Commette il delitto di divulgazione via internet di materiale pedo-pornografico previsto dal comma terzo dell’art. 600-ter cod. pen., e non quello di mera cessione dello stesso , colui che – oltre ad inviare materiale pedopornografico via e-mail – ne aveva consentito a terzi la fruizione tramite la propria casella condivisa

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4. Sul punto, rileva innanzitutto la Corte che, per orientamento ormai consolidato e condiviso, il reato di pornografia minorile commessa per via telematica è integrato già dall’immissione in rete del materiale in oggetto, quale condotta idonea a renderne concretamente possibile la diffusione, attesa la possibilità di accesso al medesimo da parte di un numero indeterminato di persone (Sez. 3, 28524 del 9/6/2009, R., Rv. 244595; Sez. 3, n. 25232 del 21/6/2005, B., Rv. 231814); possibilità – quest’ultima – che costituisce il decisivo elemento di distinzione tra le condotte di cui al comma 3 dell’art. 600-bis in oggetto (distribuzione, divulgazione, diffusione e pubblicizzazione) e quella di cui al successivo comma 4 (cessione), sanzionata meno severamente delle altre proprio per il suo indirizzarsi – soggettivo ed oggettivo – nei confronti di persone sufficientemente individuate e determinate, sì da impedire che il materiale de quo (fotografie, video, ecc.) circoli senza controllo o limite alcuni, in tal modo aggravando in modo esponenziale la lesione al bene giuridico tutelato dalla norma (tra le altre, Sez. 3, n. 23164 dell’8/6/2006, H., Rv. 234639). Proprio in ragione di tale principio di carattere generale, qui da ribadire, questa Corte ha allora più volte affermato, ad esempio, che la sussistenza del reato di cui all’art. 600-ter, comma 3, cod. pen. deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale (Sez. 3, n. 19174 del 13/1/2015, C., Rv. 263373; Sez. 3, n. 44914 del 25/10/2012, M, Rv. 253558; Sez. 3, n. 44065 del 10/11/2011, P., Rv. 251401; Sez. 3, n. 11082 del 12/1/2010, G., Rv. 246596); negli stessi termini, ma in modo speculare, si è poi sostenuto che è configurabile il dolo generico nella condotta del navigatore in internet che non si limiti alla ricerca e raccolta di immagini e filmati di pornografia minorile, tramite programmi di ‘file-sharing’ o di condivisione automatica (nella specie ‘Emule’), ma operi una selezione del materiale scaricato, inserendolo i prodotti multimediali in una apposita cartella di condivisione personalizzata (Sez. F, n. 46305 del 7/8/2014, T., Rv. 261045).

5. Ancora nel solco del medesimo indirizzo, e con riguardo ad un caso del tutto sovrapponibile a quello qui in esame, questo Giudice ha quindi affermato che commette il delitto di divulgazione via internet di materiale pedo-pornografico previsto dal comma terzo dell’art. 600-ter cod. pen., e non quello di mera cessione dello stesso prevista al comma quarto del medesimo articolo, non solo chi utilizzi programmi di ‘file-sharing peer to peer’, ma anche chi impieghi una ‘chat line’, spazio virtuale strutturato in canali, nella quale un solo ‘nickname’, necessario ad accedere alla cartella-immagini o video, venga utilizzato da più persone alle quali siano state rese note l’”username’ e la ‘password’, le quali possono in tal modo ricevere e trasmettere materiale pedo-pornografico; tale sistema rende possibile trasferire lo stesso prodotto a molteplici destinatari e, pertanto, non si differenzia dalla divulgazione vera e propria, sempre che ne risulti provata in capo all’agente la volontà, come nel caso in cui la trasmissione sià stata reiteratamente rivolta a più persone (Sez. 3, n. 593 del 7/12/2006, M., Rv. 236071).

6. Orbene, come correttamente rilevato dalla Corte di appello, proprio quest’ultima ipotesi si è verificata nella vicenda in esame, nella quale il ricorrente – oltre ad inviare materiale pedopornografico via e-mail – ne aveva consentito a terzi la fruizione tramite la propria casella Dropbox, ossia una sorta di ‘contenitore’ virtuale che ciascuno può creare, immettendovi file audio/video di ogni genere, e rendendolo accessibile a chicchessia, sol fornendogli la password di accesso. Esattamente quel che aveva fatto il R. , quantomeno nei confronti di 22 ‘utenti’, come accertato dai Giudici del merito e non contestato in questa sede; soggetti che – ricevuta dal ricorrente la chiave di accesso avevano quindi avuto libero ingresso a tale spazio virtuale, espressamente creato dall’imputato e ricco di file pedopornografici, potendo così visionare tutto il materiale in esame ogni volta che avessero voluto, senza limitazioni di sorta o dover chiedere, di volta in volta, un qualsivoglia permesso. Libero accesso che, inoltre, gli stessi potevano poi a loro volta consentire anche ad altri, sconosciuti al ricorrente, sol fornendo a questi la citata password; sì da configurare ulteriormente il delitto in questione, da intendersi quale fattispecie di pericolo concreto, non già di danno (per tutte, Sez. 3, n. 25232, cit.). Con riguardo alla quale, pertanto, rileva anche il dolo eventuale appena rappresentato e congruamente ravvisato in capo al R. , quale accettazione del rischio di un’incontrollata diffusione del materiale ad opera di terzi, quali gli stessi cessionari dal ricorrente, già a mezzo di una semplice comunicazione dell’unica ‘chiave’ di ingresso; e senza che, dunque, possa sul punto accedersi alla diversa tesi di cui al gravame, che vorrebbe attribuita soltanto a questi altri soggetti l’eventuale, ulteriore diffusione della password di accesso alla casella Dropbox intestata, creata e riempita dal ricorrente.

Le prime due doglianze, pertanto, debbono essere rigettate, risultando del tutto congrua la motivazione spesa dalla Corte di merito, che ha ben fatto governo delle considerazioni tutte appena richiamate.

7. Alle medesime conclusioni, infine, perviene il Collegio con riferimento alla terza censura, in punto di sospensione condizionale della pena; negata dal Giudice di appello sul presupposto 1) che il proposito di intraprendere un percorso di riabilitazione risultava, allo stato, soltanto enunciato; 2) che la condotta in esame si era protratta per un lasso di tempo non breve, sì da non consentire un favorevole giudizio prognostico.

Un argomento, quindi, ancora adeguato, non manifestamente illogico ed insuscettibile di censura.

Il ricorso, pertanto, deve esser rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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