratta, costituito dal rapporto di parentela (o affinita’) con l’imprenditore – qualifica, spettante solo alla societa’, e non pure al socio – in cui favore il familiare presti la sua attivita’ di lavoro: tanto piu’ se questa sia erogata all’interno del nucleo familiare, e dunque senz’alcun collegamento diretto con l’impresa. Esito finale di tale ricostruzione esegetica e’ l’esclusione di una compresenza di rapporti: l’uno fondato sul contratto di societa’ tra il debitore e terzi soci; e l’altro derivante dal vincolo di subordinazione al primo di un suo familiare.
Ad essa si contrappone il diverso indirizzo giurisprudenziale, sostenuto da parte della dottrina, che, ravvisando piu’ o meno esplicitamente nell’impresa familiare dei tratti associativi, ne riconosce in linea di principio estensibile la disciplina anche ad attivita’ continuative di lavoro svolte dal parente o affine del soggetto beneficiario, partecipe di una societa’, pur se con terzi estranei all’aggregato familiare: con i riflessi patrimoniali previsti dall’articolo 230 bis cod. civ., pur se limitati, naturalmente, alla quota di partecipazione (Cass., sez. lavoro, 23 settembre 2004 n. 19116; Cass., sez. lavoro, 19 ottobre 2000 n. 13861).
La suddetta tesi interpretativa si articola, poi, in un ampio spettro di variazioni dottrinarie, in funzione del tipo di societa’ e della posizione, piu’ o meno preminente al suo interno, del socio tenuto alle prestazioni economiche in favore del familiare.
Sotto il primo profilo, appare diffusa l’esclusione delle societa’ di capitali dal perimetro applicativo dell’articolo 230 bis cod. civ. – non senza aperture possibiliste, peraltro, in tema di s.p.a. ed s.r.l. unipersonali; ed anzi, riguardo alle s.r.l., financo se plurisoggettive, in virtu’ della connotazione personale piu’ accentuata acquisita con la riforma del diritto societario (Decreto Legislativo n. 6 del 2003), che le renderebbe configurabili, secondo una diffusa opinione, ad una societa’ di persone a responsabilita’ limitata.
Per altro verso, la tesi in esame, pur ristretta entro i confini delle societa’ di persone, palesa poi ulteriori divergenze interpretative nell’identificazione del socio obbligato: alternativamente identificato nel titolare dell’effettivo potere di gestione – e dunque nell’amministratore: con esclusione, ad es., del socio accomandante – o invece in ciascun socio, indipendentemente dal suo peso e ruolo, nei limiti della quota di spettanza.
Ai fini della soluzione del problema in scrutinio, vanno altresi’ ricordati ulteriori precedenti giurisprudenziali, che hanno lumeggiato aspetti dell’impresa familiare rilevanti sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie: quali, la natura individuale dell’impresa familiare (Cass., sez. lavoro, 18 gennaio 2005 n. 874; Cass., sez. lavoro, 15 aprile 2004 n. 7223; Cass., sez. lavoro 6 marzo 1999 n. 1917) ed il regime fiscale dei reddito dei familiari collaboratori (definito di lavoro, e non assimilabile quindi ad un reddito di impresa: Cass., sez. 5, 2 dicembre 2008 n. 28.558).
Cosi’ riassunto, nei suoi lineamenti essenziali, il pregresso contrasto esegetico, ritiene questo collegio di aderire alla tesi dell’incompatibilita’ dell’impresa familiare con la disciplina delle societa’ di qualunque tipo.
Al riguardo, occorre premettere, in sede metodologica, la primazia, tra i canoni ermeneutici legali, del criterio letterale: emergente dallo stesso ordine prioritario di enunciazione seguito nell’articolo 12 disp. gen. e riconosciuta dalla giurisprudenza di gran lunga prevalente di questa Corte (Cass., sez. 3, 21 maggio 2004 n.9700 ; Cass., sez. lavoro, 13 aprile 1996 n. 3495; Cass., sez. lavoro, 17 novembre 1993, n. 11359; Cass. sez. lavoro 26 febbraio 1983 n. 1482).
Nel contesto letterale della disposizione in esame, la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa , di carattere oggettivo, significativo dell’attivita’ economica organizzata, piuttosto che far riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per se’ neutra, lasciando adito alla possibile inclusione anche dell’impresa collettiva, esercitata in forma societaria: pur se gia’ la rilevanza riconosciuta contestualmente al lavoro svolto nella famiglia fornisce un primo elemento semantico plausibilmente riferibile ad un imprenditore-persona fisica.
Ma cio’ che davvero si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria e’ la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonche’ agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantita’ e qualita’ del lavoro prestato, anche al di fuori dell’impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. E se e’ appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di societa’ di persone, (articolo 2262 cod. civ., che pero’ ammette il patto contrario) – mentre, solo una mera aspettativa compete al socio di societa’ di capitali, in cui la distribuzione di utili dipende da una delibera assembleare o da una decisione dei soci (articolo 2433 c.c. e articolo 2479 c.c., comma 2, n. 1) – nessun diritto esigibile puo’ essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate .
Ancor piu’ confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare, poi, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio: tale, da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario – integrato con la presenza dei familiari dei soci – nelle decisioni concernenti l’impiego degli utili, degli incrementi e altresi’ la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi; e financo la cessazione dell’impresa stessa: disciplina, in insanabile contrasto con le relative modalita’ di assunzione all’interno di una societa’, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il piu’ delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell’esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale.
Siffatta conclusione appare confortata anche dalla verifica della mens legis (criterio teleologico).
Al riguardo, e’ comune l’opinione che l’istituto dell’impresa familiare, introdotto con la riforma del diritto di famiglia (Legge 19 maggio 1975, n. 151, articolo 89), in chiusura di regolamentazione del regime patrimoniale della famiglia, abbia natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile: come si evince dallo stesso incipit dell’articolo 230 bis cod. civ. a norma ( salvo che sia configurabile un diverso rapporto ). Appare quindi coerente la conclusione che la disciplina sussidiaria dell’impresa familiare sia da intendere recessiva, nel sistema di tutele approntato, allorche’ non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente.
Ne’ vi e’ ragione di limitare il criterio della residualita’ al solo rapporto individuale tra imprenditore e familiare: e cioe’ quando sia ravvisabile, in concreto, un vero e proprio contratto associativo (eventualmente, nella forma della societa’ occulta) o di scambio (associazione in partecipazione, lavoro subordinato, opera intellettuale ecc); dovendosi altresi’ escludere la configurabilita’ stessa dell’istituto, in ragione della sua ricordata residuante, quando gia’ in limine l’esercizio dell’impresa rivesta forma societaria.
Non per questo, dall’eventuale inconfigurabilita’ di un rapporto contrattuale tipico deriverebbe un assoluto vuoto di tutela del lavoro prestato dal familiare del socio (quando non connotato da mera affectionis vel benevolentiae causa), in contrasto con l’intenzione del legislatore ed in sospetto di incostituzionalita’: restando applicabile, in ultima analisi, il rimedio sussidiano, di chiusura, dell’arricchimento senza causa (articolo 2041 cod. civ.).
Alla luce dei rilievi suesposti, non puo’ neppure condividersi la lettura correttiva della norma, sostenuta da una parte della dottrina e riflessa nei precedenti giurisprudenziali difformi, volta a salvare la coerenza del sistema mediante un’applicazione selettiva delle regole dettate per l’impresa familiare: e cioe’, operando una destrutturazione della norma, sul discrimine tra un suo nucleo essenziale ed indefettibile, di applicazione necessaria, costituito dal diritto al mantenimento – riconoscibile anche in un rapporto tra familiare e socio – e il restante complesso di poteri (implicitamente, di riconosciuta incompatibilita’ con le regole societarie), che verrebbe ad assumere natura accessoria ed eventuale, nell’esclusivo ambito di un’impresa individuale.
Piu’ che di una forzatura ortopedica, si tratterebbe di un’amputazione della norma nella parte in cui si riveli inconciliabile con il sottosistema societario, al fine di preservarne l’applicazione in parte qua in favore del familiare del socio. A questa stregua, la portata della tutela, anziche’ posterius del precetto normativo, verrebbe ad assurgere al rango di valore sovraordinato ed incondizionato, cui piegare il dato letterale. Con una forzatura ermeneutica che traligna in sostanziale infedelta’ al testo.
Anche se e’ venuto meno l’argomento della presunzione di gratuita’ delle prestazioni rese nel contesto familiare – costantemente affermata prima della riforma del 1975 – deve restare fermo, infatti, il principio che l’estensione della tutela non puo’ essere stabilita a priori, bensi’ vada ricostruita per via interpretativa nel rigoroso rispetto della norma positiva, nell’integrante del suo enunciato, senza arbitrarie manipolazioni.
Si aggiunga, per completezza di analisi, che l’assimilazione, in tal modo implicitamente presupposta, tra imprenditore e socio, appare altresi’ in contrasto con la distinzione consolidata tra le due figure; che nella prevalente giurisprudenza (Cass., sez. 1 6 novembre 2006 n. 23669) e dottrina restano, per contro, ben distinte. E’ tralatizia, infatti, la tesi che attribuisce alla societa’ di persone, dotata di autonoma soggettivita’ (articoli 2266, 2659 e 2839 cod. civ.), la qualifica di imprenditore. E sotto questo profilo, neppure la societa’ di fatto si caratterizza per l’attenuazione della titolarita’ di situazioni giuridiche, pur sempre autonoma rispetto a quella dei soci, non dipendendo dalla formalizzazione del rapporto; mentre, viene esclusa, simmetricamente, la qualita’ di imprenditore commerciale in capo al socio: in particolare, ai fini della dichiarazione del fallimento in estensione, laddove prevista in ragione della sua istituzionale responsabilita’ illimitata (L.F., articolo 147, comma 1), che non presuppone affatto l’autonoma insolvenza personale (Cass., sez. 1, 19 maggio 2000, n. 6541; Cass., sez. 1 11 dicembre 2000 n. 15596) e che resta, per contro, esclusa per il socio di una societa’ di capitali unipersonale, ove pure l’assimilazione con la figura dell’imprenditore potrebbe apparire non arbitraria (Cass., sez. 1 , 14 marzo 2014 n. 6028).
Ne’ maggiore valore persuasivo, da ultimo, rivela il riferimento al pencolo di elusione della tutela del lavoro del familiare tramite l’adozione maliziosa di uno schermo societario. L’argomento prova troppo, giacche’ la creazione di un diaframma, piu’ o meno impermeabile, tra societa’ e socio nei rapporti obbligatori, lungi dall’essere un fenomeno patologico, costituisce l’in se’ della forma societaria di gestione di un’impresa.
Alla luce dei predetti rilievi, il ricorso del (OMISSIS) e’ dunque infondato e va respinto.
Il contrasto giurisprudenziale pregresso giustifica l’integrale compensazione delle spese di giudizio.
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