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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza del 22 gennaio 2013, n. 3161

Fatto

1. Con sentenza del 8/11/2005, il giudice monocratico del Tribunale di Agrigento – sezione distaccata di Canicattì – dichiarava F.C. colpevole del reato di maltrattamenti ai danni della moglie C.M. e dei figli minori G. , L. ed A. e lo condannava alla pena di anni uno e mesi due di reclusione oltre al risarcimento dei danni a favore delle costituite parti civili.
2. Con sentenza del 15/11/2009, la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della suddetta sentenza, esclusi i maltrattamenti ai danni dei figli minori, riduceva la pena ad anni uno di reclusione, confermando nel resto l’impugnata sentenza.
3. La Corte di Cassazione, su ricorso proposto dal solo imputato, con sentenza n. 3015/2011 pronunciata all’udienza del 20/12/2010, annullava la sentenza della Corte territoriale per difetto di motivazione. Questa Corte di legittimità, infatti, rilevava che “l’imputato, nei motivi inseriti nell’atto di appello, aveva invero denunziato l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla moglie, poste a fondamento della ricostruzione accusatoria, poiché intrinsecamente non credibili e comunque contraddette dai testi escussi nel corso dell’istruttoria dibattimentale sia con riferimento alle vessazioni che la vedevano come vittima, sia per quanto riguarda i maltrattamenti nei confronti dei loro figli minori. A tali specifiche censure, sorrette dalla dettagliata individuazione e rappresentazione degli elementi a sostegno, non può ritenersi risposta adeguata e logica la testuale sbrigativa argomentazione che le ingiurie e le percosse delle quali la donna era stata vittima erano testimoniate concordemente da moglie, suocera e figli”.
4. Con sentenza del 7/12/2011, la Corte di Appello, decidendo in sede di rinvio, confermava la sentenza pronunciata il 8/11/2005 dal giudice monocratico del Tribunale di Agrigento – sezione distaccata di Canicattì.
5. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
5.1. violazione dell’art. 597/3 cod. proc. pen. per avere la Corte territoriale pronunciato una sentenza in violazione del principio del divieto della reformatio in peius.
Il ricorrente, infatti, rileva che il capo della sentenza pronunciata il 15/11/2009 con il quale la Corte di Appello lo aveva assolto dal reato di maltrattamenti ai danni dei figli minori, doveva ritenersi passato in giudicato non essendo stato impugnato dalla Procura Generale. Di conseguenza, la Corte, in sede di rinvio, avrebbe dovuto pronunciarsi solo sui maltrattamenti alla C. sicché, quand’anche avesse ritenuto di confermare, sul punto, la sentenza del Tribunale, non avrebbe potuto confermarla in punto di pena, in quanto la medesima comprendeva i maltrattamenti ai danni sia della C. che dei figli minori tant’è che era superiore (anni uno e mesi due di reclusione) a quella inflitta dalla Corte di Appello in data 15/11/2009 (anni uno di reclusione).
5.2. violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. per non avere la Corte territoriale disposto la riapertura del dibattimento al fine di verificare l’idoneità mentale a rendere testimonianza della C. nonché dei minori F.L. e G. Il ricorrente, sul punto, rileva che la Corte territoriale non avrebbe preso in esame la prodotta relazione del 9/05/2006 del Consultorio familiare della Ausl n. (…) di Caltanisetta nella quale si dava atto che la C. aveva una personalità emotiva, scarsamente autonoma e psicologicamente poco evoluta. Il ricorrente, poi, censura l’impugnata sentenza anche nella parte in cui aveva ritenuto di potere utilizzare le dichiarazioni rese dai minori solo perché non sarebbero incorsi in macroscopiche contraddizioni.
5.3. violazione degli artt. 192-194 cod. proc. pen. per non avere la Corte territoriale rilevato che la parte offesa, costituitasi parte civile, era portatrice di interessi anche economici e, quindi, non attendibile. Il ricorrente rileva che, essendo stato accertato che egli non aveva mai maltrattato i figli minori, di conseguenza non poteva darsi credito alle dichiarazioni della moglie sulla base delle cui dichiarazioni era stato imputato di maltrattamenti nei confronti dei figli.
5.4. illogicità della motivazione: il ricorrente sostiene che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, il compendio istruttorio posto alla base della sentenza di condanna sarebbe carente e contraddicono in quanto la Corte non avrebbe ben valutato le testimonianze di numerosi testi che avevano reso dichiarazioni a lui favorevoli (C.M.G. ; B.R. ; N..A. ; M.E..F. ; C.P.P. ; V..A. ; D..C. ; Don S.A.R. ; M..F. ). D’altra parte, gli stessi figli minori avevano mostrato un sincero e forte legame con il padre con cui hanno dichiarato di stare bene. Insomma, da tutte le testimonianze emergeva un quadro opposto a quello frutto dell’interpretazione del primo giudice avallata dalla Corte di Appello che non consentiva di ritenere raggiunta la prova dei maltrattamenti.

Diritto

1. violazione dell’art. 597/3 cod. proc. pen.: la doglianza è fondata per le ragioni indicate dal ricorrente.
In effetti, posto che la Corte di Appello, con la sentenza del 15/11/2007, aveva assolto l’imputato dal reato di maltrattamenti ai danni dei figli minori, e, il suddetto capo non era stato impugnato, non poteva la Corte, in sede di rinvio, confermare quella stessa pena che il Tribunale aveva inflitto per la condanna sia nei confronti della moglie che dei figli.
Sul punto, deve quindi darsi continuità a quella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il divieto della “reformatio in pejus” opera anche nel giudizio di rinvio e si estende a tutti gli eventuali, ulteriori giudizi di rinvio, nel senso che la comparazione fra sentenze, necessaria all’individuazione del trattamento meno deteriore, deve essere eseguita tra quella di primo grado e quelle rese in detti giudizi, restando immodificabile “in pejus” l’esito più favorevole tra quelli intervenuti a seguito di esclusiva impugnazione dell’imputato: in terminis Cass. 34557/2009 riv 245234; Cass. 38820/2008 riv 242119.
Al suddetto errore ritiene, però, di poter rimediare questa Corte di legittimità ex art. 620 lett. l) cod. proc. pen. nei termini di seguito indicati.
Come si è detto, il giudice di primo grado aveva inflitto all’imputato la pena di anni uno e mesi due di reclusione di cui mesi due per i maltrattamenti ai danni dei figli. La Corte territoriale, con la sentenza del 15/11/2009, nell’assolvere l’imputato dal reato nei confronti dei figli, aveva ridotto la pena ad anni uno, eliminando, quindi, la continuazione di mesi due per i reati ai danni dei figli. Di conseguenza, avendo la Corte territoriale, nella sentenza pronunciata in sede di rinvio ed oggi impugnata, confermato la sentenza di primo grado (quanto ai maltrattamenti ai danni della moglie), la pena non poteva che essere di anni uno.
2. violazione dell’art. 603 cod. proc. pen.: la censura è manifestamente infondata.
In punto di fatto, va, innanzitutto osservato che la Corte territoriale ha disatteso la suddetta doglianza rilevandone la genericità “per l’omessa specificazione del tipo di patologia dalla quale sarebbero affette le due testi (ndr: la C. e sua madre P.F. ), cosa per nulla secondaria se tiene conto del fatto che il rilievo proviene dall’imputato il quale per la qualificazione professionale e la preparazione specifica di medico, avrebbe dovuto rendersi conto dello stato morboso delle due congiunte e poterne riferire, se non prendere anche dei provvedimenti terapeutici”.
In punto di diritto, questa Corte (Cass. 14/03/2012, Romito ed altri), in ordine alla problematica dedotta dal ricorrente, ha rilevato “che il vigente ordinamento processuale penale esige che chiunque partecipi al processo e vi renda dichiarazioni, sia esso teste o imputato, deve avere la capacità di comprendere il significato delle dichiarazioni che rende. Infatti, da una parte, l’art. 70 cod. proc. pen. dispone che, ove l’imputato non sia in grado di partecipare coscientemente al processo, il giudice deve disporre, anche d’ufficio, perizia, e dall’altra, l’art. 196 cod. proc. pen. – relativamente ai testimoni – detta una disciplina parallela, disponendo che il giudice qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificare l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza, anche d’ufficio, può ordinare gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge”.
Questa Corte, in relazione all’art. 196 cod. proc. pen., ha ritenuto che l’idoneità a rendere testimonianza è concetto diverso, e di maggior ampiezza, rispetto a quello della capacità di intendere e di volere, implicando non soltanto la necessità di determinarsi liberamente e coscientemente, ma anche quella di discernimento critico del contenuto delle domande al fine di adeguarvi coerenti risposte, di capacità di valutazione delle domande di natura suggestiva, di sufficiente capacità mnemonica in ordine ai fatti specifici oggetto della deposizione, di piena coscienza dell’impegno di riferire con verità e completezza i fatti a sua conoscenza. Ne consegue che l’obbligo di accertamento della capacità di intendere e di volere ai fini del disposto dell’art. 196 cod. proc. pen. non deriva da qualsivoglia comportamento contraddittorio, inattendibile o immemore del teste, ma sussiste soltanto in presenza di una situazione di abnorme mancanza in lui di ogni elemento sintomatico della sua assunzione di responsabilità comportamentale in relazione all’ufficio ricoperto: Cass. 20864/2010 riv 247407; Cass. 2993/1997 riv 207225.
Questa breve digressione, consente, quindi, di affermare che, nel processo penale la capacità del teste o dell’imputato di rendere dichiarazioni non va valutata in astratto ma in concreto, sicché il divieto di assumere le dichiarazioni dei medesimi scatta solo quando il giudice abbia concreti elementi per stabilire che il teste o l’imputato – in considerazione dell’accertato stato psico fisico che non consente loro di partecipare liberamente e coscientemente al processo – siano assolutamente incapaci di rendere qualsivoglia dichiarazione.
Al contrario, deve ritenersi che, se uno dei suddetti soggetti risulti affetto da una qualche patologia psichiatrica che non lo renda però incapace, pur essendo indubbio che le sue dichiarazioni debbano essere valutate e vagliate in modo particolarmente rigoroso, ciò non significa che, ove le medesime – all’esito del consueto processo cui, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, le dichiarazioni accusatorie devono essere sottoposte: ex plurimis Cass. 4888/2000; Cass. 15756/2002; Cass. 31442/2006 – vengano riscontrate e cioè ritenute attendibili, il giudice non le possa utilizzare.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha valutato la personalità della C. ed ha ritenuto che la medesima non presentasse alcuna sintomatologia tale da far dubitare delle sue facoltà mentali. E, tale giudizio, essendo stato effettuato alla stregua delle lucide, coerenti e costanti dichiarazioni rese dalla suddetta parte offesa, non si presta ad alcuna censura in questa sede di legittimità, tanto più che lo stesso ricorrente, al di là che ribadire – in modo tralaticio – una pretesa incapacità della C. , non ha saputo illustrare le ragioni per le quali il suo narrato dovrebbe essere il frutto di una qualche patologia. È appena il caso di aggiungere che la invocata relazione del consultorio familiare non evidenzia alcuna patologia degna di nota se non un disagio psicologico della C. , disagio del quale la stessa Corte ne ha dato ampiamente atto attribuendolo, in modo logico e coerente, oltre che alle condizioni culturali e sociali, ad anni di maltrattamenti (cfr pag. 7-8 sentenza impugnata).
La reiezione della suddetta censura comporta anche la reiezione della doglianza con la quale il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 192-194 cod. proc. pen. (supra motivo sub 5.3.) in quanto, come si è già detto, la Corte ha ampiamente motivato sull’attendibilità della C. (pag. 8-9 sentenza impugnata).
3. illogicità della motivazione: anche la suddetta doglianza è manifestamente infondata.
Il ricorrente, sostanzialmente, sostiene che la Corte non avrebbe ben valutato il compendio probatorio in atti che non consentiva di ritenere provata la commissione del reato.
In realtà, la motivazione sul punto è amplissima in quanto la Corte territoriale, in circa venti pagine, prende in esame tutte le dichiarazioni testimoniali (sia quelle di accusa che della difesa), le valuta una per una e, alla fine, con un ragionamento logico, congruo ed adeguato agli evidenziati elementi fattuali (molti dei quali costituiscono riscontro oggettivo alle dichiarazioni della C.P. e a quelle della di lei madre P.F. : cfr pag. 8), giunge alla conclusione della colpevolezza dell’imputato.
In questa sede, il ricorrente non fa altro che riproporre, in modo tralaticio la sua tesi difensiva ma senza evidenziare alcuno dei vizi motivazionali deducibili in sede di legittimità.
Infatti, le censure vanno ritenute null’altro che un modo surrettizio di introdurre, in questa sede di legittimità, una nuova valutazione di quegli elementi fattuali già ampiamente presi in esame dalla Corte di merito la quale, con motivazione logica, priva di aporie e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, ha puntualmente disatteso la tesi difensiva. Pertanto, non essendo evidenziabili alcuna delle pretese incongruità, carenze o contraddittorietà motivazionali dedotte dal ricorrente, la censura, essendo incentrata tutta su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, di mero merito, va dichiarata inammissibile.
In altri termini, le censure devono ritenersi manifestamente infondate in quanto la ricostruzione effettuata dalla Corte e la decisione alla quale è pervenuta deve ritenersi compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune Cass. n. 47891/2004 rv 230568; Cass. 1004/1999 rv 215745; Cass. 2436/1993 rv 196955.
Sul punto va, infatti ribadito che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze: ex plurimis SSUU 24/1999.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio che ridetermina in anni uno di reclusione.
Rigetta il ricorso.

Depositata in Cancelleria il 22.01.2013

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