Corte di Cassazione, sezione III civile, ordinanza 18 maggio 2017, n. 12495

La responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetti escusivamente all’ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281/1991) il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi.
L’attribuzione per legge ad uno o più determinati enti pubblici del compito della cattura e della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e privi di proprietario) può infatti considerarsi il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche sotto l’aspetto della responsabilità civile.
Non può invece ritenersi sufficiente, a tal fine, l’attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo, e a maggior ragione di semplici compiti di controllo delle nascite della popolazione canina e felina.
Tali ultimi competenze, in particolare, non possono ritenersi direttamente riferibili alla prevenzione dello specifico rischio per l’incolumità della popolazione derivante dalla eventuale pericolosità degli animali randagi, e non possono quindi fondare una responsabilità civile per i danni da questi ultimi arrecati, avendo ad oggetto il solo controllo “numerico” della popolazione canina, a fini di igiene e profilassi e, al più, una solo generica e indiretta prevenzione dei vari inconvenienti legati al randagismo.

Suprema Corte di Cassazione

sezione III civile

ordinanza 18 maggio 2017, n. 12495

Fatti di causa

N.E. e S.A. , quali genitori rappresentanti della minore N.S. (divenuta maggiorenne in corso di causa), hanno agito in giudizio nei confronti del Comune di Gela e della A.S.L. n. X (oggi A.S.P.) di (omissis) per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalla figlia, aggredita e ferita da due cani randagi in data (omissis) .
La domanda è stata accolta dal Tribunale di Gela, che ha condannato sia il comune che la ASL al pagamento dell’importo di Euro 5.680,97, oltre accessori, in favore di parte attrice.
La Corte di Appello di Caltanissetta ha confermato la decisione di primo grado.
Ricorre la ASP di (omissis) , sulla base di due motivi.
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati. Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380-6/5.1 c.p.c..
Il collegio ha disposto che sia redatta motivazione in forma semplificata.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Errata interpretazione della normativa vigente in materia. Violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. – Error in procedendo. Errata valutazione della condotta dell’ASP – Error in judicando”.
Il motivo è fondato.
L’azienda ricorrente denunzia la violazione dell’art. 14 della legge della Regione Sicilia 3 luglio 2000 n. 15 (attuativa della legge quadro nazionale 14 agosto 1991 n. 281), che attribuisce ai comuni (singoli o associati, eventualmente in convenzione con enti, privati o associazioni protezionistiche) il servizio di cattura dei cani randagi ed il loro affidamento a rifugi sanitari pubblici (che gli stessi comuni hanno l’obbligo di ristrutturare o realizzare) o privati convenzionati (con previsione di espresso divieto, per chiunque non sia addetto al servizio, di procedere alla cattura dei cani randagi).
Richiama in proposito anche altre disposizioni normative, che non possono ritenersi direttamente rilevanti, in quanto successive ai fatti, ma che comunque risultano in linea con le previsioni della citata legge regionale del 2000 (art. 2 del D. Pres. Reg. 12 gennaio 2007 n. 7 – regolamento esecutivo della legge regionale n. 15/2000; Decreto dell’Assessore alla Sanità della Sicilia 13 dicembre 2007, pubblicato in G.U.R.S. n. 4 del 25 gennaio 2008).
Sostiene che, poiché in base alle disposizioni normative richiamate ad essa sono affidati esclusivamente compiti specialistici di natura sanitaria (peraltro a suo dire correttamente adempiuti), e non la cattura e la custodia dei cani randagi e vaganti, non potrebbe configurarsi una sua diretta responsabilità per i danni causati alla popolazione da tali animali.
La corte di appello ne ha invece affermato la responsabilità in base all’art. 18 della citata legge regionale n. 15/2000, che attribuisce alla competenza della ASL gli interventi relativi al controllo delle nascite della popolazione felina e canina. Da tale norma ha fatto discendere una generale competenza di detta azienda, unitamente al comune, in ordine alla prevenzione del randagismo, e quindi la responsabilità solidale dei due enti per i danni causati dai cani randagi.
Ritiene, al contrario, la Corte (in tal senso confermando e puntualizzando, per quanto occorra, i principi di diritto sostanzialmente già enunciati nei più recenti precedenti in materia: cfr., in particolare, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17528 del 23/08/2011, Rv. 619444 – 01 e Sez. 3, Sentenza n. 10190 del 28/04/2010, Rv. 612762 – 01) che la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetti escusivamente all’ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281/1991) il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi.
L’attribuzione per legge ad uno o più determinati enti pubblici del compito della cattura e della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e privi di proprietario) può infatti considerarsi il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche sotto l’aspetto della responsabilità civile.
Non può invece ritenersi sufficiente, a tal fine, l’attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo, e a maggior ragione di semplici compiti di controllo delle nascite della popolazione canina e felina.
Tali ultimi competenze, in particolare, non possono ritenersi direttamente riferibili alla prevenzione dello specifico rischio per l’incolumità della popolazione derivante dalla eventuale pericolosità degli animali randagi, e non possono quindi fondare una responsabilità civile per i danni da questi ultimi arrecati, avendo ad oggetto il solo controllo “numerico” della popolazione canina, a fini di igiene e profilassi e, al più, una solo generica e indiretta prevenzione dei vari inconvenienti legati al randagismo.
Poiché la legge quadro statale n. 281/1991 non indica direttamente a quale ente spetta il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso.
Laddove – come avviene per la Regione Sicilia, alla stregua delle previsioni normative sopra richiamate – il compito di cattura dei randagi e di custodia degli stessi nelle apposite strutture sia attribuito esclusivamente ai comuni, mentre alla ASL siano attribuiti semplici compiti di generale controllo della popolazione canina (ma senza alcuna competenza in relazione alla cattura e custodia di tali animali) deve escludersi una responsabilità della ASL e affermarsi solo quella del comune, per i danni causati dai cani randagi alla popolazione.
Nel caso di specie, inoltre, deve altresì considerarsi che dalla stessa motivazione della sentenza impugnata emerge che un veterinario della ASL, due giorni prima del fatto posto a base della domanda di parte attrice, era intervenuto nella zona, essendo stata segnalata la presenza di cani randagi potenzialmente pericolosi, e aveva redatto un verbale in cui ne proponeva la cattura al comune. Quindi, anche in concreto, risulta che effettivamente la ASL aveva posto in essere tutte le attività preventive che era legittimata a svolgere, nell’ambito delle proprie competenze, per evitare il danno.
Il ricorso va pertanto accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., con l’accoglimento dell’appello proposto dalla ASP ed il rigetto della domanda proposta dall’attrice nei suoi confronti.
L’accoglimento del gravame comporta la necessità di provvedere nuovamente alla regolamentazione delle spese dell’intero giudizio, con conseguente assorbimento del secondo motivo del ricorso (con il quale è denunziata “ingiusta condanna alle spese di giudizio”).
Ritiene peraltro la Corte che sussistano motivi tali da giustificare, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., (nella formulazione della disposizione applicabile ratione temporis), l’integrale compensazione di dette spese, sia con riguardo al giudizio di merito che a quello di legittimità, in considerazione delle oggettive incertezze applicative emerse in giurisprudenza con riguardo alle questioni trattate.
2. Il ricorso è accolto.
La sentenza impugnata è cassata in relazione, e la causa è decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., con il rigetto – in parziale riforma della decisione di primo grado della domanda proposta nei confronti della ASL n. X (oggi ASP) di (omissis) .
Le spese dell’intero giudizio, nei rapporti tra parte attrice e
ASP di Caltanissetta, sono integralmente compensate.

P.Q.M.

La Corte:
– accoglie il ricorso e cassa in relazione la sentenza impugnata; decidendo nel merito, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigetta la domanda proposta nei confronti della ASP di (omissis) ;
– dichiara integralmente compensate le spese dell’intero giudizio, di merito e di legittimità, nei rapporti tra parte attrice e ASP di (omissis) .

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