Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 23 ottobre 2014, n. 22550
Svolgimento del processo
A.M.D. , dottore in farmacia, con atto depositato il 18 agosto 2009 impugnò davanti al Tribunale di Isernia, giudice del lavoro, la decisione della Commissione medica di verifica presso la Direzione provinciale dell’INPS di quella città, in forza della quale, all’esito di visita collegiale, era stata riconosciuta persona portatrice di handicap in situazione di gravità ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104. Lamentava che la Commissione a fondamento delle proprie conclusioni aveva posto un handicap “psichico mentale”, sulla base di non meglio precisate “note depressive”, e perciò chiedeva la disapplicazione parziale dell’accertamento, nella parte in cui evidenziava le dette note depressive e l’esistenza di motivi psichici e mentali, denunziando al riguardo eccesso di potere, manifesta illogicità del provvedimento, vizio di motivazione, oltre a dedurre l’inesistenza dei motivi psichici e mentali.
Nel contraddittorio con l’INPS, il Ministero dell’economia e delle finanze e la Regione Molise, il giudice di primo grado, esperita CTU, dichiarava la ricorrente persona portatrice di handicap in situazione di gravità per insufficienza renale cronica con esiti di trapianto renale.
La Corte d’appello di Campobasso, adita dall’INPS, che oltre a reiterare l’eccezione di inammissibilità della domanda per carenza di interesse ad agire “evidenziava che l’azione non poteva essere esaminata dal giudice ordinario, ma semmai dal giudice amministrativo”, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo.
Ad avviso della Corte territoriale la A. aveva in realtà promosso “un vero e proprio giudizio di impugnazione del verbale della Commissione”: non aveva agito “per ottenere la dichiarazione di handicap in condizione di gravità, né altri benefici correlati alla sua pretesa diversa condizione patologica invalidante, posto che tale bene le era stato riconosciuto e non vi è alcuna incertezza sul punto (nemmeno derivante dalla diversa patologia accertata dalla CMV)”. In altri termini, ella non aveva agito per ottenere un diritto negato o per accertare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto controverso, ma per ottenere la modifica del contenuto del verbale della Commissione.
Il bene chiesto, ad avviso del giudice d’appello, non corrisponde al contenuto di un diritto in ipotesi leso, né all’accertamento di un fatto costitutivo di un diritto ancora preteso, ma alla necessità della eliminazione, sostituzione, modifica del contenuto di un atto amministrativo viziato, pretesa questa che, a prescindere dalla sua accoglibilità, non può essere assicurata dal giudice ordinario ma dal giudice amministrativo, unico competente ad esprimersi sulla ammissibilità e fondatezza di domande volte all’annullamento o alla modifica di atti amministrativi, ancorché connotati da discrezionalità tecnica.
Nei confronti della sentenza ricorre a queste Sezioni unite la A. sulla base di due motivi.
L’INPS resiste con controricorso, mentre il Ministero dell’economia e delle finanze ha depositato “atto di costituzione” al solo fine della partecipazione all’udienza di discussione.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 37 e 329 cod. proc. civ., 2909 cod. civ.: giudicato implicito sulla giurisdizione del giudice ordinario formatosi sulla sentenza di primo grado”, la ricorrente assume che in appello l’INPS si sarebbe limitato a riproporre la questione pregiudiziale di carenza di interesse ad agire, concludendo per l’inammissibilità e nullità del ricorso, ovvero per il suo rigetto nel merito, senza il minimo accenno alla giurisdizione sicché, non essendo stata impugnata la sentenza di primo grado per difetto di giurisdizione, si sarebbe prodotto l’effetto preclusivo di cui all’art. 329 cod. proc. civ., che impedisce al giudice del gravame il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione.
Il motivo è infondato.
Secondo l’ormai consolidato indirizzo di questa Corte (manifestato con Cass., s.u., 9 dicembre 2008, n. 24883), “allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione, la parte che intende contestare tale riconoscimento è tenuta a proporre appello sul punto, eventualmente in via incidentale condizionata, trattandosi di parte vittoriosa; diversamente, l’esame della relativa questione è preclusa in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione” (Cass., s.u., 28 gennaio 2011, n. 2067, tra le altre).
Nella specie, come si legge nello svolgimento del processo della sentenza impugnata, con l’atto di appello “l’INPS ha… comunque evidenziato che l’azione non poteva essere esaminata dal giudice ordinario, ma, semmai, dal giudice amministrativo”. E nel ricorso in appello dell’Istituto, alla pagina 3, trascritta nel controricorso in parte qua, sia pure in termini non proprio lineari – “l’azione spiegata., è diretta a censurare il verbale sotto il profilo dell’eccesso di potere, della manifesta illogicità del provvedimento, e del vizio di motivazione, ovvero con censure che non possono neppure essere sanzionate dal G.O., privo di poteri in materia di vizi dell’atto amministrativo. Qualora astrattamente concepibile ad ordinamento vigente, infatti, i siffatti vizi potevano essere fatti valere solo dinanzi al Giudice Amministrativo e non davanti al Giudice Ordinario che è il giudice del fatto e non dell’atto (difetto di giurisdizione)” -, viene in effetti contestata la giurisdizione del giudice ordinario.
Con il secondo motivo, proposto in via gradata, lamentando la violazione e falsa applicazione dei principi in materia di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo la ricorrente sostiene che l’impugnativa dell’atto di riconoscimento dello status in parola sarebbe intervenuto a tutela di una situazione di diritto soggettivo, elevata a rango costituzionale negli artt. 2 e 3 Cost., come emergerebbe dalla decisione di primo grado, che richiama le limitazioni di carattere personale – la possibilità di adottare un minore – ovvero patrimoniale – la possibilità di vedersi assegnare una farmacia – paventate dalla ricorrente in dipendenza della diagnosi espressa dalla Commissione. La sentenza impugnata andrebbe pertanto cassata con affermazione della giurisdizione del giudice ordinario, con rinvio al giudice del merito, per l’esame delle ulteriori deduzioni dell’INPS.
Il motivo è fondato.
L’art. 3 della l. 5 febbraio 1992, n. 104, legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, riconosce alla “persona handicappata”, della quale al comma 1 viene fissata la nozione, il “diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e all’efficacia delle terapie riabilitative” (comma 2); e stabilisce in particolare che qualora la miniorazione abbia ridotto l’autonomia personale in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità, il cui riconoscimento determina priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici (comma 3).
“Gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell’intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua sono effettuati”, in base al successivo art. 4, “dalle unità sanitarie locali mediante le Commissioni mediche di cui all’art. 1 della legge 15 ottobre 1990, n. 295”, integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le unità sanitarie locali.
In proposito questa Corte ha da tempo avuto modo di chiarire come “le controversie in materia di accertamenti sanitari dell’invalidità civile espletati dalle competenti commissioni mediche appartengono al giudice ordinario, come espressamente previsto dall’art. 1, comma ottavo, della legge 15 ottobre 1990, n. 295, non solo quando il riconoscimento di tale qualità è funzionale all’erogazione delle prestazioni assistenziali di contenuto pecuniario (di cui alle leggi 30 marzo 1971, n. 118 e 11 febbraio 1980, n. 18), ma anche quando l’interessato deduca l’esistenza della propria condizione invalidante ai fini del collocamento obbligatorio a norma della legge 2 aprile 1968, n. 482 (la cui disciplina è ora sostituita da quella recata dalla legge 12 marzo 1999, n. 68), e ciò stante la simmetrica corrispondenza dell’ambito della disposta attribuzione giurisdizionale con quello della competenza delle commissioni mediche, alle quali, ai sensi del comma primo del medesimo art. 1 della legge n. 295 del 1990 (e della successiva legislazione confermativa), è devoluto l’accertamento della condizione di minorazione anche per usufruire di benefici diversi da quelli dell’attribuzione di pensioni, assegni o indennità, ed atteso che tale accertamento è in ogni caso espressione di discrezionalità tecnica e non amministrativa, essendo le dette commissioni prive di poteri autoritativi a cui possa contrapporsi un interesse legittimo del soggetto privato” (Cass. sez. un. 18 settembre 2002, n. 13665, Cass. sez. un. 17 dicembre 1999, n. 912; cfr., inoltre, Cass. sez. un. 10 maggio 2002, n. 6749).
E ancora, con riguardo alla rilevanza della natura delle “collegiali mediche”, si è più di recente precisato come a norma dell’art. 147, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, esse sono prive di qualsiasi efficacia vincolante, di natura sostanziale e processuale, quale ne sia la natura giuridica. “Tale regola non è derogata dalle disposizioni speciali dettate dall’art. 1 della legge n.295 del 1990, applicabile, nella specie, “ratione temporis”. In particolare, l’esame di tale disciplina, nella parte in cui prescrive le modalità di accertamento dei requisiti sanitari richiesti per la concessione di prestazioni di assistenza e prevede che i verbali di visita medica conseguenti agli accertamenti compiuti dalle commissioni costituite presso le USL vengano trasmessi alle commissioni mediche periferiche per le pensioni di guerra e di invalidità civile e, in mancanza di sospensione della procedura per ulteriori accertamenti, alle prefetture “per gli ulteriori adempimenti necessari per la concessione delle provvidenze previste dalla legge” (comma 7 dell’art. 1 cit.), conferma la natura non provvedimentale degli accertamenti sanitari dedotti in ricorso, in quanto meramente strumentali e preordinati all’adozione del provvedimento di attribuzione della prestazione, in corrispondenza di funzioni di certazione assegnate dalla legge alle indicate commissioni mediche: natura strumentale che non muta in caso di accertamento negativo soggetto, alla stregua del conttB 8 del medesimo articolo, al ricorso al Ministero del tesoro, cui spetta in via esclusiva, sentita la commissione medica superiore, l’emissione del provvedimento decisorio ricorribile in via giurisdizionale” (Cass. sez. un. 30 marzo 2006, n. 7548).
In conclusione, il secondo motivo del ricorso va accolto, mentre va rigettato il primo motivo, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, la causa va rinviata, anche per le spese, alla Corte d’appello di Campobasso, giudice del lavoro, in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso e rigetta il primo, cassa la sentenza impugnata, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rinvia, anche per le spese alla Corte d’appello di Campobasso, giudice del lavoro, in diversa composizione.
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