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Suprema CORTE DI CASSAZIONE

Sezione III

sentenza 29 luglio 2014, n.17218

 

 

Motivi della decisione

 

p.1.1 Con il primo motivo di ricorso l’O. lamenta violazione e falsa applicazione di legge ex articolo 360, 1^ co. n. 3) cod.proc.civ., con riferimento agli articoli 2909 codice civile e 324 codice procedura civile, dal momento che la corte di appello aveva escluso la preclusione del giudicato sulla domanda risarcitoria del S. nonostante che quest’ultima domanda fosse già stata respinta dalla sentenza n. 26/87, avente ad oggetto l’asserito danno subito dal S. medesimo a causa dello stesso fatto generatore, insito nella risoluzione del preliminare e nella mancata restituzione dell’immobile.

p.1.2 Il motivo è infondato.

È decisivo osservare che nel presente giudizio il S. ha chiesto l’accertamento di responsabilità dell’O. ed il risarcimento del danno da questi cagionatogli per la mancata vendita del bene a terzi nel 1990; mancata vendita a sua volta determinata dal fatto che l’O. aveva illecitamente detenuto l’immobile successivamente alla pronuncia di risoluzione per inadempimento del preliminare di compravendita intercorso tra le parti (sentenza 26/87 cit.).

L’oggetto del presente giudizio è dunque il risarcimento di un danno specifico che non era stato dedotto (né poteva esserlo) nel giudizio definitosi con quest’ultima sentenza; concernente il diverso aspetto della risoluzione del preliminare di compravendita tra le parti per grave inadempimento dell’O. , nonché del risarcimento dei danni conseguenti a tale risoluzione.

Il giudicato di cui alla sentenza 26/87 non può dunque avere qui effetto preclusivo di sorta, dal momento che il presente giudizio concerne un danno: – derivante non dalla risoluzione contrattuale (art. 1453 cod.civ.), ma da un fatto illecito (art. 2043 cod.civ.) riconducibile al protratto trattenimento del terreno successivamente alla pronuncia di risoluzione; sopravvenuto al suddetto giudicato e, come tale, non deducibile in quel giudizio.

Né una diversa efficacia preclusiva potrebbe derivare dal giudicato formatosi sulla sentenza 30/97, dal momento che quest’ultima ha avuto esclusivamente ad oggetto l’accertamento della illiceità dell’occupazione dell’immobile da parte dell’O. ed il suo conseguente obbligo di rilascio; non anche il risarcimento dei danni a qualsivoglia titolo riconducibili a tale illecita occupazione (invece fatti oggetto, per la prima ed unica volta, nel presente giudizio, introdotto circa un anno dopo il giudicato di rilascio).

Va affermato (in tal senso: Cass. 2438 del 05/02/2007) che, ai fini dell’accertamento della preclusione derivante dall’esistenza di un giudicato esterno, imprescindibile risulta, oltre all’identificazione della statuizione contenuta nella precedente decisione, il raffronto della stessa con l’oggetto specifico del processo nell’ambito del quale il giudicato dovrebbe fare stato, e quindi il riscontro dell’esistenza di una relazione giuridica tra i diritti dedotti nei due giudizi: la preclusione dev’essere pertanto esclusa qualora il giudizio abbia ad oggetto un rapporto giuridico diverso da quello deciso con la sentenza passata in giudicato.

Nel caso di specie, il presente giudizio e quelli che hanno dato luogo al giudicato esterno non presentano alcuna identità di causa petendi o petitum, ma soltanto una generica unicità di vicenda tra le stesse parti, che ha purtuttavia dato luogo a titoli giuridici di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale) tutt’affatto diversi, autonomi e succedutisi nel tempo. E nemmeno potrebbe essere qui individuato, ex art. 2909 cod.civ., un effetto preclusivo su questioni che, ancorché non dedotte in giudizio, costituiscano tuttavia presupposto logico ed indefettibile della decisione; dal momento che il principio per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile trova limite -come nella specie – nella sopravvenienza del fatto costitutivo del diritto successivamente azionato.

p.2.1 Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione di legge ex articolo 360, 1^ co. n. 3) e 4) cod.proc.civ. con riferimento agli articoli 1|12 e 324 codice procedura civile nonché 2909 codice civile, atteso che il S. , nel suo atto di appello, aveva contestato la preclusione del giudicato assumendo che il fatto illecito fosse nella specie rappresentato dall’illegittima detenzione dell’immobile successivamente alla risoluzione del preliminare, mentre la corte di appello l’aveva autonomamente escluso per una ragione diversa; insita nella non previa deducibilità del danno perché derivante da un evento sopravvenuto alla pronuncia di risoluzione (mancata vendita a terzi nel 1990).

Con il terzo motivo di ricorso si lamenta analoga violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli articoli 112 cod.proc.civ., 2935, 2946 e 2953 cod.civ., poiché il S. aveva, nel suo atto di appello, contestato la prescrizione sotto il profilo che la sua domanda risarcitoria era stata da lui proposta (nel marzo ‘98) circa un anno dopo la restituzione dell’immobile; mentre la corte di appello l’aveva autonomamente esclusa per una ragione diversa, insita nell’affermata applicabilità nella specie del termine di prescrizione di 10 anni decorrente dal passaggio in giudicato della suddetta sentenza di rilascio n. 30/97. Ciò aveva determinato la considerazione d’ufficio, da parte del giudice di appello, di un fatto costitutivo della prescrizione diverso da quello dedotto dal S. .

p.2.2 Entrambi questi motivi di ricorso – incentrati su violazioni normative sostanziali e processuali – sono inammissibili perché privi del quesito di diritto (tale non potendo qualificarsi quello, incompiuto ed incomprensibile, riportato a pagina 11 del ricorso: ‘accerti la SC se ricorre la violazione dell’articolo 112 cod.proc.civ. qualora la corte di appello……’) prescritto dall’articolo 366 bis cod.proc.civ., qui applicabile ratione temporis.

È orientamento ormai pacifico (ex multis, da ultimo, Cass. 19 novembre 2013 n. 25903) che, nel vigore di tale disposizione, ciascun motivo di ricorso sussumibile ex art. 360, 1^ co., nn. da 1 a 4 cod.proc.civ. debba concludersi con un quesito di diritto che espliciti una sintesi logico-giuridica della controversia; cosi da consentire al giudice di legittimità di enunciare, una regula juris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Il quesito di diritto, più in particolare, deve compendiare (sent. cit.): ‘a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito (siccome da questi ritenuti per veri, altrimenti mancando la critica di pertinenza alla ratio decidendi della sentenza impugnata); b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie’.

Nulla di tutto ciò è dato riscontrare nella presente fattispecie.

Né alla radicale mancanza del quesito potrebbe legittimamente sopperirsi facendo ricorso al motivo in quanto tale, atteso che quest’ultimo attiene alla parte puramente espositiva – illustrativa della censura, ma non ne definisce la sintesi con i caratteri e gli effetti voluti dal legislatore (Cass. S.U. 11 marzo 2008, n. 6420). Tanto che l’opposta conclusione – nel senso della “fungibilità” e supplenza del motivo rispetto al quesito di diritto mancante – finirebbe con il disattendere il disposto normativo in esame: sia nella sua ratio, volta a consentire l’immediata ed esauriente individuazione del vizio lamentato in rapporto alla soluzione adottata ed a quella proposta; sia nella sua stessa lettera testuale, dal momento che l’art.366 bis cit. stabilisce espressamente che la formulazione del quesito debba avvenire “a pena di inammissibilità”.

p.3. Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 1458, 2935 e 2953 cod.civ., poiché la corte di appello avrebbe erroneamente escluso il decorso della prescrizione, nonostante che l’azione risarcitoria fosse stata proposta dal S. oltre i 10 anni dalla data (30 dicembre ‘81) fissata nel preliminare per la stipula del contralto definitivo.

La doglianza è infondata per le stesse ragioni indicate in ordine al primo motivo di ricorso, atteso che la prescrizione rileva nel caso di specie con riguardo non già ai diritti derivanti dalla risoluzione del preliminare (con conseguente ininfluenza, quale dies a quo, della data in esso pattuita per la stipula del contratto definitivo), bensì a quelli scaturenti dal fatto materiale della illecita detenzione del terreno dopo la risoluzione contrattuale.

Come emerge anche dal quesito di diritto che lo correda – ‘se il dies a quo del diritto al risarcimento dei danni del promittente venditore al lucro cessante non conseguito dalla mancata vendita del bene immobile promesso in vendita decorra dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna al rilascio dell’immobile del promittente venditore o dalla data stabilita nel preliminare di vendita per la stipula del definitivo, che è stato dichiarato risolto per inadempimento del promittente acquirente con precedente sentenza passata in giudicato’ – il motivo in oggetto poggia su un evidente equivoco di fondo; ciò perché dagli atti di causa emerge pacificamente che la “mancata vendita” dedotta in giudizio dal S. quale fonte di danno risarcibile non è quella promessa all’O. , bensì quella fatta successivamente oggetto di trattative con terzi; poi finite nel nulla per il fatto dell’O. che continuava a detenere l’immobile.

Correttamente, dunque, il giudice di appello non ha preso in considerazione l’ipotesi che il termine di prescrizione potesse nella specie decorrere dalla data programmata per la stipulazione del contratto definitivo tra le parti; attesa l’ininfluenza di quest’ultimo elemento nell’ambito di una causa che individua nel contratto preliminare originario non già l’oggetto del contendere, ma un mero antefatto costituente nulla più dell’occasione di originaria apprensione materiale del bene da parte dell’O. .

p.4.1 Con il quinto motivo di ricorso, l’O. deduce violazione e falsa applicazione dei medesimi articoli di cui al motivo che precede, atteso che la corte di appello avrebbe comunque omesso di rilevare l’effettivo decorso, nella specie, della prescrizione; dal momento che non era qui applicabile il termine decennale ex articolo 2953 cod.civ. dal passaggio in giudicato della sentenza di rilascio (n. 30/97), bensì il termine quinquennale ex articolo 2043 codice civile dalla data dell mancata vendita (dichiaratamente verificatasi nel ’90, a fronte di una domanda risarcitoria introdotta soltanto nel marzo ’98).

p.4.2 La censura è fondata.

Nella disamina dei motivi di ricorso che precedono sì è avuto più volte modo di evidenziare come il S. abbia dedotto nel presente giudizio una responsabilità di natura aquiliana, volta a tutelare una posizione sostanzialmente creditoria e di perdita di chances contrattuali; dal che consegue l’applicazione del termine breve di prescrizione ex articolo 2947 codice civile, in forza del quale il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato.

Il contrario avviso della corte di appello, secondo cui il termine di prescrizione applicabile sarebbe invece quello decennale per effetto dell’articolo 2953 cod.civ., non può condividersi; atteso che il diritto al risarcimento fatto valere dal S. non si basa sul giudicato di rilascio – come erroneamente ritenuto dal giudice di merito – bensì su un fatto illecito ben determinato e circoscritto con riferimento alla mancata vendita del 1990.

Che questo, e non altro, fosse il diritto dedotto in giudizio si evince dal tenore delle domande dell’attore, il quale chiese la condanna dell’O. al risarcimento dei danni derivatigli non già dall’aver questi trattenuto l’immobile per tutto indistintamente il periodo intercorso tra la risoluzione del preliminare ed il giudicato di rilascio, bensì dallo specifico evento lesivo costituito dal trattenimento dell’immobile in occasione della mancata vendita nel 1990. Momento a partire dal quale il S. aveva la giuridica possibilità di far valere il diritto al risarcimento, anche per gli effetti di cui all’art. 2935 cod.civ..

Ciò è d’altra parte confermato sia sul piano del nesso causale, in ordine al quale l’attore ha dedotto un danno eziologicamente riferibile non alla illecita occupazione dell’area in quanto tale, bensì all’effetto “dissuasivo” che tale illecita occupazione sorti nel terzo interessato all’acquisto nel ‘90, tal Sp.Gi. ; sia sul piano, davvero dirimente, della quantificazione del danno.

Giova sul punto richiamare quanto esposto dalla stessa corte di appello (sent. pag. 3) nello “svolgimento del processo”, secondo cui il risarcimento richiesto dall’attore (70 milioni di lire) altro non costituiva che ‘il guadagno che (l’attore) avrebbe conseguito dalla seconda vendita, maggiorata del 25% annuo a decorrere dal 1990, oltre interessi e rivalutazione’. E sempre nel solco delle individuazione di un fatto illecito ben determinato sì pone l’opzione dell’attore che, dopo aver inizialmente dedotto altresì un pregresso episodio di mancata vendita nel 1982 a favore di certo R. , ha in corso di causa abbandonato questo evento lesivo, per concentrare le proprie pretese sul mancato esito delle trattative, intercorse nel 1990, nel rapporto con lo Sp. .

Va poi ancora evidenziato quanto riportato dalla corte territoriale proprio allo scopo di delimitare l’oggetto del contendere; là dove osserva (sent.pag.5) che: ‘in questo grado processuale l’appellante ha riproposto soltanto la domanda subordinata di risarcimento danni consistente nel lucro cessante che avrebbe conseguito dalla vendita dell’immobile nell’anno 1990, qualora l’appellato avesse rilasciato l’immobile; (…); fissato così il thema decidendum (…)’.

Nell’ambito di tale delimitazione non vi è dunque spazio per sostenere la rilevanza, al fine della prescrizione, della condotta illecita complessivamente imputabile all’O. nella detenzione dell’area; dovendosi causa petendi e petitum ricondursi conformemente a quanto dedotto in giudizio dall’attore – al più circoscritto aspetto insito nella condotta illecita con la quale l’O. determinò il fallimento delle trattative con lo Sp. .

Su tale presupposto deve dunque affermarsi che: a. non è qui in gioco il principio per cui nell’illecito permanente (quale indubbiamente è quello rappresentato dalla protratta abusiva occupazione del bene) ‘la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa, sicché il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce, ed in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica’ Sez. U, Sentenza n. 23763 del 14/11/2011), vertendosi nella specie di un illecito chiaramente istantaneo, perché consumatosi in tutti i suoi elementi costitutivi nel momento dell’interruzione delle,; trattative di vendita con il terzo (in ciò essendosi sostanziata la perdita di opportunità contrattuale di cui il S. chiede di essere soddisfatto a titolo di lucro cessante); b. non è qui nemmeno in gioco l’estensione del termine prescrizionale breve ex articolo 2953 cod.civ., dal momento che il risarcimento del danno, così individuato, non trova fondamento nell’actio iudicati sulla illecita detenzione, bensì sulla lesione patrimoniale subita dall’attore nel momento in cui egli si vide privato della possibilità di concludere l’affare con il terzo; dal che deriva che il ragionamento della corte di appello è errato nella individuazione non soltanto del termine di prescrizione (quinquennale, invece che decennale), ma anche della sua decorrenza (dal fatto illecito della mancata vendita, invece che dal giudicato di rilascio); quest’ultima conclusione varrebbe d’altra parte anche nell’ipotesi in cui all’illecito in oggetto si attribuissero effetti permanenti, dal momento che anche in tal caso la prescrizione incomincerebbe a decorrere con la prima manifestazione del danno, sempre insita nell’interruzione delle trattative di vendita a causa della illecita detenzione dell’immobile.

In accoglimento della presente censura – comportante l’assorbimento della trattazione dei restanti motivi – la sentenza impugnata andrà pertanto cassata. Sussistendo i presupposti per pronunciare nel merito ex art. 384 2^ co. cpc – stante la non necessità di ulteriori accertamenti di fatto sull’avvenuto decorso del termine di prescrizione – deve rigettarsi la domanda risarcitoria del S. .

Le spese dell’intero giudizio, liquidate come in dispositivo, vengono poste a carico del medesimo.

P.Q.M.

 
La Corte rigetta il primo ed il quarto motivo di ricorso; dichiara inammissibili il secondo e ferzo motivo di ricorso;
 
accoglie il quinto motivo e, dichiarati assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata; pronunciando nel merito, rigetta la domanda attorea; condanna parte resistente al pagamento delle spese del giudizio di primo grado che liquida in Euro 600,00 per diritti ed Euro 1100,00 per onorari; del giudizio di secondo grado, che liquida in Euro 1200,00 per diritti ed Euro 2500,00 per onorari, nonché del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro 5200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed il resto per compenso professionale; il tutto oltre accessori di legge.

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