Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 2 dicembre 2013, n. 26991
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 9-9-1998 C.M.G. conveniva dinanzi al Tribunale di Chiavari M.S. , esponendo che in data 2-1-1998 era deceduto C.B., lasciando quali eredi ab intestato l’attrice e gli altri fratelli G. , R. e F. , nonché i nipoti F.D. e F.R.B. , per rappresentazione della quinta sorella premorta. L’attrice, nel rilevare di aver diritto a un quinto dell’asse ereditario, costituito da lire 400.000.000 in titoli e lire 23.087.220 sul conto corrente, faceva presente che i beni del defunto erano nelle mani della nipote M.S. , formalmente cointestataria del deposito titoli e del conto corrente insieme al de cuius, la quale, in relazione ai suoi diritti ereditari, le aveva corrisposto solo la somma di lire 37.500.000. Tanto premesso, essa chiedeva che, accertato l’ammontare dell’asse ereditario, il giudice adito condannasse la convenuta a corrisponderle quanto ancora dovuto della sua quota.
Nel costituirsi, M.S. contestava la fondatezza della domanda, sostenendo che quanto depositato sul conto corrente e sul deposito titoli doveva presumersi per il 50% come di sua appartenenza, ai sensi dell’art. 1298 c.c.; in subordine, deduceva che l’intestazione del conto corrente doveva essere considerata come un atto di liberalità del defunto, e come una ricompensa per tutti gli anni in cui essa lo aveva ospitato in casa sua. La convenuta, inoltre, faceva presente che il saldo finale del deposito titoli e del conto corrente, al momento della morte di C.B. , era di lire 268.000.000, in quanto il de cuius le aveva concesso di prelevare per liberalità la somma di lire 150.000.000, che era stata investita in un fondo a lei sola intestato.
Disposta dal giudice l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli eredi di C.B. , si costituivano C.F. e C.G. , chiedendo il rigetto della domanda attrice.
Con sentenza in data 13-6-2002 il Tribunale accertava che l’asse ereditario di C.B. ammontava a lire 400.486.360; determinava il valore della quota ereditaria spettante a C.M.G. in lire 80.097.272; condannava M.S. a corrispondere all’attrice la somma di Euro 18.625,33.
Avverso la predetta decisione proponeva appello M.S. .
Con sentenza in data 18-11-2006 la Corte di Appello di Genova rigettava il gravame.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso M.S. , sulla base di otto motivi.
Ha resistito con controricorso C.M.G. , mentre gli altri intimati non hanno svolto attività difensive.
La ricorrente ha depositato una memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 primo e secondo comma c.c., nonché la carenza e insufficienza della motivazione, in relazione all’interpretazione della clausola apposta ai contratti bancari cointestati, che prevedeva la facoltà di disposizione disgiunta. Deduce che la Corte di Appello, condannando la convenuta alla restituzione delle somme prelevate, non ha tenuto conto della volontà delle parti, di disporre l’una indipendentemente dall’altra delle giacenze esistenti sul conto. Tale volontà si desumeva chiaramente dalle parole usate nella clausola contrattuale ed è confermata dal comportamento tenuto dalle parti anche successivamente alla conclusione del contratto, avendo la ricorrente disposto delle somme in modo del tutto pacifico ed incontestato.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia il vizio di omessa motivazione. Sostiene che la Corte di Appello, condannando l’opponente a restituire quanto prelevato, ha deciso la questione controversa come se fosse inesistente o inefficace la pattuizione del contratto di conto corrente bancario che prevedeva la facoltà di disposizione disgiunta delle somme versate, consentendo a ciascuno p dei cointestatari di eseguire sul conto comune prelevamenti parziali o totali.
Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 1298 secondo comma c.c.. Nel rilevare che, a norma della menzionata disposizione di legge, la cointestazione di un conto corrente comporta la presunzione relativa di uguaglianza delle parti di ciascuno, sostiene che tale presunzione riguarda solo il saldo esistente sul conto corrente, non essendo finalizzata ad inibire ogni facoltà dei contestatari di disporre delle somme depositate. La Corte di Appello, pertanto, ha errato nell’applicare la previsione in esame non già alle somme giacenti sul conto al tempo dell’apertura della successione, ma a tutto il rapporto di conto corrente, come svoltosi nel tempo, consentendo la ripetizione delle somme di cui la ricorrente in passato aveva disposto in forza dell’apposita pattuizione che a ciò la abilitava.
Con il quarto motivo la M. lamenta l’insufficiente motivazione in ordine al ritenuto superamento della presunzione di uguaglianza delle quote dei condebitori e concreditori solidali, di cui all’art. 1298 secondo comma c.c.. Sostiene che la Corte di Appello ha individuato in via presuntiva nel patrimonio del de cuius la provenienza di tutto il denaro transitato sul conto, attribuendo con una formula di stile i caratteri di univocità, gravità, precisione e concordanza ad elementi sforniti di tali qualifiche, e non considerando, al contrario, circostanze di segno diverso evidenziate dall’appellante, quali la totale mancanza di dati in relazione ad importanti versamenti e la differente situazione reddituale delle parti.
Con il quinto motivo la ricorrente si duole della violazione degli artt. 1417 e 2729 c.c.. Sostiene che la Corte di Appello, nel disattendere le censure proposte al riguardo dall’appellante, ha avallato la valutazione espressa dal Tribunale, secondo cui la somma di lire 155.000.000 risultava essere stata versata in contanti da C.B. in data 10-5-1994, in coincidenza con la stipula dell’atto notarile di vendita di un immobile di cui il predetto era comproprietario. In tal modo, il giudice del gravame ha consentito, in violazione degli artt. 1417 e 2729 comma 2 c.c., il ricorso da parte del successore universale di un contraente alla prova per presunzioni della simulazione del prezzo di una vendita immobiliare: dall’atto pubblico, infatti, risultava il prezzo complessivo di lire 280.000.000, ripartito tra i tre venditori in parti uguali e, quindi, in ragione di lire 93.333.335 ciascuno.
Con il sesto motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., deducendo che la Corte di Appello non ha preso in considerazione situazioni risultanti dagli atti, quali le specifiche condizioni dei contestatari, che avrebbero dovuto far ritenere, date le rispettive e ben diverse fonti di reddito, presumibile la provenienza delle somme di “incerta titolarità” dall’appellante e non dal de cuius. Il giudice del gravame, inoltre, non ha considerato che il fatto stesso delle operazioni effettuate sul conto dalla M. deponeva nel senso della titolarità delle somme anche in capo a quest’ultima.
Con il settimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 809 c.c. e l’insufficiente motivazione, in relazione al rigetto della tesi prospettata in via subordinata dall’appellante, secondo cui la cointestazione del conto corrente era configurabile come una donazione indiretta che lo zio aveva inteso effettuare in suo favore, per averlo essa ospitato ed accudito per anni nella sua abitazione. Rileva che la Corte di Appello, nel disattendere tale prospettazione, ha confuso tra i requisiti tipici della donazione indiretta e del negotium miztun cum donatione. L’appellante, al contrario, aveva fatto riferimento all’istituto della donazione indiretta in primo luogo con riguardo alla stessa contestazione del conto corrente, intesa come negozio a mezzo del quale, mediante un atto diverso dalla donazione, ma riconducibile ad analoga causa di liberalità, si persegue il fine dell’arricchimento altrui In secondo luogo, il principio era stato richiamato in relazione alla “ratifica ex post” effettuata dal C. in merito alle operazioni poste in essere dall’esponente, configurabile anch’essa come donazione indiretta, nella forma di remissione dell’ipotetico debito restitutorio.
Con l’ottavo motivo la ricorrente si duole della contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte di Appello da un lato dato atto che si trattava di una fattispecie di contestazione di conto corrente “a firme disgiunte”, con la conseguente facoltà per entrambi i cointestatari di riscuotere anche separatamente l’intero capitale depositato, e dall’altro condannato l’appellante alla restituzione di quanto prelevato.
2) I primi tre motivi e l’ottavo, che per ragioni di connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.
L’art. 1854 c.c. stabilisce che “nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto”. In base a tale norma, pertanto, ogni cointestatario al quale sia attribuita la facoltà di operare separatamente, è tenuto nei confronti della banca per l’intero (solidarietà passiva) e può, allo stesso modo, pretendere il pagamento dell’intero (solidarietà attiva).
Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, il menzionato art. 1854 c.c. disciplina solo i rapporti tra i correntisti e la banca; laddove il vincolo di solidarietà dei cointestatari del conto, nei rapporti interni, è regolato dall’art. 1298 secondo comma c.c., in base al quale “le parti di ciascuno si presumono eguali, se non risulta diversamente”. Ciò significa non solo che, in mancanza di prova P contraria, le parti si presumono uguali e che il concreditore, nei rapporti interni, non può disporre oltre il 50% delle somme risultanti da rapporti bancari solidali, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, ma anche che, ove risulti provato che il saldo attivo di un rapporto bancario cointestato discenda dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto dei cointestatari, si deve escludere che l’altro cointestatario, nei rapporti interni, possa avanzare diritti sul saldo medesimo (Cass. 9-7-1989 n. 3241; Cass. 22-10-1994, n. 8718; Cass. 19-2-2009 n. 4066).
Il cointestatario di un conto corrente bancario, pertanto, anche se abilitato a compiere operazioni autonomamente, nei rapporti interni non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza.
Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, d’altro canto, non par dubbio che tale limitazione valga in relazione non solo al saldo finale del conto, ma all’intero svolgimento del rapporto, non essendovi ragione per circoscrivere il principio di solidarietà del credito, con le implicazioni ad esso connesse, solo al momento della chiusura del rapporto.
Ciò posto, si osserva che nel caso in esame la Corte di Appello, nel ritenere che M.S. non potesse disporre a proprio beneficio delle somme di pertinenza esclusiva del de cuius, esistenti sul conto corrente cointestato, non è affatto incorsa nei vizi denunciati dalla ricorrente. Le conclusioni cui è pervenuto il giudice del gravame non costituiscono espressione di un’erronea interpretazione della volontà manifestata dalle parti mediante l’attribuzione ai due cointestatari della facoltà di operare disgiuntamente. Esse, al contrario, sono frutto di una corretta applicazione dei principi di diritto innanzi enunciati, che, nella ipotesi considerata, impongono di tenere nettamente distinti il piano del rapporto esterno con la banca e quello del rapporto interno tra i cointestatari. Per le ragioni esposte, infatti, la clausola del contratto di conto corrente bancario cointestato a più persone, che abiliti le medesime a compiere operazioni autonomamente, rileva solo nel primo di detti rapporti, facendo si che ciascun contitolare del conto, con effetti vincolanti anche per gli altri, possa pretendere dalla banca il pagamento per l’intero e impartire ordini per l’intero; laddove, nel rapporto interno tra i titolari del conto, il debito e il credito solidale si dividono in quote uguali, salvo che non risulti diversamente.
3) Il quarto e il sesto motivo sono privi di fondamento.
La Corte di Appello ha fornito adeguata giustificazione delle ragioni per le quali ha ritenuto superata la presunzione legale dell’art. 1298 secondo comma c.c., disciplinante i rapporti interni tra i cointestatari di conto corrente bancario.
Essa ha posto a base del proprio convincimento le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio espletata a riscontro della documentazione bancaria relativa all’intersa durata del rapporto, dalla quale è emerso che tutti i versamenti erano stati effettuati da C.B. mediante somme al medesimo riconducigli; laddove, sul totale di n. 168 di operazioni effettuate, gli unici movimenti imputabili a M.S. erano consistiti in quattro prelevamenti. Tali emergenze, secondo il giudice del gravame, costituiscono elementi “univoci, gravi, precisi e concordanti”, idonei a comprovare che tutte le somme depositate appartenevano al C. .
La valutazione espressa al riguardo dalla Corte territoriale risulta sorretta da una motivazione congruente sul piano logico e rispettosa dei principi di diritto che regolano la prova per presunzioni; prova alla quale, nella fattispecie in esame, poteva farsi legittimamente ricorso, atteso che una presunzione legale “iuris tantum” (quale quella di cui all’art. 1298 comma 2 c.c.), poiché da luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, può essere superata anche attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti (Cass. 19-2-2009 n. 4066; Cass. 1-2-2000 n. 1087).
Orbene, la ricorrente, nel sostenere che la sentenza impugnata ha basato la prova presuntiva su elementi sprovvisti dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza, ed ha invece trascurato altre circostanza a suo parere dotate di tali caratteristiche, attraverso la formale deduzione di violazione di legge e di vizi di motivazione propone sostanziali censure di merito, che mirano ad ottenere una diversa valutazione delle risultanze probatorie rispetto a quella compiuta dal giudice territoriale. In tal modo, peraltro, viene sollecitato a questa Corte l’esercizio di un potere di cognizione esulante dai limiti del sindacato ad essa istituzionalmente riservato.
Come è noto, infatti, spetta solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (Cass. 28-7-2008 n. 20518; Cass. 11-11-2005 n. 22901; Cass. 12-8-2004 n. 15693; Cass. 7-8-2003 n. 11936). L’onere di adeguatezza della motivazione, inoltre, non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni delle parti, né che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da queste svolte. È, infatti, sufficiente che il giudice esponga, anche in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (tra le tante v. Cass. 20-11-2009 n. 24542; Cass. 12-1-2006 n. 407; Cass. 2-8- 2001 n. 10569).
Più in particolare, in materia di presunzioni, è riservata all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito la sussistenza sia dei presupposti per il ricorso a tale mezzo di prova, sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, ovverosia come circostanze idonee a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell'”id quod plerumque accidit”, mentre L’unico sindacato riservato in proposito al giudice di legittimità è quello sulla congruenza della relativa motivazione (tra le tante v. Cass. 12-11-2008 n. 26983; Cass. 4-5-2005 n. 9225; Cass. 8-11-2002 n. 15706; Cass. 2-10-2000 n. 13001); congruenza che nella specie è dato ravvisare nelle ragioni poste a base della decisione impugnata.
4) Il quinto motivo è inammissibile, riguardando una questione che, benché prospettata dall’appellante (come dato atto a pag. 10 della sentenza impugnata), non è stata esaminata dal giudice del gravame e in relazione alla quale, pertanto, la ricorrente non può dolersi della violazione di norme sostanziali, ma avrebbe dovuto eventualmente denunciare carenze motivazionali.
5) Deve essere disatteso, infine, anche il settimo motivo.
La Corte di Appello ha esaminato e ritenuto infondata la tesi prospettata in via subordinata dall’appellante, secondo cui la cointestazione dei conti bancari sarebbe da configurare come un’attribuzione patrimoniale compiuta dal de cuius a titolo di donazione indiretta.
La ricorrente sostiene che la motivazione resa sul punto risulta fondata su una confusione operata tra i requisiti propri della fattispecie della donazione indiretta e quelli tipici del negotium mixtum cum donatione, laddove nell’atto di appello si era fatto riferimento all’istituto della donazione indiretta sia in relazione alla cointestazione del conto corrente, intesa come negozio a mezzo del quale, mediante un atto diverso dalla donazione, ma riconducibile ad analoga causa di liberalità, si persegue il fine dell’arricchimento altrui, sia in relazione alla successiva ratifica, da parte del C. , delle operazioni poste in essere dall’esponente, configurabile anch’essa come donazione indiretta, nella forma di remissione dell’ipotetico debito restitutorio.
Ma, a parte il fatto che dalla lettura della sentenza impugnata (v. pag. 11 e 30) si evince che la tesi della donazione indiretta, intesa come negotium mixtum cum donatione, era stata prospettata dalla stessa appellante, si osserva che, al di là delle ulteriori considerazioni svolte dal giudice del gravame, ciò che rileva è che nel corpo della motivazione si da atto della mancanza di prova circa la sussistenza del requisito dell’animus donandi in capo a C.B. .
Significativo, al riguardo, è il richiamo operato al precedente giurisprudenziale, secondo cui “la sola cointestazione del contratto di custodia e amministrazione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il denaro del quale i titoli sono stato acquistati, di disporre della metà dei beni a titolo di liberalità” (Cass. n. 10850U999). Ancora più incisivo è il richiamo all’ulteriore principio affermato dalla giurisprudenza, secondo cui incombe alla parte che invoca il negotium mixtum cum donatione l’onere di provare, oltre alla sussistenza di una sproporzione di significativa entità tra le prestazioni, “la consapevolezza di essa e la sua volontaria accettazione da parte dell’alienante in quanto indotto al trasferimento del bene a tali condizioni dell’animus donandi nei confronti dell’acquirente” (Cass. n. 19601/2004); rilievo seguito dall’affermazione secondo cui, nel caso in esame, la sussistenza di un negotium mixtum cum donatione “risulta oggetto di attività meramente assertiva ad opera della parte, priva del benché minimo supporto probatorio, secondo le puntuali indicazioni come sopra offerte dalla giurisprudenza di legittimità“;
La ritenuta insussistenza della prova della volontà del C. di compiere un atto di liberalità in favore della nipote M.S. , si rivela di per sé sufficiente a sorreggere la decisione.
E infatti, la possibilità che costituisca donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’animns donandi, consistente nell’accertamento che, al momento della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità (Cass. 12-11-2008 n. 26983).
5) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalla resistente C.M.G. nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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