cassazione 8

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 19 giugno 2015, n. 25944

Ritenuto in fatto

1. S.D. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, in data 2-7-2014, con la quale è stata confermata la sentenza di condanna emessa in primo grado, in ordine al delitto di cui all’art. 323 cod. pen. perché, in qualità di direttore dell’Ispettorato Territoriale Lombardia, intenzionalmente procurava a “(omissis) ” un ingiusto vantaggio patrimoniale, costituito dalla possibilità di trasmettere, in (…), dalla frequenza FM 100.00 Mhz, in forza dell’autorizzazione sperimentale, concessa dallo S. , il 27-11-2007, arrecando a “(omissis) ” e “(omissis) ” un danno ingiusto. In (omissis) .
2. Il ricorrente deduce, con il primo motivo, violazione dell’art. 323 cod. pen. e comunque dell’art. 28 comma 2 d.lg. 177/05 e vizio di motivazione, poiché l’autorizzazione sperimentale temporanea, concessa dal ricorrente, consentiva l’attivazione sperimentale del diffusore radiofonico, con avvertenza che essa era concessa solo ai fini radioelettrici mentre per l’installazione e l’esercizio degli impianti la società avrebbe dovuto provvedere all’acquisizione delle necessarie autorizzazioni. Nell’atto poi si faceva salva la facoltà di revoca o modifica, in qualsiasi momento, qualora fossero subentrate situazioni ostative, nell’ottica della regolarità degli impianti, o vi fossero stati problemi d’interferenza, provocati dalle attivazioni autorizzate. Dunque l’autorizzazione rilasciata dall’ing. S. , in vista delle misurazioni atte a verificare le possibili interferenze tra l’esercizio del diffusore e della frequenza, oggetto di richiesta di concessione, e altri impianti, proprio per la sua natura sperimentale e temporanea, non aveva e non ha concretamente avuto l’idoneità ad incidere, neppure in modo indiretto e mediato, sulla fase decisoria finale, su cui potevano influire soltanto, come concretamente avvenuto, i necessari accertamenti tecnici, atti a verificare la presenza di eventuali interferenze e svolti nel contraddittorio delle parti, che, nel corso del procedimento, hanno comunque esercitato le proprie facoltà partecipative, ex art. 7 l. 241/90.
2.1. Il secondo motivo s’incentra invece sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, non essendo ravvisabile il dolo intenzionale in capo all’imputato, con particolare riferimento alle note inoltrate al Ministero, in cui il ricorrente mostra di attenersi alle statuizioni del Consiglio di Stato o domanda istruzioni sul come procedere o chiede se possa essere accolta la richiesta di autorizzazione in via sperimentale e temporanea, limitata alle prove tecniche. Si consideri anche la risposta pervenuta dal Direttore generale del Ministero delle Comunicazioni, in cui si precisa come l’Ispettorato non possa esimersi dall’obbligo di esaminare un nuovo progetto o una nuova condizione, prospettata dall’emittente. Per di più, l’assenza prolungata dell’imputato, per motivi di lavoro, dall’ufficio di Milano, così come la mancanza assoluta di qualsiasi contatto con il beneficiario dell’autorizzazione, avrebbero dovuto indurre ad escludere il dolo intenzionale.
2.2.Non sussiste nemmeno il requisito della doppia ingiustizia, non potendosi inferire l’ingiustizia del vantaggio dall’illegittimità del mezzo utilizzato e quindi della condotta.
2.3.Con l’ultimo motivo, si lamenta violazione degli artt. 76, 100, 122 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in merito all’ordinanza che ha rigettato la richiesta di esclusione della parte civile, poiché, in ordine alla formalizzazione dell’atto di costituzione di parte civile, ad opera dell’avvocato Ardia, è da rilevarsi come il predetto atto sia stato sottoscritto, in qualità di difensore e procuratore speciale, dall’avv. Luca Ricci. Ne deriva che, attesa la possibilità, per il danneggiato, di costituirsi in giudizio a mezzo di un solo procuratore speciale, così come di stare in giudizio con il ministero di un solo difensore, munito di procura speciale, la costituzione di parte civile avrebbe dovuto ritenersi irrituale. All’avv. Ardia, che si è attivato nella sola veste di sostituto processuale del difensore, competevano i soli poteri rientranti nell’ambito del mandato alle liti e non anche quello di esercitare l’azione civile nel processo penale, attraverso la costituzione di parte civile, stante l’assenza, in udienza, della persona offesa. Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

1. Il primo e il secondo motivo di ricorso sono infondati.
Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, che, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attenga pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l’oggettiva “tenuta”, sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l’accettabilità razionale (Cass Sez. 3, n. 37006 del 27-9-2006, Piras, Rv. 235508; Cass. Sez. 6, n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv.234155). Il sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve pertanto essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria” ovvero sia esente da antinomie e da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con altri atti del processo,indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente, nei motivi posti a sostegno del ricorso, in misura tale da risultare radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass.Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Rv. 251516).
1.1. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha evidenziato che il procedimento era stato avviato a seguito di un’istanza relativa a un impianto ubicato in via (…). Successivamente venne presentata una richiesta per un altro impianto, ubicato in p.le (omissis) , che costituisce oggetto dell’imputazione. In relazione a questa seconda richiesta, venne avviato un nuovo procedimento ma con il medesimo numero di protocollo del precedente, come se l’istanza originaria fosse stata sostituita dalla nuova richiesta, riguardante invece un impianto completamente diverso e di potenza di gran lunga superiore. Dalla soppressione della prima domanda e del corrispondente provvedimento si evince la natura fraudolenta dell’operazione, che costituì l’artificio mediante il quale venne eluso il dovere di informare le altre emittenti interessate, alle quali, grazie a questo espediente, non venne tempestivamente comunicato né il deposito della seconda istanza né l’avvio del corrispondente procedimento. Non vennero osservati nemmeno i termini previsti per gli avvisi all’Arpa e al Comune né venne espletata una istruttoria della pratica. Anche la comunicazione del Direttore generale del Ministero delle comunicazioni concerneva la prima istanza e quindi il diverso impianto di via (…). Anzi la predetta nota ministeriale conteneva un fermo richiamo al rispetto del contraddittorio con le altre emittenti interessate ((…)e (omissis) ). Per di più, l’istanza del 27-11 non era corredata dagli studi teorici preventivi relativi al nuovo impianto di p.le (omissis) . Né la legittimità del provvedimento autorizzativo del 27/11/2007 può inferirsi dall’ordinanza del Tar della Lombardia del 12-2-2008, che si limitò a respingere l’istanza di sospensione del provvedimento, a motivo della natura provvisoria dell’autorizzazione, destinata a perdere efficacia decorso il previsto termine, di 120 giorni. D’altronde-precisa la Corte d’appello- la natura provvisoria e sperimentale dell’autorizzazione non esclude affatto la configurabilità del reato contestato, atteso che la sperimentazione dell’impianto rappresentava comunque un risultato favorevole al richiedente, potendo l’autorizzazione essere convertita in definitiva laddove non fosse intervenuta la revoca, ed avendo essa comunque arrecato al privato il vantaggio costituito dalla possibilità di trasmettere, con effetti potenzialmente dannosi per altre emittenti, con segnale su frequenze adiacenti.
1.2. In ordine alla tematica inerente alla sussistenza del dolo intenzionale, il giudice a quo, richiamando anche, sul punto, la motivazione della sentenza di primo grado, ha posto in rilievo che l’imputato, che conosceva perfettamente le problematiche sottese alla pratica e possedeva senz’altro nozioni e competenze adeguate alla funzione svolta, era sicuramente consapevole di firmare, a seguito di un’istanza risalente a soli quattro giorni prima, un’autorizzazione sperimentale per un impianto diverso da quello di via Turati e di maggior potenza, senza l’analisi teorica, normalmente richiesta, né la comunicazione del progetto ai terzi controinteressati e agli enti. La dislocazione e la potenza dell’impianto erano d’altronde chiaramente evidenziate, onde deve escludersi che l’imputato si sia determinato a firmare l’autorizzazione per mera leggerezza, anche perché la vicenda sottesa al rilascio dell’autorizzazione in questione era molto importante ed era pacificamente nota all’imputato. La presenza del procuratore della società instante, al momento della firma, e, più in generale, le pressioni da quest’ultimo esercitate costituiscono poi elementi ulteriori ed assai significativi, che denotano la volontà dello S. di avvantaggiare la titolare della radio, che avrebbe trasmesso da una frequenza tale da procurare, ingiustamente, prevedibili danni all’ascolto delle radio legittimate a trasmettere su frequenze adiacenti.
1.3. Trattasi, come si vede, di una motivazione precisa, fondata su specifiche risultanze processuali e del tutto idonea a illustrare l’itinerario concettuale esperito dal giudice di merito. D’altronde, Il vizio di manifesta illogicità che, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett e) cod. proc. pen., legittima il ricorso per cassazione implica che il ricorrente dimostri che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, in tesi egualmente corretti sul terreno della razionalità. Ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, connotate da eguale crisma di logicità (Sez. U. 27-9-1995, Mannino, Rv. 202903).La verifica che la Corte di cassazione è abilitata a compiere sulla completezza e correttezza della motivazione di una sentenza non può infatti essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. Né la Corte suprema può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull’attendibilità delle fonti di prova, giacché esso è attribuito al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che, come nel caso in disamina, il processo formativo del libero convincimento del giudice non abbia subito il condizionamento derivante da una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova (Sez. U. 25-11-1995, Facchini, Rv. 203767). Dedurre infatti vizio di motivazione della sentenza significa dimostrare che essa è manifestamente carente di logica e non già opporre alla ponderata ed argomentata valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto ragionevole (Sez. U. 19-6-1996, Di Francesco, Rv. 205621).
2. Correttamente la Corte d’appello ha ravvisato, nella specie, la sussistenza del requisito della cd. “doppia ingiustizia”. Come è noto, il reato di cui all’art. 323 cod. pen. è ravvisabile allorquando l’agente attraverso una condotta illegittima, abbia procurato a sé o ad altri un “ingiusto” vantaggio patrimoniale. La ratio a fondamento dell’inserimento, nella fattispecie incriminatrice, del requisito dell’ingiustizia del vantaggio è quella di evitare che incorra nel reato di abuso d’ufficio il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio il quale, pur violando norme di legge o di regolamento, abbia attribuito ad un privato un vantaggio a cui quest’ultimo aveva diritto. Si pensi al caso del pubblico funzionario che disponga l’iscrizione all’albo professionale di un soggetto che abbia regolarmente superato l’esame di abilitazione all’esercizio della professione e sia in possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge, pur non avendo presentato i documenti prescritti. Oppure al caso del pubblico ufficiale che, sia pur attraverso un iter procedimentale difforme da quello delineato dalla legge, disponga l’erogazione del corrispettivo, nella misura dovuta, in favore di un privato che abbia regolarmente espletato una prestazione a beneficio della pubblica amministrazione. In casi come quelli appena esemplificati, il privato ha diritto ad ottenere dalla pubblica amministrazione quanto riconosciutogli, onde l’agire del pubblico ufficiale, sia pure attraverso modalità illegittime, è approdato ad un risultato conforme alla legge. Il vantaggio, in tali casi,non può qualificarsi ingiusto, ragion per cui esula la responsabilità penale ex art. 323 cod. pen. e i profili d’illegittimità riscontrabili esauriscono la loro rilevanza sul terreno amministrativo ed, eventualmente, disciplinare. Vanno dunque espunti dall’area dell’illecito penale i comportamenti abusivi finalizzati a procurare un vantaggio o un danno conforme al diritto (Sez. 6, 5-4-1994, Presutto, Cass. pen. 1995, 3336; Sez 6, 14-12-1995, Marini, Cass. pen. 1996, 3303; Sez 6, 6-6-1996, Scaduto, Cass. pen, 1997, 2693).
2.1. Il vantaggio è invece ingiusto ogniqualvolta non trovi fondamento in un corrispondente diritto sostanziale (Cass., Sez 6, n. 6047 del 13-5-1996, in Giust. pen. 1997, 11,235) e dunque non soltanto qualora sia in sé contrario all’ordinamento (Cass., Sez. 6, 24-5-2011, Rossattini) ma anche quando il privato non possa vantare, rispetto ad esso, alcuna situazione giuridica soggettiva a sostegno della relativa pretesa. Ne deriva che il vantaggio patrimoniale o il danno può ritenersi ingiusto allorché esso non sia dovuto, sia cioè iniuste datum (Cass. Sez 6, 9-7-1993, Marcello, Riv. Pen. econ. 1994, 371; Sez. 6, 13-5-2014, Minardo e Siracusa). In altri termini, va considerato ingiusto non soltanto il vantaggio contra ius ma anche quello ottenuto sine iure. Va perciò ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il reato di abuso di ufficio è caratterizzato da una “doppia ingiustizia”: la prima inerisce alla condotta ed è costituita dalla contrarietà a norme di legge o di regolamento. La seconda attiene invece al risultato della condotta e si concreta nell’attribuzione ad un privato di un vantaggio non spettantegli, in base al diritto oggettivo che disciplina la materia (Cass., Sez 6, 6-12-2012, Busonero; Sez 5, n. 16895 del 2-12-2008, Rv 243327). Non è quindi necessario che la violazione di prescrizioni normative si sia dispiegata su entrambi i versanti, quello della condotta e quello dell’evento di vantaggio patrimoniale. L’ingiustizia del vantaggio non deve infatti necessariamente derivare dalla violazione di una norma diversa ed autonoma rispetto a quella che ha caratterizzato l’illegittimità della condotta (Cass., Sez. 6, 29-1-2015, Strassoldo). È infatti sufficiente la violazione di prescrizioni normative sul solo versante della condotta, sempre che, per effetto di essa, sia stato attribuito al privato un vantaggio a cui quest’ultimo non aveva diritto, senza che sia necessario che il vantaggio venga attribuito violando un’ulteriore norma di legge.
Occorre pertanto che il giudice effettui, al riguardo, una duplice valutazione, tenendo ben distinto il profilo inerente all’illegittimità della condotta da quello relativo all’ingiustizia del vantaggio, non potendosi inferire quest’ultima dall’accertata esistenza della violazione di norme di legge o di regolamento (ex plurimis, Cass., Sez 6, 27-6-2009, Moro) ma dovendosi sempre accertare che il privato non avesse titolo a ricevere il vantaggio attribuitogli.
2.2. Dalle considerazioni appena formulate deriva che il reato di abuso d’ufficio può configurarsi anche in relazione all’attività discrezionale della pubblica amministrazione. La configurabilità del reato di abuso d’ufficio in relazione all’ambito dell’attività discrezionale della P.A. è largamente ammessa, in giurisprudenza, laddove si è precisato che il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo qualora la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale o logico- sistematico di una norma ma anche allorquando l’agire del pubblico ufficiale contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma stessa, concretandosi in uno svolgimento della funzione o del servizio che oltrepassi l’ambito delle scelte discrezionali attribuito al soggetto pubblico (Cass., Sez. 6, 5-12-2011, D’Alessandro). Il che è perfettamente in linea con il dictum di Sez. Un. 29-9-2011 n. 155, Rossi (Rv. n. 251498), che ha ritenuto sussistere il requisito della violazione di legge non solo allorché la condotta del pubblico ufficiale si esplichi in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere ma anche quando essa risulti orientata esclusivamente alla realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi, in tale ipotesi, il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché il potere non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione. Il reato di abuso di ufficio è pertanto configurabile anche in caso di sviamento di potere e cioè allorché la condotta dell’agente, pur formalmente aderente alla norma che disciplina l’esercizio delle sue attribuzioni, si estrinsechi in assenza delle ragioni legittimanti (Cass., Sez. 6, 11-3-2005, n. 12196, Rv. 231194; Sez. 6, 18-10-2012, n 43789, in Cass. pen 2013, 3516; conf. Sez 6, 8-7-96 n. 8649, in Cass. pen 1997, 2691). E,nella più recente giurisprudenza, si è affermato che il legislatore non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 cod.pen. ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto includervi anche le altre patologie dell’atto amministrativo, tra le quali l’eccesso di potere, configurabile laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dalla finalità tipica (Cass. Sez.6, 12-6-2012, Demma).In quest’ottica, la giurisprudenza ha altresì sottolineato il rilievo dell’art. 97 Cost., nel suo nucleo precettivo, diretto ad evitare favoritismi o discriminazioni (Cass. Sez. 6 14-6-12, Arbitani).
Orbene, a fronte dell’attività discrezionale della pubblica amministrazione, il privato, per definizione, non vanta diritti e non ha titolo a pretendere l’attribuzione di un certo beneficio (il superamento di un esame di Stato o di un concorso; l’aggiudicazione di un appalto e via discorrendo). È perciò sufficiente, per la sussistenza del reato di abuso d’ufficio, segnatamente sotto il profilo della ravvisabilità del requisito della c.d. “doppia ingiustizia”, che il pubblico ufficiale, violando norme di legge o di regolamento, attraverso un esercizio distorto della discrezionalità che gli compete, nel senso appena indicato,abbia procurato al privato un vantaggio che non gli spettava, in base alla normativa di riferimento.
3. Sulla base dei principi appena esposti, non merita censura la conclusione cui è pervenuto il giudice a quo in merito alla sussistenza del requisito della cd. “doppia ingiustizia”, poiché, come sottolineato dalla Corte d’appello, la condotta dell’imputato è da considerarsi ingiusta, in quanto connotata da violazione di norme di legge e di regolamento e segnatamente dell’art. 28,comma 2, d. lg. 177/05; e ingiusto è anche l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante al gestore di “(omissis) “, in base al diritto oggettivo regolante la materia.
4. Non può essere accolto nemmeno l’ultimo motivo di ricorso. La Corte di merito ha infatti evidenziato che la procura è stata conferita ai difensori (avv. Ricci e avv. Ardia) anche disgiuntamente; che la costituzione di parte civile è stata formalizzata alla prima udienza dibattimentale dall’avv. Ardia, il quale ha dunque partecipato alle udienze non solamente nella veste di sostituto processuale dell’avv. Ricci; che la procura è stata ritualmente conferita, ai sensi dell’art. 100 cod. proc. pen., e che la documentazione comprovante i poteri del soggetto conferente è stata prodotta in allegato all’atto di costituzione nei confronti dell’originario coimputato. Non sono pertanto ravvisabili profili di irritualità, onde la doglianza va respinta.
5. Il ricorso va dunque rigettato, poiché basato su motivi infondati, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si ritiene congruo liquidare in Euro tremila, oltre IVA e CPA.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché a rifondere le spese sostenute dalla parte civile che liquida in euro 3.000,00 oltre IVA e CPA

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *