Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
ordinanza 21 febbraio 2014, n. 4236
Fatto e diritto
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
“La Corte di appello Genova, pronunciando sull’impugnazione proposta da Q.L. e C.F. avverso la decisione del Giudice del Lavoro di Savona, dichiarava la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per cinque giorni intimata ai suddetti ricorrenti dalla Poste Italiane S.p.A. in conseguenza del rifiuto dagli stessi opposto di eseguire l’obbligo, imposto da ordine aziendale, di presentare la documentazione necessaria per il tesserino e l’espletamento del servizio di notificazione delle cartelle di pagamento e di altri documenti esattoriali. Riteneva, in particolare, la Corte territoriale che nessuna violazione dell’art. 7, comma 2, della legge n. 300/1970 fosse stata commessa dalla società, che nessun abuso di posizione dominante fosse stato integrato, che la sanzione irrogata fosse proporzionata al fatto contestato.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale i lavoratori propongono ricorso per cassazione fondato su cinque motivi.
Resiste con controricorso la Poste Italiane S.p.A..
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione o falsa applicazione della legge n. 300 del 1970, art. 7”. Si dolgono dell’irrilevanza attribuita dalla Corte territoriale al fatto che Poste Italiane avessero fissato le convocazioni per l’audizione fuori dell’orario di lavoro.
Il motivo è manifestamente infondato.
La pretesa fatta valere non trova sostegno in alcuna norma di legge, né si indicano previsioni in tal senso da parte del c.c.n.l.. La giurisprudenza di questa Corte si è orientata anche di recente nel senso che la convocazione in orario lavorativo (e nel luogo di lavoro) non rientri tra i diritti del lavoratore, purché quella in orari (o luoghi diversi) non si traduca, per le difficoltà della sua attuazione, in una violazione del diritto di difesa (cfr. da ultimo, Cass. 31 marzo 2011, n. 7493; id. 10 giugno 2011, n. 17174; 14 giugno 2011, n. 12978; 1 giugno 2012, n. 8845; 28 gennaio 2013, n. 1842).
È stato, in particolare, affermato che la disposizione della legge n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, deve essere interpretata nel senso che il lavoratore è libero di discolparsi nelle forme da lui prescelte – e, quindi, per iscritto o a voce, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale – con la conseguenza che, ove il lavoratore eserciti il proprio diritto chiedendo espressamente di essere “sentito a difesa” nel termine previsto dallo stesso art. 7, comma 5, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione, pena l’illegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare (cfr. ad es., Cass. n. 1661 del 2008; Cass. n. 7848 del 2006; Cass. n. 9066 del 2005; Cass. n. 7006 del 1999; Cass. n. 467 del 1992). Corollario di tale principio è che la richiesta di audizione del lavoratore, al di fuori dei casi in cui appaia ambigua o incerta, non risulta sindacabile dal datore di lavoro in ordine alla sua effettiva idoneità difensiva, per essere tale esito, garantito dall’art. 7, comma 2, non solo conforme alla chiara lettera della norma, ma, ancor prima, funzionale a consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio fra le parti, e, quindi, alla piena realizzazione del diritto di difesa dell’incolpato, con l’espressa previsione dell’impossibilità di applicare qualsiasi sanzione più grave del rimprovero verbale senza che il lavoratore, che ne abbia fatto richiesta, sia sentito a sua discolpa. In tal contesto, quindi, assume particolare rilievo l’obbligo delle parti di conformare la propria condotta a buona fede e lealtà contrattuale. L’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, nel suo complesso e quindi anche con riguardo ai profili procedurali, dunque, deve essere valutato alla stregua di tali principi, non essendo individuabili, a priori, sulla base della norma sopra citata, specifici obblighi afferenti le modalità di audizione.
Nel caso in esame, il giudice di appello, facendo corretta applicazione dei suddetti principi, con motivazione congrua e logica, ha accertato che le modalità stabilite per l’audizione dei lavoratori (presso lo stesso ufficio in cui prestavano servizio ma fuori dell’orario di lavoro) non avessero pregiudicato la pienezza dell’esercizio del diritto di difesa da parte degli stessi, risultando irrilevante, rispetto alla salvaguardia dell’organizzazione del datore di lavoro, l’eventuale incidenza su differenti esigenze (familiari, di amministrazione del tempo libero ecc). Come è stato, del resto, da questa Corte anche precisato (cfr. la citata Cass. 14 giugno 2011, n. 12978) l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile, situazione, questa, non riscontrabile nella fattispecie in esame nella quale i lavoratori non risulta abbiano allegato e provato circostanze specifiche atte a rivelare un particolare disagio per i tempi e le modalità della fissazione, non potendo questo ritenersi in re ipsa per il solo fatto della non coincidenza delle modalità della convocazione con quelle richieste; non rientra infatti nell’alveo del diritto di difesa del lavoratore anche il potere di stabilire le forme e i termini della convocazione, ma solo quello di attendersi che ciò avvenga mediante comportamento datoriale conformato a correttezza e buona fede.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione o falsa applicazione degli artt. 2094, 2103, 1173, 1321 cod. civ.”. Si dolgono del fatto che la Corte territoriale ha escluso che la società avesse richiesto ai suddetti dipendenti un comportamento non rientrante tra quelli esigibili in quanto afferente ad un rapporto con un soggetto terzo (Equitalia).
Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque infondato.
Si rileva, innanzitutto, che, a fronte dei denunciati vizi di violazione di legge, in realtà i ricorrenti lamentano una erronea valutazione degli atti di causa e delle risultanze istruttorie e, dunque, sostanzialmente di vizi motivazionali.
Peraltro non si evince in quale specifico passaggio argomentativo la Corte territoriale avrebbe violato ovvero falsamente applicato le sopra indicate norme di diritto rilevandosi dal ricorso, con riguardo al punto della sentenza nel quale la Corte territoriale ha ricollegato l’inadempimento oggetto di rilievo disciplinare al rapporto di lavoro con Poste Italiane e non a quello con Equitalia – sul presupposto che lo stesso si riferisse ad un servizio della società esattoriale “preso in carica” dall’odierna controricorrente in forza di contratto -, che la difesa dei dipendenti “non comprende il significato di suddetta affermazione o detta sentenza, come pare, si astiene dall’argomentare sul punto” e, dunque, risultando evidente che i rilievi attengono, appunto, alla motivazione.
Anche con riguardo alla disposizione di cui all’art. 2103 cod. civ. la critica mossa alla decisione impugnata attiene alla riconducibilità ai compiti assegnati agli odierni ricorrenti anche delle notificazioni a mani delle cartelle esattoriali e dunque ad una ricostruzione in fatto operata dal giudice di merito.
Peraltro, con riguardo alla pretesa estraneità al limite di cui all’art. 2103 cod. civ. dell’obbligazione assunta da Poste Italiane nei confronti di Equitalia, la sentenza impugnata ha sostanzialmente equiparato l’attività riveniente dal contratto con Equitalia all’acquisizione di un nuovo servizio e ricollegato quest’ultimo alle mansioni svolte dai ricorrenti analogamente a quanto avviene alle attività di notifica ai sensi dell’art. 1 della legge n. 890 del 1982. Quindi ha ritenuto funzionali rispetto allo svolgimento di tali compiti il percorso formativo e la presentazione dei documenti necessari per il tesserino e l’espletamento dell’attività. Tale accertamento di fatto ed il conseguente giudizio sulla omogeneità delle mansioni svolte dall’agente postale rispetto a quelle a quest’ultimo attribuibili (previa necessaria formazione professionale) nella qualità di messo notificatore non ha formato oggetto di specifico rilievo da parte dei ricorrenti i quali hanno incentrato le censure sulla differenza del “titolo giuridico” (portalettere in quanto tale e messo notificatore). Del resto, come risulta dal bando di gara per l’affidamento del servizio di notificazione delle cartelle riportato in sede di ricorso, Poste Italiane si era impegnata a reperire personale da nominare messo notificatore ai sensi dell’art. 45 del d.lgs. n. 112/99, personale che avrebbe operato sotto la sua piena ed esclusiva responsabilità in quanto società fornitrice del (neo acquisito) servizio, senza alcun rapporto di dipendenza formale o sostanziale con Equitalia. Ed è nell’ambito di quell’attività di reperimento del personale che si colloca la richiesta (tutt’altro che inaccettabile in ragione di una pretesa intrinseca arbitrarietà) di fornire dati e documenti necessari ai fini dell’espletamento del nuovo servizio – e, dunque, all’esecuzione del contratto – rimasta inadempiuta dai dipendenti i quali non avrebbero potuto rifiutarsi aprioristicamente di ottemperare a quanto richiestogli essendo tenuti a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost..
2. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. n. 196/2003, artt. 1, 13, 23 nonché omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio”. Si dolgono del fatto che la Corte territoriale non ha attribuito la giusta rilevanza alla circostanza che i ricorrenti non fossero stati messi in condizione di conoscere la doverosità di quanto gli veniva richiesto (produzione entro tre giorni della copia del documento di identità, della copia del codice fiscale, di due fotografie formato tessera) e delle conseguenze di un eventuale rifiuto. Rileva che tali informazioni erano tanto più necessarie trattandosi, nella specie, di richiesta afferente a dati personali per i quali era indispensabile il consenso dell’interessato.
Il motivo è, in parte, inammissibile per difetto di autosufficienza e, in parte, infondato.
Ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 5 aprile 2004, n. 6656; id. 12 luglio 2005, n. 14590; 22 dicembre 2005, n. 28480; 30 novembre 2006, n. 25546; 28 luglio 2008, n. 20518).
I ricorrenti non hanno assolto in alcun modo tale onere, omettendo finanche di indicare che la questione della mancata indicazione di elementi da cui desumere la doverosità di quanto gli veniva richiesto, fosse stata sollevata nel corso del giudizio di primo grado e poi ritualmente riproposta in appello, sì da potersi ipotizzare un difetto di esame da parte del giudice di secondo grado, pur in presenza di uno specifico motivo di gravame.
Per il resto il motivo è infondato non sussistendo alcuna violazione della normativa sulla privacy laddove, come nella specie, si discuta di adempimenti ricollegabili alla prestazione lavorativa (ed al conseguente adempimento degli obblighi contrattuali) ed ai nuovi servizi a questa inerenti. Peraltro i ricorrenti neppure indicano quali sarebbero stati i dati sensibili la cui comunicazione si sarebbe risolta in una violazione della privacy e quelli oggetto di richiesta risultano correttamente individuati dalla Corte territoriale quali dati pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità cui la raccolta era destinata.
2. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 e 2106 cod. civ.”. Si dolgono del mancato riscontro dell’eccepita sproporzione della sanzione.
Anche tale motivo è da disattendere.
Oltre a rilevarsi che viene fatto riferimento alle stesse mancate informazioni di cui al punto che precede senza che si evinca quando, in sede di giudizio, analoghi rilievi siano stati formulati, va osservato che i ricorrenti non specificano, in contrasto col principio di autosufficienza, per quali ragioni la sanzione in contestazione violerebbe il canone di cui all’art. 2106 cod. civ. né indicano i criteri interpretativi in concreto malamente utilizzati dalla Corte territoriale.
Come è noto il rapporto di proporzionalità tra l’applicazione della sanzione disciplinare e la gravità dell’infrazione di cui al citato art. 2106 cod. civ. è delineato, secondo lo schema legislativo, come un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama (sulla proporzionalità della sanzione disciplinare quale nozione che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali si veda, ex multis, Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144). Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca (cfr., per tutte, Cass. 12 agosto 2009, n. 18247; id. 15 aprile 2005, n. 7838 nonché, con riferimento ad altre clausole generali, Cass. 6 aprile 2006, n. 8017).
Ciò premesso in via di principio, si rileva che nel caso in esame i ricorrenti, con le censure riassunte, non procedono ad estrarre dalla applicazione che la sentenza impugnata fa della nozione di proporzionalità della sanzione (a mezzo dell’espresso riferimento alle valutazioni compiute dalle parti sociali – lett. c) par. IV dell’art. 56 c.c.n.l. di settore – ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità) una specificazione puntuale ed astratta per poi censurarla ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in quanto errata in diritto e contrastante con l’integrazione della norma operata dalla giurisprudenza di questa Corte, ma si limitano a rivalutare le risultanze istruttorie in ordine ai fatti contestati per ridimensionarne la rilevanza sul piano disciplinare rispetto a quanto accertato e valutato dai giudici di merito, concludendo pertanto nel senso della non riconducibilità del fatto alla fattispecie legale. Con tale operazione, i ricorrenti, limitando sostanzialmente le proprie censure alla motivazione della sentenza impugnata (nonostante la formale deduzione di vizi di violazione di legge), tentano in realtà di proporre a questa Corte, in maniera non consentita dal nostro Ordinamento processuale, una diversa valutazione di merito in ordine ai fatti e alle prove operata in maniera ragionevole nei due gradi di giudizio.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalle osservazioni svolte dai ricorrenti nella memoria depositata ex art. 378 cod. proc. civ..
In particolare, nel caso in questione, vanno tenuti fermi i profili di inammissibilità già sopra evidenziati mancando, specie con riguardo al secondo motivo di ricorso, una chiara indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina. Come è noto, infatti, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione). Viceversa, la allegazione – come prospettato da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo della individuazione nel comportamento dei portalettere di un inadempimento riconducibile agli obblighi inerenti al rapporto di lavoro, è esterna alla esatta interpretazione delle norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, atteso che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (recentemente, in termini, specie in motivazione, Cass. 6 marzo 2012, n. 3455; id. 30 gennaio 2012, n. 1312; 27 settembre 2011, n. 19748; 6 agosto 2010, n. 18375, tra le tantissime).
In ogni caso, va osservato che l’inadempimento oggetto di contestazione disciplinare è stato correttamente individuato in rapporto alle (impedite) attività prodromiche all’individuazione dei portalettere da abilitare quali messi notificatori che la società resistente aveva posto in essere al fine dei cambiamenti organizzativi resi necessari in vista dei servizi da implementare sulla base dell’aggiudicazione della gara indetta da Equitalia S.p.A..
Oggetto di rilievo è stata, dunque, l’inottemperanza alla richiesta formale del datore di lavoro (successivamente alla rituale informazione alle OO.SS. firmatarie del contratto collettivo non solo dell’indicazione dei portalettere dell’ambito territoriale della provincia di Savona quali notificatori per Equitalia Sestri ma anche del percorso formativo da svolgersi e dell’onere di presentazione dei documenti a fini abilitativi) di consegnare quanto necessario per la “nomina” quale messo notificatore, per l’accredito ed il ricevimento del “tesserino identificativo”, requisiti indispensabili per potere operare, in coerenza con l’avvio della nuova organizzazione, e per garantire la continuità del rapporto con il cliente.
Peraltro, quanto ai compiti in concreto da svolgersi da parte dei portalettere “abilitati” (rispetto ai quali, si ribadisce, la società aveva avviato una preliminare acquisizione dei dati indispensabili), il servizio di notifica della cartelle esattoriali in nulla differisce rispetto alla notifica degli atti giudiziari delegata ai sensi dell’art. 1 della legge 20 novembre 1982, n. 890, risultando solo diversa la legittimazione del soggetto operante che, nel caso delle cartelle, è quella prevista dall’art. 26, comma 1, DPR n. 602/73.
Nessun dubbio può porsi in ordine all’inerenza della richiesta, rimasta inottemperata, al rapporto di lavoro con Poste Italiane S.p.A., risultando meramente esterna a tale rapporto ed ininfluente ai fini della determinazione degli obblighi a questo connaturati, la circostanza che i documenti richiesti servissero a legittimare i portalettere attribuendo loro la qualità legale (aggiuntiva) di soggetto autorizzato dal Concessionario.
Trattasi, all’evidenza, di una violazione dell’obbligo di collaborazione che è insito nel dovere di diligenza ex art. 2104 cod. civ. e trova fondamento anche nel dovere di esecuzione secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.) nel contesto unitario della funzione e/o del servizio cui la prestazione lavorativa inerisce.
Ricorre, dunque, pur nella difforme valutazione dei ricorrenti e del Procuratore Generale, il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
3 – Conseguentemente, il ricorso va rigettato.
4 – La particolarità della questione trattata costituisce giusto motivo per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
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