Il principio di cui all’art. 1306, comma 2, c.c. – che consente al coobbligato solidale di opporre al creditore il giudicato formatosi in favore di altro condebitore – trova un limite nel caso in cui il condebitore convenuto sia a sua volta vincolato da altro giudicato, favorevole al creditore.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 26 giugno 2013, n. 16117
Svolgimento del processo
L’Ufficio del registro di Siena ha notificato a G..B. e a F..C. , quali soci solidalmente responsabili dell’omonima società di fatto, richiesta di pagamento dell’imposta di registro e delle relative sovrattasse sul rogito 20.9.1970 per notaio Bartolini, per decadenza dalle agevolazioni di cui alla legge 2 luglio 1949 n. 408, conseguente alla mancata denuncia di cui all’art. 6 d.l. 11 dicembre 1967 n. 1150, conv. in legge 7 febbraio 1968 n. 25.
I due soci hanno proposto separati ricorsi alla Commissione tributaria provinciale di Siena, ricorsi che sono stati entrambi accolti. Su appello dell’Ufficio del registro, le due cause sono state assegnate a differenti sezioni della Commissione Tributaria Regionale di Firenze e si sono concluse in modo opposto: cioè con la conferma della condanna al pagamento nei confronti del B. e con l’assoluzione del C. .
Il 25.6.2001 il B. ha provveduto al pagamento della cartella esattoriale esecutiva e, con atto di citazione notificato il 19 febbraio 2003, ha proposto contro il socio azione di regresso, chiedendone la condanna al rimborso del 50% dell’imposta, nell’importo di Euro 2.029,66, quale quota a suo carico del debito della società.
Il Giudice di pace di Siena ha respinto la domanda, richiamando i principi per cui la sentenza pronunciata fra il creditore ed uno dei debitori in solido non ha effetto nei confronti del condebitore rimasto estraneo al giudizio, ed il condebitore può opporre all’azione di regresso i fatti impeditivi, estintivi o limitativi del debito comune, che siano antecedenti alla data dell’adempimento e concretamente opponibili al creditore in tale data.
Proposto appello dal soccombente, con la sentenza impugnata in questa sede il Tribunale di Siena ha confermato la decisione di primo grado.
Il B. propone tre motivi di ricorso per cassazione.
Resiste l’intimato con controricorso.
Motivi della decisione
1.- Il giudice di appello (g.a.), premesso che nella specie vanno applicate le norme in tema di obbligazioni solidali e non quelle riguardanti i rapporti fra i soci, ha applicato il principio per cui i condebitori rimasti estranei al giudizio non possono ritenersi pregiudicati dalla sentenza sfavorevole emessa a carico di altro condebitore; ha rilevato che il B. ben avrebbe potuto opporsi alla pretesa del fisco, sulla base della sentenza emessa in favore del C. (quale effetto a lui favorevole), ma non può far ricadere su quest’ultimo l’esito sfavorevole della controversia da lui personalmente promossa.
2.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 stesso codice, addebitando alla sentenza impugnata di avere esaminato e respinto una domanda diversa da quella proposta, poiché egli aveva chiesto non che venissero estesi al C. gli effetti della sentenza pronunciata nei propri confronti, ma che gli venisse rimborsato il debito della società di fatto, di cui i due soci sono responsabili in ugual misura.
1.1.- Il motivo è inammissibile, prima ancora che non fondato. In primo luogo la censura è stata prospettata in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., che concerne gli errori di giudizio, mentre ha per oggetto l’addebito di un errore processuale, che deve essere fatto valere ai sensi dell’art. 360 n. 4, a pena di inammissibilità_(cfr. Cass. civ. Sez. 3, 19 gennaio 2007 n. 1196; Idem, 11 maggio 2012 n. 7268 e 31 luglio 2012 n. 13683, fra le tante).
In secondo luogo il quesito di diritto è inammissibile, perché generico, astratto e non congruente con le censure proposte (“Se costituisca violazione dell’art. 112 cod. proc. civ…. avere sostituito la proposta azione di regresso, fondata sul pagamento di un debito solidale, con una diversa azione, caratterizzata da tutt’altra esposizione dei fatti e da tutt’altra causa petendi, come quella inerente alla pretesa di estendere nei confronti del condebitore gli effetti pregiudizievoli della sentenza contemplata nel primo comma dell’art. 1306 cod. civ.”).
Non emerge dal quesito quale sia la fattispecie sottoposta alla decisione della Corte di appello; quale il principio di diritto da essa erroneamente enunciato e quale quello a cui la Corte si sarebbe dovuta attenere, come prescritto a pena di inammissibilità per la formulazione del quesito di diritto.
Neppure si comprende quale sia l’errore commesso dal giudice di appello, a quale diversa azione ed a quali fatti nuovi e non dedotti avrebbe esteso la sua cognizione.
Si ricorda che il quesito di diritto deve contenere una sintesi logico giuridica della questione sottoposta alla Corte di cassazione, si da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di applicazione anche in casi ulteriori, rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata.
Esso deve sintetizzare, in particolare: a) l’esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito e da questo ritenuti per veri, mancando, altrimenti, la critica di pertinenza alla ratio decidendi della sentenza impugnata; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata da quel giudice; c) la diversa regola di diritto che – ad avviso del ricorrente – si sarebbe dovuta applicare.
Il quesito – quindi – non deve risolversi in una enunciazione di carattere generico e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente. Né è consentito desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, se non a prezzo della sostanziale abrogazione della norma di cui all’art. 366bis cod. proc. civ. (cfr., fra le tante, Cass. Civ. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 11 marzo 2008 n. 6420; Cass. Civ. Sez. III, 30 settembre 2008 n. 24339 e 9 maggio 2008 n. 11535; Cass. Civ. Sez. 3, 14 marzo 2013 n. 6549).
Il vero è che, a differenza di quanto assume il ricorrente, il Tribunale non ha fatto che esaminare le circostanze di fatto dedotte in giudizio ed ha ritenuto ad esse applicabili le norme che regolano le eccezioni opponibili dal condebitore solidale, ed in particolare quelle attinenti al comunicarsi o meno degli effetti del giudicato, senza incorrere in alcun vizio di ultrapetizione; solo ha seguito una tesi giuridica diversa da quella prospettata dal ricorrente: il che non configura alcun vizio di ultrapetizione.
2.- Il secondo motivo denuncia violazione degli art. 1176 e 1306 cod.civ., nonché omessa ed illogica motivazione, sul rilievo che i condebitori convenuti in via di regresso possono opporre all’attore i fatti impeditivi, limitativi od estintivi del debito comune solo se precedenti alla data dell’adempimento e concretamente opponibili al colui che ha pagato il debito, come disposto da Cass. S.U. 5 febbraio 1999 n. 32.
Assume che la sentenza assolutoria del C. avrebbe potuto essere opposta al B. solo se questi ne fosse stato a conoscenza alla data del pagamento; che il C. non ha offerto alcuna prova di averne dato notizia al condebitore e che la conoscenza non può essere presunta per il solo fatto che la sentenza è stata emessa in data anteriore al pagamento.
2.1.- Con il terzo motivo – che va congiuntamente esaminato, poiché attiene alla medesima questione – denuncia violazione dell’art. 1306 2 comma cod. civ., sul rilievo che la norma è destinata a regolare i rapporti fra i condebitori solidali ed il creditore; non i rapporti interni fra condebitori, né le azioni di regresso; che quindi al solo creditore è opponibile la sentenza assolutoria del condebitore solidale.
3.- I motivi non sono fondati, pur se deve essere corretta la motivazione della sentenza impugnata.
3.1.- Questa Corte ha più volte affermato che il principio di cui all’art. 1306, 2 comma, cod. civ. – che consente al coobbligato solidale di opporre al creditore il giudicato formatosi in favore di altro condebitore – trova un limite nel caso in cui il condebitore convenuto sia a sua volta vincolato da altro giudicato, favorevole al creditore, com’ è accaduto nel caso in esame, ove il B. ha visto respinto il suo ricorso contro l’atto di accertamento dell’amministrazione finanziaria.
Il coobbligato non può cioè invocare a proprio vantaggio la diversa pronuncia emessa nei riguardi di altro debitore in solido, nel caso in cui egli stesso sia stato parte di un giudizio relativo al medesimo credito e conclusosi in favore del creditore, con una decisione avente autonoma efficacia nei suoi confronti (cfr. Cass. Civ. S.U. 22 giugno 1991 n. 7053; Cass. Civ. Sez. 5, 9 dicembre 2008 n. 28881; Idem, 11 aprile 2011 n. 8169; Idem, 27 settembre 2002 n. 13997, ed altre).
L’art. 1306, 2 comma, consente cioè al condebitore solidale di invocare eccezionalmente in suo favore l’efficacia riflessa del giudicato ma non gli consente di disattendere gli effetti del giudicato emesso nei suoi personali confronti.
Tali principi sono stati enunciati, tuttavia, nei rapporti fra il condebitore solidale e il creditore; non invece nei rapporti fra i condebitori solidali ed in relazione alla disciplina delle azioni di regresso: disciplina che trova la sua fonte nel rapporto sostanziale da cui deriva il vincolo di solidarietà.
Da tale rapporto si desumono le quote per le quali ogni condebitore è tenuto a rispondere del debito in via di regresso ed ogni altra circostanza idonea ad influire sulla ripartizione interna dei diritti e degli obblighi derivanti dal rapporto che ha dato origine al debito solidale.
Deve essere perciò condivisa la tesi del ricorrente secondo cui la norma dell’art. 1306 cod. civ. non può essere automaticamente trasposta alla disciplina delle azioni di regresso e va disatteso il principio contrario, affermato dal Tribunale.
Le regole della solidarietà prevalgono senz’altro, nei rapporti con il creditore; non necessariamente nei rapporti interni fra condebitori.
Nella specie, la circostanza che il C. abbia ottenuto una sentenza assolutoria da un debito verso il fisco non vale di per sé a dimostrare l’inesistenza del debito, quindi il venir meno del suo obbligo di risponderne quale socio, poiché la società si è trovata ad essere gravata da quel debito per effetto del giudicato sfavorevole al B. e della conseguente minaccia di esecuzione esattoriale.
Ma neppure può affermarsi apoditticamente il principio voluto dal ricorrente, cioè che entrambi i soci sono comunque tenuti a rispondere in parti eguali, restando irrilevanti le vicende che hanno condotto all’anomala situazione per cui l’uno è stato condannato a pagare lo stesso debito per cui l’altro è stato assolto.
L’efficacia dei contrapposti giudicati rileva indubbiamente sul piano processuale, ma non dimostra nulla, di per sé, quanto al problema sostanziale circa le responsabilità per l’accaduto e circa i criteri in base ai quali stabilire quale delle due situazioni si debba ritenere efficace nei confronti della società: se la condanna riportata dal B. o l’assoluzione del C. .
Vale a dire, la mera deduzione da parte del socio di avere riportato una condanna e di avere pagato il debito non è sufficiente, di per sé sola, a giustificare la domanda di rimborso proposta nei confronti dell’altro socio, ove questi possa opporre una sentenza di assoluzione dallo stesso debito.
Le due situazioni si neutralizzano reciprocamente, quanto agli effetti nei confronti della società. Resta solo il problema di stabilire se l’uno dei soci sia responsabile dell’accaduto nei confronti dell’altro: questione la cui soluzione avrebbe richiesto di accertare quale dei due soci avesse, di fatto, il potere di amministrare la società ed in particolare di gestire i rapporti con il fisco; per quali ragioni non vi sia stato alcun coordinamento fra i rispettivi ricorsi alle Commissioni tributarie, né alcuna reciproca informativa circa il loro esito; se tempi e modi del pagamento effettuato dall’uno siano giustificati ed abbiano evitato un danno alla società, o siano stati invece avventati e inescusabili; ed ogni altra circostanza rilevante.
In questo contesto può assumere rilievo anche la circostanza dedotta dal ricorrente di non essere stato informato dell’esito del ricorso altrui; ma non da sola e non indipendentemente da ogni altro accertamento circa i rispettivi accordi, competenze e attività, ivi incluso quello attinente a chi avesse l’obbligo di informare l’altro. Se perciò erroneamente il giudice di appello ha ritenuto irrilevanti i rapporti interni fra i due soci, in ordine alla ripartizione delle responsabilità per il debito, la parte interessata – cioè l’attore in via di regresso – avrebbe dovuto farsi carico di dedurre e dimostrare le ragioni per cui la sua personale situazione, e l’esecuzione esattoriale minacciata a carico della società, siano da ascrivere alla responsabilità dell’altro socio, che peraltro – essendo stato capace di ottenere la completa assoluzione dal debito – appare oggettivamente avere agito nell’interesse della società.
Nulla il ricorrente risulta avere dedotto in proposito, nelle competenti sedi di merito, sicché il giudice di appello non poteva che rigettare la domanda.
4.- Il ricorso deve essere respinto.
5.- Le spese del presente giudizio, liquidate nel dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in Euro 1.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 1.300,00 per compensi; oltre agli accessori previdenziali e fiscali di legge.
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