Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 8 ottobre 2013, n. 41599
Ritenuto in fatto
1. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia ricorre avverso la sentenza 18 febbraio 2013 della corte veneta, pronunciata nei confronti di F.L.G. (accusata di peculato, aggravato continuato), con la quale è stata dichiarata la nullità della sentenza di primo grado e gli atti trasmessi al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verona, ravvisandosi nei fatti ascritti il diverso reato di cui agli artt. 81 capoverso 640 e 61 nn. 7 e 9 cod. pen..
1.1. La F. era accusata al capo a) del delitto di cui agli art. 81 cpv., 61 n. 7 e 314 c.p., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale impiegata responsabile dell’ufficio postale di …, si appropriava, facendosele intestare, di 20 polizze Poste Vita, contratte dalle persone offese per un valore pari ad Euro 303.000,00, di cui aveva il possesso o comunque la disponibilità per ragioni del proprio ufficio, poiché frutto di investimenti effettuati da R.G. , Ro.Gi. e R.R. e si appropriava di altre somme, di 105 cedole e di altri titoli, appartenenti a R.G. , a Ro.Gi. e a R.R. , per un importo complessivo di 2.122.038,46 di cui aveva il possesso o comunque la disponibilità per le medesime ragioni del proprio ufficio. Con l’aggravante di avere cagionato alle persone offese un danno patrimoniale di rilevante entità. In (omissis) .
2. Con sentenza 17 ottobre 2011 il Tribunale di Verona ha dichiarato F.L.G. responsabile dei fatti sub A), da qualificarsi ai sensi dell’art. 314 cod. pen. quanto alle appropriazioni avvenute in data 6.3.2006, 7.3.2006, 8.3.2006, 15.3.2006, 17.3.2006, 20.3.2006, 21.3.2006, 22.3.2006, 25.3.2006 e 16.9.2006 ed ai sensi dell’art. 646 cod. pen. con le aggravanti ex art. 61 nn. 7 e 11 cod. pen. quanto alle appropriazioni delle 14 polizze vita intestate a Ro.Gi. e delle 6 polizze vita intestate a R.R. , nonché delle appropriazioni avvenute in data 21.1.2006, 4.2.2006, 8.2.2006, 25.2.2006, 28.2.2006, 6.5.2006, 31.5.2006, 16.6.2006, 24.7.2006 e ritenuta la continuazione tra tutti i reati, considerato più grave il peculato commesso in data (omissis), riconosciute le attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p. e dell’art. 62 n.6 c.p., la condannava alla pena di anni quattro mesi cinque giorni cinque di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Pena condonata nella misura di anni tre di reclusione.
La F. è stata inoltre condannata al risarcimento dei danni tutti subiti dalla parte civile Poste Italiane, rimettendo a separato giudizio la liquidazione dei danni ed assegnando provvisionale, immediatamente esecutiva come per legge, di Euro 20.000,00 complessivi.
3. Su appello dell’imputata e del Procuratore generale, la Corte di appello veneta, con sentenza 18 febbraio 2013, richiamata la decisione di questa sezione 25 maggio 2011 (P. e altri), ha ritenuto che la fattispecie del peculato,di cui all’art. 314 cod. pen., ricorre laddove il soggetto agente, che non ha per ragioni del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità dei beni, è costretto ad acquisirlo fraudolentemente.
3.1. Nella vicenda, ad avviso della gravata sentenza, l’ufficiale postale non disponeva direttamente del possesso del denaro o dei titoli dei clienti ed è stato pertanto costretto, per appropriarsene, a farsi rilasciare le deleghe, a farsi firmare le ricevute, senza contare che si fece addirittura nominare erede dei R. per testamento, in un contesto in cui le persone offese non avevano affatto l’intenzione di beneficiare la F. mentre erano ancora in vita. Da ciò anche l’esclusione della fattispecie dell’art. 316 C.P., che pari menti richiede il possesso o la disponibilità dei beni in capo all’agente, e dell’appropriazione indebita di cui all’art. 646 cod. pen., che prescinde inoltre dagli artifici e raggiri diretti al conseguimento della titolarità dei beni.
3.2 In tale quadro la corte distrettuale, ritenuto che sotto il profilo del fatto non potesse ravvisarsi nell’imputazione originaria di peculato, elevata a carico della F. , il delitto di truffa, potendo ritenersi contestata soltanto ed esclusivamente l’ipotesi del solo peculato, essendovi affermato il possesso per ragioni d’ufficio e non essendo indicata la presenza di artifici o raggiri, ha ritenuto che l’eventuale condanna per il reato che si ritiene configurabile avrebbe determinato una chiara violazione del diritto alla difesa, ha dichiarato la nullità della sentenza, rimettendo gli atti al P.M. per la diversa contestazione, ravvisando nei fatti ascritti il reato di cui agli artt. 81 cpv., 640 e 61 nn. 7 e 9 C.P..
Considerato in diritto
1. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia giustifica il suo gravame, da un lato, per conseguire una corretta applicazione della legge penale e, dall’altro, per impedire che la diversa qualificazione giuridica di truffa aggravata determini l’estinzione di episodi del reato a partire dal giugno 2013.
Il ricorso della parte pubblica è composto di due motivi Con un primo motivo viene dedotto vizio di motivazione, sotto il profilo della mancanza, contraddittorietà ed illogicità, avuto riguardo alla diversità dei beni oggetto della condotta illecita della F. : le venti polizze assicurative, da un lato (per le quali il primo giudice aveva escluso il possesso per ragione dell’ufficio o del servizio), e le cedole, i libretti di risparmio ed altri titoli, dall’altro (per i quali il Tribunale aveva ritenuto il possesso qualificato oppure il possesso comune, a seconda del risultato delle operazioni bancarie fosse stata l’emissione l’intestazione del nuovo titolo alla sola F. o a un suo familiare, oppure alla stessa F. assieme ad un esponente dei R. ).
Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge in relazione al disposto dell’art. 314 cod. pen..
2. Per il Procuratore generale ricorrente, il preciso e categorico riferimento nella gravata sentenza alla mancanza in capo all’ufficiale postale dei poteri di disporre autonomamente delle somme versate dai clienti, farebbe intendere che sia stata adottata, nella definizione del presupposto del peculato, la concezione che il possesso qualificato dalla ragione di ufficio o di servizio sia solamente quello che in senso stretto rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale.
Al contrario, nel possesso qualificato ex art. 314 c.p. deve allo stesso modo essere compresa ogni disponibilità autonoma dei beni altrui, quale può anche derivare da prassi e concrete modalità di attuazione e svolgimento di quelle competenze. Di conseguenza, sarebbe dovuto apparire decisivo non tanto l’ovvio dato istituzionale che l’Amministrazione postale, e dunque il funzionario, non possa autonomamente disporre dei beni dei clienti, quanto piuttosto che lo stesso pubblico ufficiale nel concreto si fosse trovato nella condizione di inserirsi con un certo grado di autonomia operativa nella movimentazione e nella disponibilità dei medesimi.
3. I due motivi per la loro stretta connessione vanno congiuntamente esaminati.
Pacifica la qualità di pubblico ufficiale, rivestita dalla F. quale direttore dell’ufficio postale, in considerazione sia dei suoi poteri certificativi che della natura pubblicistica dei servizi postali, anche dopo la trasformazione dell’amministrazione postale in ente pubblico economico e della successiva adozione della forma della società per azioni – (cass. pen. sez. 6, 3897/2009 Rv. 242520), si tratta ora di vedere la correttezza o meno della qualificazione della condotta del detto pubblico ufficiale in termini di peculato, come ritenuto dal primo giudice e richiesto dal ricorrente Procuratore generale, oppure in termini di truffa aggravata, come invece affermato dalla gravata sentenza.
Per consolidata giurisprudenza di questa Corte l’elemento discretivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell’art. 61 n. 9, cod. pen., va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o d’altra cosa mobile altrui, oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (cass. pen. sez. 6, 35852/2008 Rv. 241186).
In altri termini, nel peculato il possesso del bene trova origine nella ragione di ufficio e preesiste all’illecita conversione in profitto dell’agente, mentre nella truffa l’acquisto del possesso consegue all’azione del colpevole, consistente nell’induzione in errore mediante artifici o raggiri. Ne consegue che, quando gli artifici vengano posti in essere non per conseguire il possesso della res, ma per occultarne l’illecito impossessamento, ovvero per assicurarsi l’impunità, sussiste il delitto di peculato e non quello di truffa aggravata (cass. pen. sez. 6, 3039/1990 Rv. 183538).
Orbene, ferma la regola che l’integrazione del delitto di peculato non è impedita dal fatto che il possesso o la disponibilità del denaro o dell’altrui cosa mobile siano stati acquisiti in violazione delle disposizioni organizzative dell’ufficio a cui appartiene l’agente (cass. pen. sez. F, 34086/2011 Rv. 252208), ritiene la Corte corretto l’assunto del giudice territoriale secondo cui la disponibilità dei beni in questione (le venti polizze assicurative, da un lato, e le cedole, i libretti di risparmio ed altri titoli, dall’altro) non potendosi essi considerare nelle concrete immediate accessibilità della direttrice dell’Ufficio postale, è stata dalla stessa conseguita fraudolentemente, sfruttando e facendo leva sulla sua funzionale qualità di pubblico ufficiale che le ha consentito appunto di carpire, con frode imbroglio ed inganno, il consenso delle vittime, nei termini e con le modalità di azione quali diffusamente descritte dai giudici di merito ed esattamente inquadrate sotto il profilo giuridico dalla corte distrettuale.
Si tratta infatti di un illecito esito, ottenuto dalla direttrice con frode, che ha così determinato e consentito il materiale possesso della res e la conversione in profitto per il pubblico ufficiale, il quale ha pertanto conseguito con inganno il possesso o comunque la diretta accessibilità a beni che, per ragione del suo ufficio o servizio, non erano affatto nella sua disponibilità.
In conclusione bene ha deciso la corte distrettuale considerato che l’imputata ha sfruttato le abilità, e le competenze derivatele dall’ufficio esercitato, per ottenere, con inganno, il consenso delle vittime per ottenere la disponibilità che istituzionalmente non aveva.
Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonché apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Leave a Reply