Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 20 febbraio 2018, n. 8036. Maltrattamento animali per il padrone che tenga il proprio cane per vari giorni legato con una catena dentro un box senza acqua e cibo.

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E’, infatti, nozione di comune esperienza il dato secondo il quale il cane sia di per se’ un animale gregario, destinato cioe’ a vivere – sia pure in abituali condizioni di sostanziale cattivita’ – non isolato ma in comunione con altri soggetti, comunemente rappresentati, data la oramai millenaria consuetudine che tale bestia ha con la specie umana, da uomini nei cui confronti esso non di rado riversa, in una auspicabile mutua integrazione, i segni evidenti della propria sensibile affettivita’, dovendo, peraltro, ricevere dall’uomo, ove sia instaurato con esso un rapporto di proprieta’, le necessarie cure ed assistenze.

E’, pertanto, evidente come sia contrario alle oramai radicate caratteristiche etologiche della bestia in questione il trattamento che, con insindacabile accertamento in punto di fatto, la Corte anconetana ha verificato essere stato riservato dal (OMISSIS) al cane di cui al capo di imputazione.

Con riferimento alla qualificazione della condotta realizzata dal (OMISSIS) entro i confine dell’articolo 544-ter c.p. come ritenuto in sede di sentenza impugnata, e non, invece, integrante il piu’ lieve illecito, contravvenzionale, di cui all’articolo 727 c.p., comma 2, come rivendicato dal ricorrente, osserva la Corte che il criterio discretivo fra le due fattispecie appare essere riconducibile al diverso atteggiamento soggettivo dell’agente nelle due diverse fattispecie criminose, essendo la prima connotata dalla necessaria sussistenza del dolo, persino nella forma specifica ove la condotta sia posta in essere per crudelta’ o, comunque, nello sua ordinarie forme ove la condotta sia realizzata senza necessita’ (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 30 novembre 2007, n. 44822), mentre nel caso del reato di cui all’articolo 727 c.p. la produzione delle gravi sofferenze, quale conseguenza della detenzione dell’animale secondo modalita’ improprie, deve essere evento non voluto dall’agente come contrario alle caratteristiche etologiche della bestia, ma derivante solo da una condotta colposa dell’agente (in tal senso si veda la recente sentenza di questa Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 25 maggio 2016, n. 21932, in qui e’ stata appropriatamente differenziato, sotto il profilo della rilevanza penale, l’uso del collare addestrativo come tale da integrare la contravvenzione di cui all’articolo 727 c.p. ove finalizzato a realizzare, con metodi incentrati su impulsi dolorosi in caso di risposte insoddisfacenti da pare dell’animale, tecniche di apprendimento di comportamenti conformi alle caratteristiche etologiche della bestia, e come tale da integrare, invece, la violazione dell’articolo 544-ter c.p. la medesima metodica se, invece, finalizzata a reprimere, attraverso la sofferenza fisica, comportamenti ordinari dell’animale dettati dalle sue specificita’ naturalistiche; nella specie si trattava di reprimerne, attraverso impulsi dolorosi, la naturale inclinazione ad abbaiare, quale indubbia forma di manifestazione esterna di interne sensazioni).

Nel caso di specie non vi e’ dubbio che la condotta del (OMISSIS), concretizzatasi nelle forme dianzi descritte, e’ stata posta in essere in termini di piena consapevolezza e volontarieta’, quindi, in presenza di un atteggiamento riconducibile al dolo e non alla mera colpa.

Quanto, infine, al terzo motivo di impugnazione, con il quale e’, sostanzialmente, contestata la possibilita’ di rinvenire nel fatto contestato all’imputato gli estremi del reato a lui ascritto, rileva il Collegio che, per un verso la verifica della idoneita’ o meno della cuccia presente nel recinto ove e’ stato ritrovata la bestia di cui al capo di imputazione a proteggere quest’ultima dalle intemperie costituisce indagine non suscettibile di essere portato alla attenzione di questa Corte, trattandosi, evidentemente di accertamento di fatto sulla quale la motivazione della Corte di appello appare esaustiva, laddove ha rilevato che non era stata apprestata in loco la protezione della bestia dalle intemperie, potendosi ben convenire con la Corte territoriale che la mera esistenza di una cuccia in cemento non puo’ di per se’ essere ritenuto adeguato mezzo di protezione dagli avversi eventi meteorologici tanto piu’ nella stagione invernale; mentre per cio’ che attiene al fatto che, pietatis causa, fosse stato portato da terzi qualche alimento alla bestia in discorso, si tratta di elemento anch’esso non significativo posto che, a voler tacere del fatto che l’animale avrebbe necessitato non solo di alimenti solidi ma anche di abbeverarsi, e’ il complessivo trattamento a lui riservato che integra gli estremi degli elementi costitutivi del reato, la cui rilevanza non e’ elisa dal fatto che, episodicamente, la loro asprezza fosse solo parzialmente mitigata da occasionali ed imprevedibili condotte di terzi.

Alla dichiarazione di inammissibilita’ del ricorso fa seguito, visto l’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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