Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 2 ottobre 2014, n. 20820

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1.- Con sentenza resa ex art. 281 sexies c.p.c. in data 8 aprile 2008, il Tribunale di Chieti rigettava l’opposizione all’esecuzione, proposta da F.L. contro il pignoramento immobiliare notificato su istanza dell’INPS in data 20/12/2001.
1.1.- Il Tribunale riteneva che l’eccezione di prescrizione sollevata dall’opponente era infondata poiché tra la data di notifica del decreto ingiuntivo (11/3/1989) e la data di notifica del precetto (16/10/2001), il creditore aveva compiuto atti interruttivi della prescrizione, documentati e allegati alla comparsa di costituzione (in particolare, atto di precetto notificato il 31/1/1990, verbale di pignoramento negativo del 12/3/1990, diffida amministrativa dell’8/9/1995, raccomandata del maggio 2000).
1.2. – Contro la sentenza il F. propone ricorso per cassazione, fondato su quattro motivi. L’INPS resiste con controricorso.
2. – Deve in primo luogo rilevarsi che l’intestazione del ricorso reca, quale parte contro cui esso è proposto, l’INAIL – sede di Chieti. È evidente che si è in presenza di un mero errore materiale, dal momento che non vi è alcuna incertezza circa la parte intimata, come è desumibile dal fatto che, nell’intero corpo del ricorso, gli unici riferimenti riguardano l’INPS. Per completezza, deve aggiungersi al riguardo che la sentenza, precisamente indicata nei suoi estremi (numero 352/2008, pubblicata l’8/4/2008), è stata emessa nei confronti dell’INPS, che il domicilio indicato e i difensori (presso cui il ricorso è stato notificato) sono gli stessi riportati in sentenza, che, ancora, l’INPS si è ritualmente costituito in questa sede, senza sollevare alcuna questione preliminare in ordine all’esatta individuazione del soggetto passivo del ricorso. Non ricorre pertanto l’ipotesi di inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 366, primo comma, n. 1, cod. proc. civ., dovendosi peraltro rammentare che l’osservanza della norma citata non richiede alcuna forma speciale, essendo sufficiente che le parti medesime, pur non indicate, o erroneamente indicate, nell’epigrafe del ricorso, siano con certezza identificabili dal contesto del ricorso stesso (Cass., 3 settembre 2007, n. 18512; v. pure, Cass., 3 gennaio 2005, n. 57).
3. – Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia “la violazione e falsa applicazione degli arti. 281 sexies c.p.c., dell’art. 429 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. (error in procedendo), per non avere il giudice di primo grado letto il dispositivo in udienza e per aver riservato la decisione con il rito abbreviato alternativo… senza concedere alle parti alcun termine per la discussione e anzi impedendo la stessa alla data dell’8/4/2008”. Deduce che la norma dell’art. 281 sexies c.p.c. è incompatibile con il rito del lavoro, dal che discenderebbe la nullità della sentenza, non avendo potuto le parti discutere la causa e presentare la nota spese. Inoltre, l’originale della sentenza non era stato accluso al verbale del fascicolo d’ufficio. Formula quattro quesiti di diritto.
3.1. – Il motivo è nella sua intera articolazione inammissibile.
È inammissibile, per la violazione del principio di autosufficienza, nella parte in cui non produce il verbale dell’udienza di cui all’8/4/2008, da cui risulterebbe l’omessa lettura del dispositivo nonché la dedotta omessa precisazione delle conclusioni. Deve infatti rilevarsi che la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. non è atto distinto dal verbale che la contiene (Cass., 8 novembre 2010, n. 22659), sicché la produzione del verbale è indispensabile per verificare se vi sia stata la lettura del dispositivo e della contestuale motivazione in udienza, elementi che, unitamente alla sottoscrizione del verbale contenente il provvedimento da parte del giudice, caratterizzano tale tipologia di sentenze (Cass., 28 maggio 2009, n. 12515).
3.1.1. – La norma è in ogni caso compatibile con il rito del lavoro, che proprio per la sua specialità non richiede la fissazione di un’udienza ad hoc per la precisazione delle conclusioni, né altre formalità prodromiche rispetto all’adozione di questo modello decisorio.
Va infatti richiamata la sentenza resa da questa Corte in data 12 giugno 2007, n. 13708, secondo cui “nel rito del lavoro ogni udienza, a cominciare dalla prima, è destinata alla discussione orale e, quindi, alla pronunzia della sentenza ed alla lettura del dispositivo sulle conclusioni proposte in ricorso, per l’attore, e nella memoria di costituzione per il convenuto, di modo che il giudice non è tenuto ad invitare le parti alla precisazione delle conclusioni prima della pronunzia delle sentenze. Ne consegue, che la disposizione dell’art. 281 sexies del cod. proc. civ. che prevede la possibilità per il giudice di esporre a verbale, subito dopo la lettura del dispositivo di sentenza, le ragioni di fatto e di diritto poste a base della decisione, è applicabile al rito del lavoro a condizione del suo adattamento al rito speciale, nel quale non è prevista l’udienza di precisazione delle conclusioni” (Cass., 20 aprile 2006, n. 9235).
3.1.2. – Né costituisce vizio che inficia di nullità la sentenza la mancata concessione di un rinvio al fine di consentire il deposito della nota spese, essendo insita nel rito del lavoro la possibilità che il giudice pronunci la sentenza alla stessa prima udienza, senza che possa costituire motivo di rinvio la richiesta di deposito della nota specifica da parte del difensore.
4. – Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 633, 643, 635 c.p.c. “in tema ingiunzione emessa a favore di enti previdenziali per insussistenza del credito dovuto all’assenza di qualsivoglia causale esposta in decreto ingiuntivo, con omissione della ulteriore posizione (previdenziale) del ricorrente. Ulteriore violazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c. attesa la totale assenza di motivazione sul punto controverso”.
4.1. – Anche questo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non avendo la parte trascritto il contenuto del decreto ingiuntivo, da cui non risulterebbe il rapporto, la causale del credito e la stessa qualità di soggetto passivo del ricorrente, né il F. ha indicato dove tale decreto sarebbe rinvenibile negli atti di causa. Il quesito di diritto risente della genericità dell’articolazione del motivo, giacché si chiede di accertare che il decreto ingiuntivo, non opposto nei termini di legge, fa stato solo nei limiti del devolutum con il ricorso, con la conseguenza che tutto ciò che in esso non è stato esposto o richiesto si sottrae alle preclusioni proprie del giudicato.
4.2. – Deve infatti rammentarsi che le regole imposte dagli artt. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., e 369 comma 2, n. 4, c.p.c, (su cui v., da ultimo, Cass., 6 novembre 2012, n. 19157) consacrano il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione -necessario corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione – il quale comporta che, quando siano in gioco atti processuali ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., n. 3, di carenze motivazionali, ex art. 360 c.p.c, n. 5, o di un error in procedendo, ai sensi dei numeri 1, 2 e 4 della medesima norma, è necessario non solo che il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale sia riprodotto in ricorso, ma anche che ne venga indicata l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (Cass., 6 novembre 2012, n. 19157; Cass., 23 marzo 2010, n. 6937; Cass. civ. 12 giugno 2008, n. 15808; Cass. civ. 25 maggio 2007, n. 12239).
4.2.1. – Le Sezioni Unite di questa Corte, pur avendo chiarito che l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7 – ed applicabile al ricorso in esame, dovendosi aver riguardo alla data di pubblicazione della sentenza definitiva, successiva al 2 marzo 2006 -, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, mediante la produzione dello stesso, e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, hanno tuttavia precisato che resta ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, del contenuto degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari al loro reperimento (Cass., Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726).
5. – Con il terzo motivo di ricorso, il F. denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 2934, 2944, 2948 c.c., della legge 8/8/1995, n. 335, in tema di mancato rilievo della prescrizione del credito azionato. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: “è vero che il principio secondo il quale, in caso di contestazione sul maturarsi della prescrizione, è onere del creditore fornire la prova dell’interruzione del relativo termine, è nel contenzioso che ne occupa di primaria ed imprescindibile importanza, nel senso che lo stesso, a più forte ragione, si applica nel caso in cui si chiede il pagamento che abbia ad oggetto una serie di poste contabili distinte, dovendo in tale ipotesi il creditore provare l’effetto interruttivo con riferimento ai singoli cespiti, previa dimostrazione che gli atti relativi si riferiscono proprio quelle poste non ad altre con riferimento eziandio agli accessori, agli interessi e alle penalizzazioni per mancata contribuzione”.
5.1. – Al di là della scarsa comprensibilità del quesito, il motivo si presenta infondato, dal momento che nella sentenza impugnata il giudice di merito ha fatto esplicito riferimento ad una serie di atti interruttivi della prescrizione e riguardo ai quali il ricorrente svolge censure in fatto, inammissibili in questa sede e non rispettose del canone dell’autosufficienza.
5.2. – In particolare, con riguardo al precetto del 31/10/1990, che la parte assume essere stato notificato alla moglie separata legalmente e nel domicilio di lei, il ricorrente non ha assolto il duplice onere della trascrizione dell’atto e dell’indicazione della sua esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e altrettanto va detto con riferimento alle diffide dell’8/9/1995 e del maggio 2000. Il mancato adempimento di tale duplice onere impedisce a questa Corte di valutare ex actis la veridicità delle affermazioni, e quindi l’esame della loro fondatezza, che costituisce un momento successivo all’adempimento del primo. Quanto alla questione relativa al dies a quo del termine prescrizionale, il motivo, oltre ad essere generico, è inammissibile, non indicando dove e quando la relativa questione, del tutto omessa dal giudice del merito, sia stata proposta nel corso del giudizio.
6. – Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la sentenza per omessa motivazione circa la domanda di risarcimento dei danni ex art.96 c.p.c, e chiede che si dichiari che, ai sensi dell’art. 96, comma secondo c.p.c., “l’ingiusta attivazione della procedura di esecuzione immobiliare,…. se caducato il titolo esecutivo, in virtù di opposizione all’esecuzione, provoca un danno risarcibile in re ipsa per dolo e/o per colpa grave dell’attività dell’esecutante (nesso eziologico congenito)”.
Anche questo motivo è infondato, perché suppone una situazione fattuale – ovvero l’attivazione e il compimento, senza la normale prudenza da parte dell’istituto previdenziale, di un procedimento di esecuzione forzata illegittimo – che è incontrovertibilmente esclusa dalla sentenza impugnata, che ha rigettato l’opposizione all’esecuzione e, conseguentemente (e correttamente), non ha esaminato la domanda di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. la quale logicamente suppone l’accertamento dell’inesistenza del diritto di procedere in via esecutiva.
7. – Il ricorso deve dunque essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura liquidata in dispositivo, in applicazione del criterio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 1.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

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