Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 13 febbraio 2014, n. 6988
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 20/3/2013 la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del 30/5/2011 del Tribunale di Palermo, ha mandato assolti gli imputati dal reato contestato al capo A della rubrica (artt.110 cod. pen. e 171, comma 1, lett. a bis, della legge 22 aprile 1941, n.633) “perché il fatto non sussiste” e, esclusa la continuazione, ha ridotto a quattro mesi di reclusione e 1.350,00 Euro di multa la pena inflitta a ciascuno in relazione al capo B (artt. 110 cod. pen. e 171-bis, comma 1, legge 22 aprile 1941, n.633), accertato il 26/10/2006; con conferma delle restanti statuizioni anche in favore della parte civile costituita, S.I.A.E.
2. Il Tribunale aveva ritenuto gli imputati S. (legale rappresentante della “RSV Service, società di servizi informatici, società cooperativa a responsabilità limitata”) e R. e V. (soci-dipendenti e consiglieri della società citata) responsabili di entrambi i reati contestati per avere scaricato tramite il programma “Emule”, depositato nella memoria di due personal computer e messo a disposizione del pubblico numerosi documenti informatici contenenti tracce musicali e n.5 opere cinematografiche, tutti documenti coperti da diritto d’autore (capo A) e per avere duplicato abusivamente a scopo commerciale o imprenditoriale numerosi programmi per elaboratore elettronico in violazione del diritto d’autore (capo B). Alla condanna penale seguiva quella al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede, con fissazione della somma di 3.000,00 Euro quale provvisionale immediatamente esecutiva.
3. La Corte di appello, sull’appello degli imputati e previa effettuazione di consulenza tecnica, ha ritenuto non provato che al momento dell’accesso della Guardia di Finanza fossero in atto attività di condivisione dei documenti contestati al capo A; che in passato tale condotta sia stata più volte tenuta è risultato accertato dai periti, ma si tratta di condotte non contestate nel capo di imputazione e, dunque, non assumibili come elemento rilevante per la decisione, pena la violazione degli artt.516 e seguenti cod. proc. pen., con conseguente assoluzione degli imputati dal reato sub A.
Diversa la conclusione cui è giunta la Corte di appello con riguardo alla condotta contestata al capo B, ritenendo che l’insieme degli elementi di fatto consenta di affermare con certezza (pag.5 e 6) che la detenzione in un locale commerciale di numerosi programmi per elaboratore elettronico abusivamente “masterizzati”, privi del marchio SIAE, pronti per l’installazione e custoditi anche su supporti riposti in copertine simili a quelle originali non fosse finalizzata all’uso personale dei detentori ma avesse finalità commerciali. Di qui la condanna di tutti gli imputati per il solo capo B e la riduzione della provvisionale all’importo di 1.000,00 Euro.
4. Avverso tale decisione i sigg. S. , R. e V. propongono unico ricorso tramite il Difensore in sintesi lamentando:
a. Vizio di motivazione ai sensi dell’art.606, lett. e) cod. proc. pen. per illogicità del ragionamento e per travisamento del dato probatorio. In particolare: 1) escluso dalla sentenza di appello (pag. 5) che sussista prova di abusiva duplicazione, la Corte di appello ha ritenuto provato che sussistano nel caso in esame finalità commerciali o imprenditoriali della detenzione e ha ricavato tale conclusione su “indici rivelatori” che, invece, non si presentano come significativi, né singolarmente né valutati nel loro complesso: errato il giudizio sul dato numerico (43 supporti non sono un numero cospicuo e per 18 di essi i ricorrenti erano in possesso degli originali); errata la confusione fra lo scopo commerciale dell’attività e la destinazione commerciale dei supporti; ininfluente la competenza tecnica dei ricorrenti; ininfluente la circostanza che nell’esercizio fossero presenti computer in riparazione (tema precisato con rinvio al punto 5.1 e al punto 5.2 dell’atto di appello); 2) omessa motivazione in relazione alle dichiarazioni del teste D. (ud. 16 novembre 2009) e all’assenza di finalità commerciali;
b. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. per essere insussistente il reato alla luce della sentenza della Corte di Giustizia UE del 8/11/2007 in causa Schwibbert: l’assenza di contrassegno SIAE non integra illecito per fatti risalenti all’anno 2006.
Considerato in diritto
1. Rileva la Corte che il capo d’imputazione contiene al capo B due ipotesi di reato tra loro alternative che rispecchiano il testo dell’art.l71-bis della legge 22 aprile 1941, n.633: l’avere con finalità di lucro abusivamente duplicato (in termini correnti “masterizzato”) programmi per elaboratore elettronico o comunque detenuto a scopo commerciale o imprenditoriale programmi per elaboratore contenuti in supporti privi del contrassegno Siae.
2. Muovendo dalla seconda delle ipotesi, sulla quale la Corte di appello e i ricorrenti si sono particolarmente soffermati, la Corte deve affrontare due questioni: se possa sussistere la finalità commerciale o imprenditoriale; se l’ipotesi di reato possa essere applicata a supporti privi di contrassegno Siae qualora la condotta contestata risalga all’anno 2006.
3. Quanto al primo profilo la Corte ritiene che non possa trovare accoglimento la prospettazione difensiva in ordine alla finalità di commercio o d’impresa esposta alle pagine 8 e seguenti del ricorso. Dal momento che i ricorrenti svolgevano professionalmente l’attività di assistenza in campo informatico, la finalità di commercio o d’impresa non deve essere valutata esclusivamente con riguardo alla vendita diretta dei programmi per elaboratore, ma anche alla installazione dei medesimi sugli apparecchi e, più in generale, alla loro utilizzazione in favore dei clienti. Sul piano puramente logico, infatti, è evidente che l’installazione sui personal computer dei c.d. “pacchetti software” duplicati dagli originali comporta per l’acquirente o per il cliente il vantaggio di non dover acquistare detto software, ivi compreso il sistema operativo prescelto, con un risparmio non modesto di denaro che si riverbera in una violazione del diritto d’autore e in un danno economico per il produttore del software coperto da brevetto. Nello stesso tempo, detta condotta comporta un vantaggio per il centro di commercializzazione e assistenza, che può consegnare i propri prodotti funzionanti a un prezzo più contenuto e in più, essendo titolare unico del software originale poi masterizzato, rimane il riferimento indispensabile del cliente in presenza di qualsiasi difficoltà tecnica. Sulla base delle considerazioni che precedono la Corte ritiene che non meriti censura il ragionamento della Corte di appello allorché ha preso in esame alcuni “indici rivelatori”, quali il numero dei programmi masterizzati, la presenza dei supporti con i programmi all’interno dei locali commerciali, la presenza di personal computer di clienti in fase di assistenza o riparazione, la qualificazione tecnica dei ricorrenti in campo informatico. Da quanto detto discende un giudizio di logicità e correttezza del ragionamento della Corte di appello nella parte in cui conclude per l’esistenza di uno scopo commerciale o imprenditoriale quale elemento caratterizzante la condotta dei ricorrenti.
4. La sentenza della Corte di appello merita, invece, di essere censurata con riguardo al secondo profilo sopra richiamato. Come questa Corte ha avuto modo di affermare, i principi affermati nella citata sentenza Schwibbert della Corte di Giustizia Ue conducono a ritenere che la condotta consistente nella detenzione di supporti privi di contrassegno Siae non può integrare reato se commessa nel periodo anteriore all’entrata in vigore del d.P.C.M. 23 febbraio 2009, n. 31, che pose rimedio all’inadempimento dello Stato italiano e rese applicabile anche al nostro Paese la piena tutela del diritto d’autore con riferimento ai beni oggetti delle norme incriminatrici qui rilevanti (cfr. Sez.3, n.9590 del 29/2/2012, Pape Mbacke). Ora vertendosi in ipotesi di reato risalente all’anno 2006, va escluso che la detenzione dei programmi di elaboratori possa integrare il reato ex art. 171 bis, citato, per il solo fatto di essere i programmi contenuti in supporti privi del suddetto contrassegno.
5. Tale conclusione impone alla Corte di verificare se la Corte di appello abbia correttamente inquadrato la condotta dei ricorrenti con riguardo alla prima parte della contestazione. La risposta non può che essere negativa. La Corte di appello ha appuntato la propria attenzione sulla condotta di detenere i materiali per finalità commerciali o imprenditoriali e ha concluso per l’esistenza della violazione. Ciò ha condotto i giudici di appello a dedicare solo un passaggio alla ipotesi di duplicazione illecita dei supporti, affermando a pag. 5 che “possono sussistere dubbi sull’ascrivibilità della duplicazione ai ricorrenti costituisce, invece, oggetto di giudizio che deve essere affrontato e risolto dalla Corte di appello alla luce di quanto sopra esposto in termini di insussistenza dell’ipotesi illecita detenzione dei supporti. Solo l’abusiva duplicazione per finalità di lucro è, infatti, condotta che non risente dei principi fissati dalla citata sentenza della Corte di Giustizia Ue e che, pertanto, deve essere valutata e decisa in principalità dai giudici di appello, cui gli atti vanno restituiti perché provvedano a nuovo esame nel rispetto dei principi fissati con la presente decisione.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo.
Leave a Reply