In tema di responsabilità sanitaria, laddove un intervento chirurgico, sebbene eseguito in conformità alla lex artis e non determinativo di un peggioramento delle condizioni patologiche del paziente, risulti del tutto inutile, si configura una ingiustificata ingerenza sulla sfera psico-fisica della persona generativa di un danno risarcibile
Suprema Corte di Cassazione
sezione III civile
sentenza 19 maggio 2017, n. 12597
Svolgimento del processo
1. F.M. ha proposto ricorso per cassazione contro la Casa di Cura Villa Ester E. Percesepe s.p.a. e la s.p.a. Assitalia, avverso la sentenza del 3 dicembre 2012, con cui la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato il suo appello avverso la sentenza del Tribunale di Avellino del marzo del 2006, con la quale era stata rigettata la domanda, con cui nel gennaio del 2001, essa ricorrente aveva chiesto la condanna della Casa di Cura al risarcimento dei danni asseritamente sofferti in conseguenza di un intervento chirurgico di “stabilizzazione della spalla sinistra”, al quale si era sottoposta presso di essa nel gennaio del 2001. Nel relativo giudizio la convenuta aveva chiamato in garanzia la società assicuratrice.
2. Al ricorso, che prospetta tre motivi, ha resistito con controricorso soltanto la Casa di Cura Villa Ester E. Percipese, mentre non ha svolto attività difensiva la società assicuratrice.
3. La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce “violazione degli artt. 1176, 1218, 1223, 1226, 2043 e 2049 c.c. e dell’art. 196 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. – omesso esame del risultato della prestazione medica per la formulazione del giudizio di inadempimento e del grado di diligenza impiegato dal professionista – difetto di attribuzione dell’onere della prova i tema di inadempimento – omesso ingiusto diniego di riconoscimento del danno a seguito dell’inesatto inadempimento”.
1.1. L’illustrazione del motivo esordisce con il riprodurre quanto si era dedotto con il primo motivo di appello, che risulta avere avuto il seguente tenore:
“La menomazione clinica funzionale della spalla sinistra è più grave rispetto allo stato antecedente l’intervento. A ciò andava aggiunto il danno psichico reattivo della paziente di fronte alla delusione provata per l’intervento subito privo di efficacia. Suffragano tale convincimento le certificazioni specialistiche neuropsichiatriche in atti. Tutto ciò concretizza un danno alla persona che si struttura soprattutto come danno biologico, come danno alla salute ed alla qualità della vita della giovane paziente ancora nubile. Era giusto riconoscere, pertanto, un’invalidità permanente, conseguente all’intervento e alle omesse prescitte terapie nella misura non inferiore al 15%. Andava pure considerato ai fini risarcitori lo stato di disoccupazione dell’appellante pure conseguente all’intervento e alla omissione di cure; oltre alla detta invalidità permanente andava pure riconosciuto una invalidità temporanea di giorni 60 ed una progressiva invalidità parziale, in aggiunta al danno morale che andava liquidato con criterio equitativo”.
1.2. L’illustrazione passa, poi, a riprodurre la motivazione con cui la Corte partenopea ha rigettato il primo motivo di appello, scrivendo quanto segue:
“Come già posto in evidenza dal Tribunale, il consulente tecnico d’ufficio nominato in primo grado ha chiaramente rappresentato che non sussistono lesioni né postumi conseguenti all’intervento chirurgico di stabilizzazione della spalla sinistra e che inoltre a seguito dell’intervento chirurgico predetto non sono derivate lesioni che possano determinare invalidità permanente né temporanea a carico dell’originaria parte attrice e ancora che l’intervento chirurgico in questione è stato correttamente eseguito, così come può evincersi dall’esame clinico della paziente e dalla lettura della cartella clinica e della descrizione dello stesso intervento. Tali valutazioni appaiono ampiamente motivate e pienamente condivisibili anche da parte di qu3sto Collegio, dovendo altresì escludersi che nella fattispecie vi sia materia per la rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio svolta in primo grado”.
1.3. Si procede, poi, a riprodurre le conclusioni del c.t.u. nominato dal Tribunale, che – per quanto in questa sede interessa – risultano avere il seguente tenore: “a) non sussistono lesioni postume all’intervento chirurgico di stabilizzazione della spalla sinistra; b) dall’anamnesi non si sono evidenziate altri precedenti morbosi che potessero influenzare il risultato dell’intervento chirurgico; c) a seguito dell’intervento non sono derivate lesioni che possono determinare una invalidità permanente; (…) f) anche se l’intervento è stato correttamente eseguito, così come si evince dall’esame clinico della paziente e dalla lettura della descrizione dello stesso intervento, dobbiamo dire che l’intervento eseguito non era adeguato alle condizioni dell’attore (sic) al momento dell’intervento stesso, tenendo conto che i normali criteri diagnostici necessari e sufficienti per l’instabilità anteriore di spalla non traumatica avrebbero dovuto indirizzare verso un trattamento di riabilitazione che avrebbe dovuto essere di preparazione all’intervento”. La consulenza tecnica è detta depositata nella produzione di questo grado come documento n. 6.
1.4. Dopo avere rilevato che il Tribunale aveva motivato il rigetto della domanda, pur avendo ravvisato nella condotta del personale medico della struttura sanitaria una colpa professionale, si riproduce, poi, la motivazione in parte qua resa dal Tribunale, che è nei seguenti termini: “nella specie non risulta essere stati effettuati né prescritti all’attrice trattamenti di riabilitazione di preparazione dell’intervento chirurgico o successivi ad essi (cfr. le conclusioni del ctu e la “cartella di dimissione” dalla clinica, nella quale si legge solo la prescrizione di trattamento farmacologico ed il consiglio dell’uso di tutori). Ebbene, può condividersi la conclusione del ctu (immune da vizi procedurali e logici e confortata dai necessari accertamenti) secondo cui l’intervento chirurgico risulta essere “stato perfettamente eseguito” e che non sussistono lesioni postume all’intervento chirurgico”, tanto meno “lesioni che possono determinare una invalidità permanente” (…). Tuttavia, non può non sottolinearsi l’inidoneità della complessiva cura della paziente, essendo evidente, e rimarcato dall’ausiliario del giudice, che l’intervento non era adeguato alle condizioni dell’attrice, in quanto non preceduto da idoneo trattamento preparatorio né è stato seguito da necessario trattamento di riabilitazione”. La sentenza di primo grado viene indicata come presente nelle produzioni di grado di appello.
1.5. Dopo tali ampie riproduzioni, le ragioni a sostegno del motivo sono svolte in questi termini:
a) la decisione impugnata, adagiandosi su quella di primo grado, avrebbe violato l’art. 1176 cod. civ., perché avrebbe “omesso di considerare che il medico, e lo specialista in particolare, è tenuto a fornire non una qualsiasi prestazione bensì una prestazione qualificata in considerazione del suo grado di specializzazione e abilità tecnico-scientifica ed in questo contesto la sua prestazione”, al contrario di come avrebbe argomentato la Corte territoriale, “non deve valutarsi considerando un risalente indirizzo che qualificava la prestazione del medico e quella dei professionisti in genere come obbligazione di soli mezzi e non di risultato (Cass. n. 8826 del 2007)”;
b) da tanto conseguirebbe che la corretta esecuzione dell’intervento per come ritenuta dal c.t.u., in presenza di insuccesso avrebbe dovuto considerarsi determinativa di una “responsabilità da insuccesso per il mancato conseguimento del risultato sperato (…) ove il professionista ovvero la struttura sanitaria non dimostri che l’insuccesso dell’intervento è stata causato da impedimento non prevedibile e superabile (art. 1218 c.c.), con la diligenza professionale contemplata dal’art. 1176 c.c.”;
c) erroneamente sarebbe stato affermato dai giudici di merito “che l’intervento è stato correttamente eseguito (…) anche se non è conseguito alla paziente alcun risultato”, mentre “Io stato di salute inalterato a seguito dell’intervento determina un giudizio di inutilità dell’intervento con tutte le conseguenze di natura patrimoniale e non patrimoniale dovute alla persistenza della patologia. Ingiustamente la Corte d’Appello, nel riportarsi alla decisione del Tribunale, non ha ravvisato i danni conseguenti all’insuccesso dell’intervento “né i danni di carattere fisico e psicologico spese e sofferenza patita, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia dalla prospettiva di subire una nuova operazione” (Cass. 8826 del 13/4/2007), limitando il suo esame alla sussistenza di “lesioni e postumi conseguenti all’intervento chirurgico”.
2. Il motivo è fondato.
2.1. In via preliminare si rileva che sono prive di pregio le eccezioni di inammissibilità, formulate riguardo ad esso dalla resistente.
In primo luogo, il motivo, a differenza di quanto sostiene la resistente, pone una quaestio iuris e non una quaestio facti, riconducibile al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.. Vi si lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di riconoscere l’esistenza di danno risarcibile, dando rilievo soltanto alla circostanza che l’esecuzione dell’intervento, in quanto avvenuta correttamente, non aveva determinato un peggioramento dello stato di salute della ricorrente e, quindi, una sua rilevanza anche causativa di un danno patrimoniale, omettendo, invece, di considerare che l’intervento stesso si era però pacificamente rivelato inutile e che, proprio per tale inutilità, la conseguente incidenza sulla sfera personale della ricorrente proprio perciò era da considerare foriera di danni.
Lo scrutinio del motivo è, d’altro canto, possibile confrontando la sua illustrazione con la motivazione della sentenza impugnata, mentre sono state riprodotte la consulenza e la sentenza di primo grado, sicché è priva di pregio l’evocazione del principio di autosufficienza.
La sollecitazione espressa dal motivo, d’altro canto, proprio perché pone una questione di puro diritto, non involge affatto un riesame del merito, ma chiede alla Corte di valutare se, con riferimento al profilo che si dice non considerato, la Corte territoriale ha male applicato i principi sulla responsabilità sanitaria.
2.2. Le ragioni di fondatezza del motivo si configurano, considerando il rilievo del dato pacifico – ritenuto dal c.t.u. in primo grado, condiviso dal giudice di primo grado, e, quindi, anche da quello della sentenza impugnata – che, per usare le parole del c.t.u. “anche se l’intervento (era) stato correttamente eseguito, così come si evince(va) dall’esame clinico della paziente e dalla lettura della descrizione dello stesso intervento, (…) l’intervento eseguito non era (stato) adeguato alle condizioni dell’attrice al momento dell’intervento stesso, tenendo conto che i normali criteri diagnostici necessari e sufficienti per l’instabilità anteriore di spalla non traumatica avrebbero dovuto indirizzare verso un trattamento di riabilitazione che avrebbe dovuto essere di preparazione all’intervento”.
Si deve notare che questo dato, già condiviso, come si è visto, dal primo giudice, lo è stato anche da parte della Corte territoriale, sebbene non nella motivazione riportata nell’illustrazione del motivo in esame e sopra riportata, bensì nella motivazione con cui è stato rigettato il secondo motivo di gravame, con cui, si dice nella sentenza, l’appellante aveva lamentato la ingiusta mancata inclusione del danno da chance nella domanda di riconoscimento di liberazione di tutti danni così come formulata in primo grado.
Si legge, infatti, nella sentenza impugnata quanto segue: “al riguardo osserva il Collegio che il primo giudice, pur ritenendo l’intervento chirurgico eseguito a regola d’arte, ha singolarmente ritenuto, collegandosi ad alcune considerazioni svolte dal consulente tecnico d’ufficio, (…) che, al di là dell’intervento chirurgico la prestazione sanitaria nel suo complesso non sarebbe stata adeguata alle condizioni dell’attrice, in quanto non preceduta da un idoneo trattamento preparatorio né seguita da un necessario trattamento di riabilitazione”.
Ebbene, l’indicato dato pacifico evidenzia che la ricorrente venne sottoposta ad un intervento chirurgico e, dunque, ad una ingerenza sulla propria sfera psico-fisica, in mancanza delle condizioni di preparazione necessarie per il successo dell’intervento, cioè per la rimozione della patologia, cui l’intervento doveva essere funzionale, e senza che, dopo la sua esecuzione, si prescrivesse la terapia riabilitativa parimenti necessaria per il suo successo.
A causa di questo duplice comportamento omissivo, l’esecuzione dell’intervento è risultata inutile, nonostante la correttezza della tecnica impiegata per eseguirlo, e ciò è stato percepito sia dal primo giudice che dal secondo, i quali vi hanno anche ravvisato una condotta di inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria.
I giudici di merito, però, pur avendo ravvisato una condotta inadempiente, non l’hanno esattamente apprezzata ai fini della causazione del danno.
Hanno dato rilievo solo alla circostanza che non era peggiorata la situazione patologica su cui l’intervento era stato eseguito e al fatto che, pertanto, mancava un danno alla sfera fisica della ricorrente, sotto il profilo di una diminuzione della sua condizione fisica rispetto a quella che essa, a causa della limitazione derivante dalla patologia, aveva prima dell’intervento (danno non patrimoniale alla persona quanto alla sfera dell’integrità fisica), ed un danno consequenziale alla capacità patrimoniale della medesima (in quanto correlata alla condizione fisica pregressa all’intervento e gravata dalla patologia).
Ma in tal modo hanno del tutto trascurato che l’esecuzione dell’intervento, pur corretta nelle sue modalità, a cagione del comportamento omissivo preparatorio e di quello successivo inerente alla prescrizione della riabilitazione, si era concretata in una ingerenza nella sfera psico-fisica della F. del tutto inutile e come tale priva di giustificazione, perché oggettivamente inidonea e non finalizzata all’eliminazione della patologia. E, dunque, del tutto priva di corrispondenza alla lex artis sanitaria riguardo alla tipologia di intervento eseguita e, pertanto, non considerabile come condotta di adempimento corretto dell’obbligazione assunta dalla struttura.
Obbligazione che comprendeva certamente, per quanto accertato dal c.t.u. e condiviso dagli stessi giudici di merito, sia l’esecuzione delle attività preparatorie indispensabili per la riuscita dell’intervento sia l’esecuzione delle attività riabilitative o la prescrizione alla F. di doverle eseguire.
La condotta di inadempimento ravvisabile in questi due comportamenti omissivi ha determinato un c.d. danno evento, rappresentato dall’essersi verificata un’ingerenza nella sfera psico-fisica della F. del tutto ingiustificata e non giustificata dal consenso da essa data all’intervento, che, evidentemente, ineriva ad un’esecuzione conforme alla lex artis, in quanto comprendente le condotte omesse, attesa la loro indefettibilità per la consecuzione della guarigione. In tal modo, ex ante rispetto all’intervento, cioè all’ingerenza, la guarigione non appariva in alcun modo verificabile, mentre l’intervento era stato richiesto per conseguirla.
L’intervento, configurandosi come votato all’insuccesso, è risultato inutile e, dunque, privo di giustificazione, così realizzando una lesione per ingerenza sulla sfera psico-fisica della F. del tutto ingiustificata.
Tale lesione si è concretata certamente in un danno c.d. conseguenza, che si identifica:
a) sia nella menomazione delle normali implicazioni dell’agire della persona e, quindi, nella relativa sofferenza per la detta privazione, per tutto il tempo preparatorio dell’intervento, durante quello necessario per la sua esecuzione e durante quello occorso per la fase postoperatoria: è palese che, per il tempo della durata di questi accadimenti, la F. si è trovata a subire menomazioni al suo agire, derivanti dall’ingerenza sulla sua persona, che si sono concretate, per la loro attitudine limitativa delle normali esplicazioni dell’agire, in una invalidità totale e/o parziale e, dunque, come tali da esse si debbono considerare come danno non patrimoniale alla persona;
b) sia nella sofferenza notoriamente ricollegabile alla successiva percezione dell’esito non risolutivo dell’intervento: sofferenza che, alla stregua delle note sentenze delle Sezioni Unite c.d. di San Martino, si concretò anch’essa in lesione della sfera psico-fisica della F. .
L’esistenza di questi danni-conseguenza è stata illegittimamente negata e, pertanto, la sentenza è erronea, là dove non li ha riconosciuti e non ha proceduto alla loro liquidazione e quantificazione.
Il motivo è, pertanto, accolto sulla base del seguente principio di diritto: “in tema di responsabilità sanitaria, qualora un intervento operatorio, sebbene eseguito in modo conforme alla lex artis e non determinativo di un peggioramento della condizione patologica che doveva rimuovere, risulti, all’esito degli accertamenti tecnici effettuati, del tutto inutile, ove tale inutilità sia stata conseguente all’omissione da parte della struttura sanitaria dell’esecuzione dei trattamenti preparatori a quella dell’intervento, necessari, sempre secondo la lex artis, per assicurarne l’esito positivo, nonché dell’esecuzione o prescrizione dei necessari trattamenti sanitari successivi, si configura una condotta della struttura che risulta di inesatto adempimento dell’obbligazione. Essa, per il fatto che l’intervento si è concretato un una ingerenza inutile sulla sfera psico-fisica della persona, si connota come danno evento, cioè lesione ingiustificata di quella sfera, cui consegue un danno-conseguenza alla persona di natura non patrimoniale, ravvisabile sia nella limitazione e nella sofferenza sofferta per il tempo occorso per le fasi preparatorie, di esecuzione e postoperatorie dell’intervento, sia nella sofferenza ricollegabile alla successiva percezione della inutilità dell’intervento”.
Il giudice di rinvio procederà a decidere applicando tale principio.
Inoltre, è palese che, ove le allegazioni e le risultanze probatorie esistenti già in atti, evidenziassero che durante la fase preparatoria, di esecuzione e postoperatoria, la F. avesse subito danni patrimoniali in ragione di una invalidità temporanea ricollegata a tali attività, il giudice di rinvio dovrà tenerne conto. La stessa cosa dicasi di eventuali ulteriori danni patrimoniali ricollegabili all’ingerenza inutilmente subita, siccome apprezzabile come “tempo perso” per intervenire risolutivamente.
3. Con il secondo motivo si denuncia “violazione degli artt. 1223, 2059 e 2043 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. – ingiusta ed illegittima esclusione del danno da chance dalla classificazione dei dani in danni patrimoniali e non patrimoniali come stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione”.
Sul presupposto che nell’atto di appello era stata chiesta la liquidazione del danno da perdita di chance, la cui sussistenza era stata accertata dal primo giudice, ma non ritenuta liquidabile perché a suo dire non era stato chiesto quel danno, mentre esso doveva reputarsi compreso nell’ampia formula di “risarcimento di tutti i danni” “conseguenti alla omessa prestazione sanitaria di preparazione all’operazione di stabilizzazione della spalla, oltreché successivo a questa per la omessa gravemente colposa non prescritta cura riabilitativa”, si critica la motivazione della sentenza impugnata, là dove essa ha rigettato l’appello così motivando: “per quanto riguarda la “ritenuta mancata inclusione” del danno da chance nella domanda di riconoscimento in liquidazione dei danni proposta in primo grado, l’appellante sostiene che, nell’ambito della domanda, così come proposta in primo grado nei termini riportati in narrativa, avrebbe dovuto ritenersi compresa anche la richiesta di liquidazione del danno da perdita di chance. Anche tale doglianza è infondata. La S.C. ha avuto modo di chiarire, sullo specifico punto, che la perdita per il paziente della chance di conseguire un risultato utile in conseguenza di una prestazione sanitaria, configura una voce di danno che va commisurato alla perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo e non alla mera perdita del risultato stesso e che la relativa domanda è comunque domanda diversa rispetto a quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato (Cass. n. 4400/2004)”.
3.1. Il motivo è fondato nei termini che seguono.
Il principio di diritto di cui a Cass. n. 4400 del 2004, pur confermato da Cass. n. 21245 del 2012, è stato successivamente superato da Cass. n. 7193 del 2015, secondo cui: “In tema di responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, a differenza di quella che indichi specifiche e determinate voci, sicché, pur quando in citazione non vi sia alcun riferimento, si estende anche al lucro cessante (nella specie, perdita di “chance” lavorativa), la cui richiesta non può, pertanto, considerarsi domanda nuova, come tale inammissibile”.
Il Collegio intende dare continuità a tale principio di diritto, che correttamente si rifiuta di considerare come una domanda diversa, l’invocazione del danno da perdita di chance, essendo tale perdita solo una componente dell’unico diritto al risarcimento del danno insorto dall’illecito e bastando la formulazione con cui nella domanda si chieda il risarcimento di tutti i danni a comprenderlo, altro essendo il problema dell’individuazione e, quindi, dell’allegazione dei fatti costitutivi di questa tipologia di danni, che, evidentemente, possono e debbono essere specificamente allegati nell’atto introduttivo, ma anche, in una situazione di incertezza, emergere dall’espletamento dell’istruzione, specie se avvenuta mediante consulenza tecnica.
La Corte territoriale nella sua motivazione ha dato rilievo al principio di diritto risalente alla sentenza del 2004 e, dunque, per tale ragione ha errato.
D’altro canto, è vero che nella sua motivazione ha, poi, osservato che “nella fattisp2cie, con la sua citazione introduttivo del presente giudizio, l’attuale appellante non ha fatto alcun riferimento neppure in via alternativa o subordinata al danno da perdita di chance, sicché correttamente il tribunale ha escluso di poter prendere in esame la domanda di risarcimento del danno subito dalle specifico profilo”.
Senonché, tale affermazione risulta dipendente dall’applicazione del suddetto principio di diritto ed evidenzia solo che è stata censurata la mancanza di un espresso riferimento nella citazione introduttiva di un riferimento alla chance, che, dunque, avrebbe dovuto essere aggiuntivo alla richiesta di tutti i danni.
L’affermazione, non considerata direttamente dalla ricorrente, non sottende, tuttavia, o almeno non in modo chiaro, che la prospettazione della citazione in ordine alla narrazione dei fatti palesasse allegazioni di circostanze evidenziatrici di danno da perdita di chance, come tali qualificabili dal giudice. E nemmeno si sa, d’altro canto, se la consulenza tecnica le avesse fatte emergere.
In tale situazione il relativo accertamento competerà al giudice di rinvio.
4. Con il terzo motivo si denuncia “violazione dell’art. 345 e 196 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. – negata ammissibilità del deposito della cartella clinica relativa al secondo intervento chirurgico subito dalla ricorrente in data 14/12/2009 omessa ingiusta rinnovazione delle indagini mediche – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.”.
La denunciata violazione sarebbe stata commessa dalla Corte territoriale con la seguente motivazione, che si coglie nell’incipit dei “motivi della decisione”: “rileva innanzitutto il Collegio che la parte appellante deve formulare tutte le sue censure con l’atto d’appello e nulla può giungere nel prosieguo del giudizio perché, in forza della regola della specificità dei motivi, con tale atto consuma definitivamente il diritto di impugnazione, fissando il limite di devoluzione della controversia in sede di gravame (Cass. 11386/1999; Cass. 578/1993). Le comparsa conclusionali, in particolare, hanno solo bisogno di illustrare le conclusioni già precisate e quindi motivi di appello già proposti e, pertanto, non possono contenere motivi o argomenti di impugnazione nuovi o riferiti a fatti diversi o a nuovi documenti né, rispetto a questi, se proposti, può ipotizzarsi un’accettazione del contraddittorio ad opera delle controparti (cfr. ex plurimis: Cass. 982/1989; Cass. 1584 1987). Da ciò si desume che, poiché il mezzo (la comparsa conclusionale) non è idonea a contenere altro che l’illustrazione dei motivi di appello già presentati, ove con detta comparsa conclusionale siano stati introdotti nuovi motivi o nuove domande, non è necessaria neppure un’espressa statuizione di inammissibilità per novità degli stessi, potendo (e anzi dovendo) il giudice limitarsi ad ignorarle senza con ciò incorrere alla violazione dell’articolo 112 c.p.c. (Cass. 11175/2002; Cass. 16582/2005; Cass. 5478/2006)”.
Vi si deduce che con tale motivazione la Corte territoriale avrebbe negato l’ammissibilità della produzione cartella clinica dell’Ospedale di (OMISSIS) attestante il secondo risolutivo intervento subito dalla ricorrente nel dicembre del 2009. La produzione era stata effettuata con la conclusionale del 19 ottobre 2012 e la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che la data di formazione del documento era successiva alla scadenza del termine utile per il deposito dei documenti e non ne avrebbe valutato “l’utilità e la indispensabilità ai fini della decisione (…) per la sussistenza di un danno diverso da quello per perdita di chance di guarigione”.
4.1. Il motivo è inammissibile.
Che con la motivazione sopra riportata la Corte territoriale abbia inteso riferirsi alla produzione della cartella clinica non lo si comprende in alcun modo, dato che essa non vi fa alcun riferimento e considerato che, se è vero che ragiona genericamente anche di documenti, prosegue alludendo all’essere deputata la conclusionale ad illustrare s”lo i motivi già presentati. Non solo: tutti i precedenti citati riguardano l’introduzione di motivi nuovi e non le nuove produzioni documentali.
In tale situazione, l’assoluta mancanza di riferimenti alla cartella, coniugata con il riferimento ai motivi, induce a ritenere che in alcun modo la Corte partenopea si sia occupata di considerare se la cartella si potesse considerare producibile. In pratica, la motivazione di cui si è detto sembra alludere ad un problema di novità di motivi, come, del resto, rivela il riferimento all’art. 112 cod. proc. civ..
La questione della ritualità della produzione resterà esaminabile dal giudice di rinvio.
Quanto osservato rende irrilevante anche in questo caso l’eccezione di inammissibilità formulata dalla resistente per difetto di a utosufficienza.
5. Conclusivamente, sono accolti per quanto di ragione il primo ed il secondo motivo, è dichiarato inammissibile il terzo. La sentenza è cassata in relazione alle ragioni di accoglimento dei primi due motivi, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli, comunque in diversa composizione. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso. Dichiara inammissibile il terzo. Cassa la sentenza in relazione e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
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