Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 22 novembre 1013, n. 26223

Svolgimento del processo

Con citazione notificata in data 11 gennaio 1990 N.E. , premesso che nei primi mesi dell’anno 1970 era stata ricoverata presso la Clinica Salus di (omissis) per ivi essere sottoposta a intervento chirurgico di colicistectomia ad opera del Dott. C.R. ; che dopo l’operazione aveva accusato innumerevoli disturbi, che l’avevano costretta a lunghi periodi di degenza e a ricoveri ospedalieri; che sottoposta in data (omissis) a nuovo intervento presso la Casa di Cura Sanatrix di …, le era stato rinvenuto, all’interno dell’addome, un corpo estraneo e cioè “una pezza laparatomica residua al pregresso intervento di 18 anni prima”, convenne innanzi al Tribunale di Salerno la Clinica Salus, chiedendo il risarcimento dei danni subiti.
Costituitasi in giudizio, la convenuta contestò le avverse pretese.
Con sentenza del 18 settembre 2000 il giudice adito accolse la domanda e, dichiarata la responsabilità della clinica, la condannò al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di lire 66.150.000, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla data del fatto.
Proposto gravame principale da parte di Salus s.p.a. e incidentale, da parte della N. , la Corte d’appello di Salerno, in data 18 febbraio 2009, in parziale riforma della impugnata sentenza, ha condannato la Clinica Salus s.p.a. al pagamento, in favore di N.E. , della somma di Euro 121.898,27 all’attualità, oltre interessi, da calcolarsi sul predetto importo, devalutato alla data del fatto e via via rivalutato secondo gli indici ISTAT.
Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte Elisa N. , formulando un solo motivo.
Resiste con controricorso la Casa di Cura Salus s.p.a..

Motivi della decisione

1.1 Con l’unico mezzo la ricorrente denuncia violazione di norme di diritto, nullità parziale della sentenza e del procedimento, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (ex art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 112, 342, 132, n. 4, cod. proc. civ., 111, comma 6, della Costituzione).
Oggetto delle critiche è, sotto un primo profilo, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui erroneamente il giudice di prime cure, dopo avere determinato il danno con riferimento alla data della decisione, aveva riconosciuto la rivalutazione e gli interessi sul capitale rivalutato dalla data del fatto al saldo, laddove questi ultimi andavano calcolati sulla somma devalutata al momento della commissione dell’illecito e poi incrementata anno per anno, in base agli indici ISTAT.
Secondo l’esponente la decisione farebbe malgoverno dei principi giuridici in tema di formulazione dei motivi di appello. E invero con le generiche censure e le conseguenti richieste conclusive – riportate nei loro punti salienti in ricorso – nulla l’appellante avrebbe domandato, con chiarezza e specificamente, in merito alla nuova determinazione di interessi e rivalutazione, di talché la Corte d’appello avrebbe giudicato ultra ed extra petitum nonché in violazione del principio della non reformatio in peius.
Nel quesito di diritto l’esponente chiede al giudice di legittimità di accertare che la Corte d’appello di Salerno, piuttosto che pronunciarsi, sulla base di motivi di gravame generici e comunque poco chiari, in ordine al capo della sentenza di primo grado relativo al computo di interessi e rivalutazione, avrebbe dovuto, previa dichiarazione di inammissibilità ex art. 342 cod. proc. civ., lasciare inalterata sul punto la pronuncia impugnata, onde evitare di operare una reformatio in peius nei confronti dell’appellato-appellante incidentale.
1.2 Sotto altro profilo, espressamente subordinato al mancato accoglimento dei rilievi innanzi svolti, la ricorrente denuncia vizi motivazionali con riferimento alla liquidazione del danno, effettuata dal giudice di merito attraverso una asciutta applicazione dei coefficienti tabellari in uso presso il Tribunale di Milano, senza operare alcuna personalizzazione, laddove andavano considerate sia la gravità delle lesioni, sia la lunga sofferenza patita dalla vittima, ulteriormente peggiorata nel corso degli anni. Ricorda, in particolare, l’impugnante che la giurisprudenza di legittimità aveva ripetutamente escluso che le tabelle elaborate da alcuni uffici giudiziari per la liquidazione del danno biologico rientrassero nelle nozioni di fatto di comune esperienza di cui all’art. 115, comma 2, cod. proc. civ., e che esse fossero canonizzate in norme di diritto, di talché il giudice che intendeva utilizzarle, per non incorrere nell’errore di omessa motivazione, avrebbe dovuto dare conto dei criteri indicati nelle tabelle.
2 Osserva preliminarmente il collegio che le critiche, ancorché formulate in un motivo formalmente unico, sono, in realtà tra loro profondamente eterogenee.
E invero, quelle volte a prospettare il malgoverno dei principi giuridici che presidiano la formulazione dei motivi di appello, ruotano intorno alla violazione del disposto dell’art. 342 cod. proc. civ. (denunciata ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.), nonché della regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (denunciata ex artt. 112 e 360, n. 4, cod. proc. civ.). Non a caso esse sono accompagnate dalla formulazione di un quesito di diritto, ex art. 366 bis, prima parte, cod. proc. civ., nella versione vigente, ratione temporis.
Invece le censure relative alla quantificazione dei danni sono articolate esclusivamente in chiave di mancanza e/o insufficienza dell’iter argomentativo con il quale la Corte d’appello ha giustificato la sua decisione, sì da mettere capo a un momento di sintesi volto a circoscrivere il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa, contraddittoria o insufficiente, ai sensi della seconda parte della norma processuale innanzi richiamata.
3 Le censure volte a denunciare il preteso error in procedendo, consistito nella mancata intercettazione della aspecificità dei rilievi formulati dall’appellante in ordine alla decorrenza di rivalutazione e interessi stabilita dal giudice di prime cure, non colgono nel segno, ancorché l’esposizione delle ragioni della scelta operata in dispositivo esiga alcune precisazioni.
Occorre muovere dalla considerazione che sulla questione dei limiti dell’indagine che il giudice di legittimità è chiamato a compiere in presenza della denuncia di vizi che, come nella specie, attengono alla corretta applicazione di norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione del giudice di merito, ma, al tempo stesso, comportano anche la verifica del modo in cui uno o più atti di quel processo siano stati intesi e motivatamente valutati da parte dello stesso giudice, sono intervenute, in tempi recenti, le sezioni unite di questa Corte (confr. Cass. civ. sez. un. 22 maggio 2012, n. 8077).

E invero, il principio, assolutamente consolidato, secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto (inteso qui, ovviamente, come fatto processuale) ed è perciò investita del potere di procedere direttamente all’esame e alla valutazione degli atti del processo di merito (si vedano tra le altre, Cass. civ. n. 14098 del 2009; Cass. civ. n. 11039 del 2006; Cass. civ. n. 15859 del 2002) non sempre sì armonizza agevolmente con l’affermazione, pure assai frequente, che assegna in via esclusiva al giudice di merito il compito d’interpretare gli atti processuali di parte, e quindi d’individuarne il significato ed il contenuto giuridico, circoscrivendo il sindacato della Cassazione ai soli eventuali vizi di motivazione nei quali detto giudice di merito sia eventualmente incorso nell’esposizione delle ragioni della scelta operata in dispositivo (confr., a titolo d’esempio, Cass. civ. n. 5876 del 2011; Cass. civ. n. 20373 del 2008; Cass. civ. n. 7074 del 2005; Cass. civ. n. 19416 del 2004; Cass. civ. n. 9471 del 2004).
4 Orbene, muovendo dalla considerazione della diversa latitudine che assume la cognizione del giudice di legittimità, a seconda che sia denunciato un error in iudicando o un error in procedendo, posto che oggetto dello scrutinio, in quest’ultimo caso, non è il contenuto della scelta decisoria adottata dal giudice di merito sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che è fatto anteriore al processo, ma il modo stesso in cui il processo si è svolto, di talché il fatto da verificare si colloca all’interno di una sequenza che è ancora in corso, le sezioni unite hanno formulato il seguente principio di diritto, al quale il collegio intende dare continuità: quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito.
5 Venendo al caso di specie, nell’atto di gravame, trascritto nel suo contenuto essenziale in ricorso e direttamente esaminato dal collegio, in applicazione dei principi testé richiamati, l’impugnante ebbe a censurare la disposta liquidazione della maggior somma dovuta sia per interessi legali che per rivalutazione monetaria a far tempo dal 1970 sull’importo riconosciuto per sorta capitale, segnatamente evidenziando che la liquidazione di una somma a titolo di cumulo di interessi e della rivalutazione monetaria a far tempo dal 1970 (e non già, a tutto voler concedere, dal momento in cui è stato rivendicato il risarcimento del danno con la notifica dell’atto di citazione), aveva dell’incredibile, sia perché nessuna prova aveva fornito l’attrice sul maggior danno pretesamente subito, sia alla luce del constante orientamento della Corte di cassazione, essendo pacifico che, in forza delle regole di responsabilità da inadempimento delle obbligazioni sussiste un divieto di cumulo tra rivalutazione e interessi, oggi esteso anche ai cediti di lavoro, previdenziali, assistenziali.
6 Ora, a giudizio del collegio, siffatto contenuto espositivo si è risolto in una critica adeguata e specifica della decisione impugnata, tale da consentire al giudice del gravame di percepire con certezza e chiarezza il contenuto delle censure formulate dall’appellante alla statuizione del Tribunale, in punto di criteri di calcolo di interessi e rivalutazione monetaria sulla somma dovuta a titolo di danni (confr. Cass. civ. 17 dicembre 2010, n. 25588).
Ne deriva che il denunziato malgoverno dell’art. 342 cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis, non sussiste.
7 Destituito di ogni fondamento, oltre che alquanto bizzarro, è poi il richiamo a un preteso divieto di reformatio in peius che sarebbe stato violato dalla Corte territoriale.
Questo divieto, invero, non esiste nel sistema processuale civile, per la dirimente considerazione che esso sarebbe, a tacer d’altro, in contrasto con lo stesso sistema delle impugnazioni.
8 Prive di pregio, infine, sono le critiche in ordine alla quantificazione dei danni, operata dal giudice di merito attraverso l’utilizzazione delle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano.
In disparte il rilievo che questa Corte ha riconosciuto ai criteri di liquidazione del danno biologico predisposti dal Tribunale di Milano l’idoneità a garantire l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, reputando intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari (confr. Cass. civ.7 giugno 2011, n. 12408), le censure difettano di decisività. L’esponente non specifica per vero di quali indici, in concreto, il decidente non avrebbe tenuto conto, così venendo meno al suo obbligo di personalizzare la liquidazione. Del tutto generico è, a tal fine, il richiamo alla gravità delle lesioni e alla lunga sofferenza patita della vittima, trattandosi di elementi che nulla dicono, in realtà, sulla pretesa insufficienza delle somme riconosciute a titolo di danno biologico e di danno morale.
In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato. La soccombente rifonderà alla controparte vittoriosa le spese di giudizio, nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 11.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre IVA e CPA, come per legge.

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