In tema di maltrattamenti, la reiterazione di comportamenti aggressivi tenuti dall’imputato – motivata anche da ragioni banali ed eletta a codice di comunicazione con la propria compagna, provocando in essa uno stato di afflizione e sofferenza – assurge ad elemento abituale della condotta, unitamente alla gratuità delle aggressioni fisiche e verbali imposte alla persona offesa
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
SENTENZA 6 luglio 2017, n. 32951
Ritenuto in fatto
La Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto C.M. dal reato di ingiuria commesso il (omissis) , perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, e, per l’effetto, ha ridotto ad Euro 4.500,00 l’importo della somma liquidata alla parte civile a titolo di risarcimento del danno ed ha confermato la condanna per i reati di cui agli artt. 572, 582, 576, 61 n. 2 cod. pen. (contestati al capo B) della rubrica, alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 50,00 di multa, In primo grado l’imputato era stato assolto, perché il fatto non sussiste, dai reati di cui agli artt. 612-bis cod. pen. e da ulteriori reati di ingiuria.
Con motivi di ricorso, personalmente sottoscritti, l’imputato denuncia plurimi vizi di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e illogicità, e conseguente vizio di violazione di legge per la ritenuta sussistenza del reato di maltrattamenti. Deduce che: 2.1 il reato di maltrattamenti è stato contestato con riferimento al periodo di convivenza tra l’imputato e la persona offesa, convivenza protrattasi dall’ottobre 2008 al marzo del 2009, interrottasi nell’aprile dello stesso anno, e che, pertanto, erroneamente il giudice di appello ha ritenuto costituire riscontro alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, le dichiarazioni rese dai testi B.M. e L.F. che hanno riferito un episodio accaduto il (omissis) (successivo alla interruzione della convivenza), e che, difatti, era oggetto di contestazione con riguardo al reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., contestato al capo A) della rubrica per il quale è intervenuta l’assoluzione del C. ; 2.2 erroneamente, è stato ritenuto sussistente il reato di maltrattamenti sia sotto l’aspetto materiale, poiché il reato de quo presuppone una convivenza stabile, durevole e consolidata della relazione, smentita dalla brevità della relazione intercorsa tra l’imputato e la denunciante, sia con riguardo all’elemento psicologico poiché lo stato di ubriachezza in cui l’imputato si trovava al momento dei fatti denunciati fa sorgere il ragionevole dubbio che in lui vi fosse l’intento e la deliberata coscienza di rendere la convivenza dolorosa, mortificante e insostenibile per la compagna; 2.3 erroneamente è stato ritenuto sussistente sia il reato di lesioni, poiché la prova è costituita unicamente dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa che non è stata in grado di contestualizzare il momento del fatto e non ha prodotto alcun referto in merito sia il nesso teleologico di cui all’art. 576 e 61 n. 2 cod. pen. tra il reato di lesioni e quello di maltrattamenti. Denuncia, infine, la nullità della condanna al risarcimento del danno poiché nell’atto di costituzione di parte civile non vi è riferimento ai reati di maltrattamenti e lesioni, di cui al capo B) della rubrica ma solo ai reati di cui agli artt. 612-bis e 594 cod. pen., rubricati sub capo A), per i quali è intervenuta l’assoluzione già in primo grado. La decisione impugnata è, pertanto, intervenuta ultra petita. Con memoria del 16 marzo 2017, il difensore del ricorrente, precisati alcuni errori materiali contenuti nel ricorso con riferimento alla data del commesso reato, ha ribadito i motivi di ricorso e sollecitato la pronuncia di declaratoria di intervenuta prescrizione dei reati.
Considerato in diritto
In presenza di ricorso che deduce in diritto motivi non manifestamente infondati deve rilevarsi la intervenuta prescrizione del reato, per decorrenza dei termini massimi, maturata in data 1 settembre 2016. Nondimeno, in presenza di sentenza che contiene statuizioni civili, è necessario esaminare i motivi di ricorso ai fini della conferma delle relative statuizioni.
Rileva il Collegio che non sono deducibili con il proposto mezzo di impugnazione i motivi di ricorso che investono il giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa che, non essendo ravvisabile alcuna aporia o contraddizione nel ragionamento della sentenza impugnata, si risolvono nella inammissibile richiesta di una rivalutazione in fatto delle dichiarazioni accusatorie. I giudici del merito – la sentenza impugnata e quella di primo grado vanno, in vero, lette unitariamente l’una valendo ad integrare l’altra per espresso riferimento al condiviso criterio di giudizio – hanno compiuto un’attenta disamina delle dichiarazioni rese dalla persona offesa evidenziando la precisione e la lucidità delle dichiarazioni accusatorie, riscontrate da quelle di testi estranei che avevano descritto i soprusi fisici e morali subiti dalla stessa ad opera dell’imputato in una fase nella quale era ormai cessato il rapporto di convivenza fra i due e che hanno riferito sia delle confidenze della Ce. sia di specifici episodi accaduti alla loro presenza descrivendo il temperamento, irascibile e vendicativo dell’imputato. Questi, da parte sua, rilevano i giudici di appello, si è limitato a negare gli addebiti ascrittigli attribuendoli alle ritorsioni della Ce. e del nuovo compagno della donna, ritorsione, tuttavia, smentita dalla circostanza che la denuncia della Ce. è precedente a quella dell’imputato (per il reato di falso) in danno della donna e del L. . La Corte di merito del tutto ragionevolmente è pervenuta alla conclusione che la mancanza di referto medico, in relazione all’episodio di lesioni, non depone affatto per la inattendibilità o falsità delle accuse della persona offesa che all’epoca della convivenza con il C. , non aveva inteso sporgere denuncia e, quindi, non aveva assunto alcuna iniziativa di recarsi al Pronto Soccorso per farsi refertare. In conclusione le dichiarazioni rese dalla persona offesa sono state valutate facendo applicazione dei principi enunciati nella giurisprudenza di legittimità sul tema. Giova, infatti, rammentare che le dichiarazioni rese dalla persona offesa non necessitano della presenza di riscontri esterni non trovando per esse applicazione la regola di cui all’art. 192, commi 3 e 4 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104) e che tali dichiarazioni, possono da sole essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, verifica che, come cennato, nel caso in esame, la Corte territoriale ha compiuto conducendo una penetrante e rigorosa analisi delle dichiarazioni e del comportamento processuale della teste, prudente apprezzamento nel quale è rientrata anche la valutazione delle dichiarazioni rese dall’imputato e dai testi escussi. Né tale giudizio è inficiato dalla intervenuta assoluzione dell’imputato dai reati di staiking e ingiuria poiché, come la sentenza impugnata non ha mancato di evidenziare, il resoconto compiuto in proposito dalla persona offesa risultava, invece, contrassegnato dalla mancanza di precisione e chiarezza della ricostruzione.
Le argomentazioni sviluppate al punto 2.1 del ritenuto in fatto sono infondate. Secondo il costante insegnamento di questa Corte (Sez. 1, n. 8618 del 12/02/1996, Adamo, Rv. 205754), ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen. la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze. Se è, dunque, vero che, per ritenere raggiunta la prova dell’elemento materiale del reato di maltrattamenti non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, poiché il reato in esame costituisce ipotesi di reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche essere non punibili (condotte di umiliazione generica o anche di indifferenza verso le esigenze del congiunto etc.), ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), e che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo, non è, viceversa, condivisibile la tesi sostenuta in ricorso secondo la quale la circoscrizione temporale delle condotte, limitata ai pochi mesi nei quali si è realizzata la convivenza tra l’imputato e la persona offesa (cioè dal mese di ottobre 2008 al mese di marzo 2009), farebbe venire meno di per sé il requisito dell’abitualità. Ciò che è necessario, per la configurabilità del reato, è, invece, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile alla persona offesa (Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794) e, cioè, di una serie di atti lesivi di diritti fondamentali della persona, inquadrabili all’interno di una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione al soggetto passivo di un regime di vita oggettivamente vessatorio ed umiliante (Sez. 6, n. 45037 del 02/12/2010, Dibra, Rv. 249036). Ne consegue che, se la serialità ed abitualità del comportamento postula un apprezzamento del dato temporale che sia ampio e prolungato, non ne deriva affatto che tale ampiezza sia da escludere in presenza di una condotta protrattasi solo per pochi mesi, dovendo, in ogni caso, aversi riguardo alla reiterazione di comportamenti nei quali si è espressa l’aggressività e la violenza, verbale e soprattutto fisica: quando, in altre parole la condotta sopraffattrice dell’agente, sia idonea, per la sua ripetitività e ricorrenza, a causare sofferenza, fisica e morale creando nei soggetti conviventi uno stato di timore e soggezione continuo, incompatibile con normali condizioni di esistenza, anche in un contesto di conflittualità o di degrado dei rapporti personali e familiari. Volontà di sopraffazione che la Corte di merito ha escluso che potesse venire meno, anche con riguardo all’elemento psicologico, in ragione dello stato di ubriachezza nel quale il C. versava al momento dei fatti, dando atto che l’assillo, le minacce, le aggressioni consumate in danno della persona offesa si connotavano come un vero e proprio sistema di vita quotidiano e, talvolta, ripetuto anche nello stesso giorno (v. pag. 5 della sentenza impugnata). È, dunque, la reiterazione di comportamenti aggressivi tenuti dall’imputato, motivati anche da ragioni banali ed eletta a codice di comunicazione con la compagna, nella quale provocava uno stato di afflizione e sofferenza, ad assurgere ad elemento abituale, in una alla gratuità delle aggressioni fisiche e verbali che le imponeva, anche in condizioni di ubriachezza che non esclude, e diminuisce, l’imputabilità e neppure il dolo.
Infondato è altresì il motivo di ricorso che investe la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, da individuare nel carattere unitario del dolo che necessariamente sorregge il delitto di maltrattamenti in famiglia (ex multis Sez. 6, n. 6541 del 11/12/2003, dep. 2004, Bonsignore, Rv. 228276) e che funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima concretizzandosi nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte. L’elemento psicologico del reato, così descritto, non si identifica con un connotato psicologico – la deliberata malvagità dell’agente né è incompatibile con la reattività di fronte a situazioni di disagio nel rapporto di coppia, essendo necessario e sufficiente che l’agente abbia la consapevole volontà delle proprie condotte e di determinare nella vittima uno stato di sofferenza, nel caso in esame denunciato dall’abitualità del ricorso a comportamenti aggressivi, del tutto gratuiti e sproporzionati rispetto alle dinamiche della vita di relazione della coppia.
Rileva il Collegio che le circostanze e modalità del fatto descritte dalla Ce. , secondo la quale in una occasione l’imputato le aveva spento la sigaretta accesa sul braccio, valgono ad integrare la contestata aggravante di cui all’art. 61 n. 2, in relazione all’art. 576 cod. pen., trattandosi di modalità del fatto che denotano come la finalità della condotta di lesioni era proprio quella di eseguire il delitto di maltrattamenti.
Infondato è anche l’ultimo motivo di ricorso. Con riguardo all’esposizione, richiesta a pena di inammissibilità dall’art. 78, lett. d) cod. proc. pen., delle ragioni che giustificano la domanda, sono corrette le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata nella quale si dà atto che nelle conclusioni dell’atto di costituzione di parte civile, prescindendo dall’uso di formule e indicazioni di tipo formale, si chiedeva l’accertamento della responsabilità dell’imputato ‘in ordine ai fatti contestati’, riferimento che assolve all’impegno argomentativo necessario all’illustrazione delle ragioni della domanda che dipende dalla natura delle imputazioni e dal rapporto tra i fatti lamentati e la pretesa azionata. Quando, come nel caso in esame, tale rapporto sia immediato è sufficiente, ai fini dell’adempimento del precetto normativo, il mero richiamo al fatto descritto nel capo d’imputazione o al titolo del reato ivi indicato (Sez. 1, n. 9534 del 12/01/2001, De Vivo, Rv. 218090).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dei reati. Conferma la statuizioni civili ex art. 578 cod. proc. pen..
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