Il reato tentato è un reato autonomo rispetto al reato consumato e non una sua ipotesi attenuata. Quindi, laddove in grado di appello venga riformata la decisione di primo grado ritenendo integrato il tentativo e non il reato consumato, non vi è l’obbligo di applicare una riduzione di pena, come per le attenuanti, rispetto alla pena originariamente applicata; il secondo giudice, invece, nell’ambito della diversa e minore forbice edittale per il reato tentato, deve determinare la pena ex novo tenuto conto delle circostanze di cui all’art. 133 cod. pen.. L’unico limite posto al giudice di appello è nel senso che la pena deve essere comunque ridotta
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
SENTENZA 6 luglio 2016, n. 27942
Svolgimento del processo
P.A. all’esito del giudizio abbreviato di primo e secondo grado dinanzi al Gup del Tribunale di Lecce ed alla Corte di Appello di Lecce, era condannato per associazione per delinquere, usura aggravata, estorsione aggravata e condannato alla pena di anni cinque di reclusione ed Euro 1400 di multa.
La sentenza della Corte d’Appello di Lecce del 6 febbraio 2013 era annullata da questa Corte di Cassazione limitatamente al profilo della corretta qualificazione del reato di estorsione contestato al capo F) in quanto la Corte di merito, nonostante uno specifico motivo di impugnazione, aveva confermato che la contestazione di estorsione andasse ritenuta come consumata e non semplice tentativo sulla base di un generico richiamo dei risultati dell’istruttoria.
Il rinvio era perciò disposto al solo fine di decidere sulla qualifica del capo F).
La Corte di appello di Lecce, in sede di rinvio, con la sentenza dell’11 settembre 2015, oggi impugnata, riteneva che il delitto fosse restato allo stadio del tentativo e qualificava il reato quale delitto di tentata estorsione aggravata ai sensi dell’art. 629 c.p., comma 2 e L. n. 203 del 1991, art. 7, comma 2; in conseguenza, previo riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla aggravante di cui all’art. 629 c.p., comma 2, determinava la pena in tre anni cinque mesi e dieci giorni di reclusione ed Euro 1166 di multa.
propone ricorso a mezzo del difensore:
con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3, ed il vizio di motivazione in quanto la pena base ‘viene certamente fissata in misura superiore’ rispetto a quella del primo grado considerando la necessaria minor pena conseguente al tentativo.
Con il secondo motivo deduce la omessa motivazione sulle ragioni per non applicare la massima riduzione di pena per il tentativo, come richiesto in sede di conclusioni.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato in quanto non è affatto vero che la Corte di Appello abbia applicato la pena in misura superiore rispetto a quella applicata dalla sentenza di primo grado per il reato consumato.
Va innanzitutto rammentato che il reato tentato è un reato autonomo rispetto al reato consumato e non una sua ipotesi attenuata. Questo vuol dire che, laddove in grado di appello venga riformata la decisione di primo grado ritenendo integrato il tentativo e non il reato consumato, non vi è l’obbligo di applicare una riduzione di pena, come per le attenuanti, rispetto alla pena originariamente applicata; il secondo giudice, invece, nell’ambito della diversa e minore forbice edittale per il reato tentato, deve determinare la pena ex novo tenuto conto delle circostanze di cui all’art. 133 cod. pen.. L’unico limite posto al giudice di appello è nel senso che la pena deve essere comunque ridotta.
Nel caso di specie, il primo giudice aveva applicato la pena di anni sette e mesi sei di reclusione ed Euro 1200 di multa, in essa già compreso l’aumento di pena per la aggravante di cui alla L. cit., art. 7; ciò significa che la pena base era stata determinata in anni cinque di reclusione ed Euro 1000 di multa, secondo la previsione dell’art. 629 c.p., comma 1.
Il giudice di appello ha, invece, determinato la pena base in anni quattro di reclusione ed Euro 800 di multa valutando il fatto quale tentativo di estorsione; ha quindi correttamente quantificato la pena rispettando l’obbligo di riduzione rispetto a quella applicata in primo grado. Il secondo motivo è manifestamente infondato: il giudice non doveva applicare una riduzione di pena per il tentativo – come richiedeva il ricorrente – bensì doveva determinare la pena ai sensi dell’art. 133 cod. pen. nell’ambito della forbice edittale prevista per la estorsione tentata, il che ha regolarmente fatto.
Valutate le ragioni della inammissibilità, la sanzione pecuniaria va determinata nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè della somma di Euro 1500 in favore della Cassa delle Ammende.
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