In tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte

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In violazione del principio secondo cui, al fine del soddisfacimento dell’onere di cui all’articolo 2697 c.c., possono essere utilizzate solo le dichiarazioni aventi contenuto confessorio, e quindi contra se, la Corte di appello avrebbe formato il proprio convincimento sulla parte delle dichiarazioni della (OMISSIS) non utilizzabili.

Le uniche dichiarazioni della parte attrice che avrebbero potuto trovare ingresso nel giudizio, ai sensi dell’articolo 2735 c.c., erano quelle relative all’episodio della ritrazione del braccio e al tempestivo intervento dell’anestesista.

Pertanto, non essendo vero che si erano perse due ore e mezza nell’arco delle quali il bambino avrebbe potuto essere salvato, non si sarebbe potuto affermare, con il sufficiente grado di probabilita’ richiesto dalla giurisprudenza in materia di causalita’ civile, che un intervento piu’ tempestivo avrebbe impedito l’evento.

Il motivo e’ inammissibile.

Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimita’, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se, nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non puo’ invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte.

In ogni caso, il motivo e’ anche infondato.

Infatti, la Corte di Appello osserva che risulta provato per tabulas (e non solo in base alle dichiarazioni della madre) che l’intervento dell’anestesista avvenne alle 20.45, circa due ore-due ore e mezza dopo la somministrazione del farmaco.

Poiche’ e’ incontestato che i primi sintomi della reazione extrapiramidale avvennero una decina di minuti dopo la suddetta somministrazione, appare corretta l’affermazione della Corte di Appello secondo cui, tra la reazione e il riconoscimento della patologia, vi fu un lungo vuoto temporale, nell’arco del quale, con l’opportuno monitoraggio circa il manifestarsi di eventuali effetti indesiderati e l’adozione di accorgimenti quali l’interruzione della somministrazione del farmaco (che non risulta provato essere stata tempestivamente avvenuta), si sarebbe potuto salvare il bambino.

Ne’ risulta viziata l’ulteriore affermazione della Corte di Appello secondo cui, alla luce di tali risultanze documentali, risulterebbero irrilevanti le contraddizioni emergenti dalle dichiarazioni della madre, considerato che spetta al giudice del merito di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilita’ e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione e che le dichiarazioni contenute in una querela, non diversamente rispetto a quelle rese agli organi di polizia giudiziaria, non costituiscono prova legale ma mera confessione stragiudiziale fatta ad un terzo che il giudice ha il potere – dovere di apprezzare liberamente (cfr. Cass. civ. Sez. 3, 05-02-2002, n. 1513, Cass., 16 agosto 2000, n. 10825).

4.5. Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la “violazione e falsa applicazione di norme di diritto con particolare riferimento agli articoli 2697 e 1223 c.c.”.

Ai fini della risarcibilita’ della mancata acquisizione del consenso del paziente al trattamento occorre la prova del pregiudizio in concreto derivato da tale omissione.

Nel caso di specie, se anche l’intervento fosse stato eseguito senza consenso, ad esso non sarebbe conseguito alcun danno risarcibile, vista l’assenza di collegamento causale tra l’appendicectomia ed il decesso.

Inoltre, la Corte di Appello non avrebbe neppure accertato se il paziente, ove fosse stato adeguatamente informato, avrebbe rifiutato quel tipo di intervento.

Il motivo e’ infondato.

Difatti, secondo l’insegnamento di Cass. n. 2847/2010 secondo cui, in tema di responsabilita’ professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico puo’ essere chiamato a risarcire il danno se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.

E la mancanza di consenso puo’ assumere rilievo a fini risarcitori quando siano configurabili conseguenze pregiudizievoli derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se considerato, del tutto a prescindere dalla lesione incolpevole della salute del paziente.

Tale diritto, distinto da quello alla salute, rappresenta, secondo l’insegnamento della stessa Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), una doverosa e inalienabile forma di rispetto per la liberta’ dell’individuo, nonche’ uno strumento relazionale volto al perseguimento e alla tutela del suo interesse ad una compiuta informazione, che si sostanzia nella indicazione:

– delle prevedibili conseguenze del trattamento sanitario;

– del possibile verificarsi di un aggravamento delle condizioni di salute;

– dell’eventuale impegnativita’, in termini di sofferenze, del percorso riabilitiativo post-operatorio.

Cio’ e’ a dirsi nell’ottica della legittima pretesa, per il paziente, di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le stesse conseguenze dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in se’ e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralita’ della sua essenza, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive (Cass. n. 21748/2007; Cass. 23676/2008, in tema di trasfusioni salvavita eseguite al testimone di Geova).

Ad una corretta e compiuta informazione consegue, difatti:

– la facolta’, per il paziente, di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento medico;

– la possibilita’ di acquisire, se del caso, ulteriori pareri di altri sanitari;

– la facolta’ di scelta di rivolgersi ad altro sanitario e ad altra struttura, che offrano maggiori e migliori garanzie (in termini percentuali) del risultato sperato, eventualmente anche in relazione alle conseguenze post-operatorie;

la facolta’ di rifiutare l’intervento o la terapia – e di decidere consapevolmente di interromperla.

Viene innanzitutto in rilievo il caso in cui, alla prestazione terapeutica, conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito non sopportare nell’ambito di scelte che solo a lui e’ dato di compiere.

In secondo luogo, viene in rilievo la considerazione del turbamento e della sofferenza che derivi al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perche’ non prospettate e, anche per questo, piu’ difficilmente accettate.

Condizione di risarcibilita’ (in via strettamente equitativa) di tale tipo di danno non patrimoniale e’ che esso varchi la soglia della gravita’ dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite nn. 26972-26975 del 2008, con le quali e’ stato condivisibilmente affermato che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilita’, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarieta’ e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.

Diversamente, il paziente che richieda il risarcimento anche del danno da lesione della salute che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito secundum legem artis, ma tuttavia compiuto senza la preventiva informazione circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, deve allegare, sulla base anche di elementi soltanto presuntivi (Cass. 16503/2017) – la cui efficienza dimostrativa seguira’ una sorta di ideale scala ascendente, a seconda della gravita’ delle condizioni di salute e della necessarieta’ dell’operazione che egli avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato (Cass. civ. Sez. 3, Sent., 9-2-2010, n. 2847), allegando ancora che, tra il permanere della situazione patologica in atti e le conseguenze dell’intervento medico, avrebbe scelto la prima situazione, ovvero che, debitamente informato, avrebbe vissuto il periodo successivo all’intervento con migliore e piu’ serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze (e le eventuali sofferenze) – predisposizione la cui mancanza andrebbe realisticamente e verosimilmente imputata proprio (e solo) all’assenza di informazione. Ci si trova, pertanto, in un territorio (e in una dimensione probatoria) che impone al giudice di interrogarsi se il corretto adempimento, da parte del medico, dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno, lo stato patologico e’ poi derivato, ovvero avrebbe consentito al paziente la necessaria preparazione e la necessaria predisposizione ad affrontare il periodo post-operatorio nella piena e necessaria consapevolezza del suo dipanarsi nel tempo.

Infatti, se il paziente avesse comunque e consapevolmente acconsentito all’intervento, dichiarandosi disposto a subirlo qual che ne fossero gli esiti e le conseguenze, anche all’esito di una incompleta informazione nei termini poc’anzi indicati sarebbe palese l’insussistenza di nesso di causalita’ materiale tra la condotta del medico e il danno lamentato, perche’ quella incolpevole lesione egli avrebbe, in ogni caso, consapevolmente subito, all’esito di un intervento eseguito secondo le leges artis da parte del sanitario.

Nel caso di specie il giudice del merito ha ritenuto provato che (decesso cagionato dalla somministrazione di plasil quale anti ematico, conoscendo i genitori la sensibilita’ allergica o comunque intollerante ad alcuni farmaci), l’evoluzione degli accadimenti sia stata determinata proprio da una scelta non effettuata consapevolmente e liberamente dai genitori, avendo rappresentato anche tale risvolto un motivo di discordie successive tra i genitori circa la loro decisione di rivolgersi all’ospedale di Anzio piuttosto che ad altro presidio per le cure del bambino.

La decisione della Corte territoriale risulta, pertanto, conforme a diritto.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Spese secondo soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida in Euro 10.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato articolo 13, comma 1 – bis.

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