SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 15 settembre 2014, n.19423
Ritenuto in fatto
Con ricorso del 24/3/2003 S.I. chiedeva la reintegrazione nel possesso di un appartamento e relative pertinenze essendone stata privata da R.L. che vi si era introdotto clandestinamente impedendole l’accesso.
La ricorrente esponeva di essersi unita in matrimonio religioso con dispensa da trascrizione, sin dal 1977 con D.V.D. , il quale, deceduto il (omissis), l’aveva istituita usufruttuaria dell’appartamento suddetto che costituiva la loro casa ove convivevano come marito e moglie.
Nella fase a cognizione sommaria il giudice accoglieva il ricorso e successivamente il Collegio rigettava il reclamo del resistente.
Nella fase di merito, espletata l’istruttoria, il Tribunale con sentenza del 17/4/2004 accoglieva la domanda possessoria e ordinava a R.L. di reintegrare S.I. nel possesso.
R. proponeva appello che era rigettato dalla Corte di Appello di Torino con sentenza del 22/2/2007.
La Corte territoriale rilevava:
– che la ricorrente, in quanto convivente more uxorio e quindi detentore qualificato era legittimata ad agire con l’azione di spoglio;
– che era irrilevante, ai fini di precludere l’esercizio dell’azione, la qualità di erede del resistente, che non era possessore quando era in vita il de cuius, ma solo ospite per il rapporto di parentela con il nonno D.V.D. ;
– che inoltre il resistente non aveva ragione di far valere la sua qualità di erede in quanto il thema decidendum era limitato al compossesso tra le parti come dedotto dal R. ;
– che non era decorso l’anno dal sofferto spoglio;
– che la ricorrente non aveva volontariamente abbandonato l’alloggio, ma viveva altrove proprio a causa dello spoglio subito.
R.L. ha proposto ricorso affidato a due motivi.
S.I. è rimasta intimata.
Motivi della decisione
- Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione e la violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 100, 112, 342 c.p.c. e 1140, 1168 e 1170 c.c. sostenendo che la S. , in quanto convivente more uxorio, non sarebbe stata legittimata ad agire con l’azione possessoria nei suoi confronti perché egli era erede del proprietario convivente che la ospitava e, comunque, compossessore, essendo succeduto nel possesso; aggiunge che la S. avrebbe avuto altrove la propria residenza.
Il ricorrente, formulando i quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, chiede:
– se il convivente more uxorio sia o meno legittimato all’azione possessoria;
– se tale azione possa essere esercitata nei confronti dell’altro convivente ospitante e nei confronti degli eredi di costui.
1.1 Il motivo, con riferimento al vizio di motivazione è inammissibile per l’assoluta mancanza del momento di sintesi.
Le censure trascurano che, nel vigore dell’art. 366-bis c.p.c., il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione e pertanto la relativa censura deve essere accompagnata da un momento di sintesi che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità; il motivo, cioè, deve contenere – a pena d’inammissibilità – una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un ‘quid pluris’ rispetto all’illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. S.U. 20/05/2010 n. 12339; Cass. 4/2/2008 n. 2652 Ord.; Cass. S.U. 1/10/2007 n. 20603).
Il motivo, con riferimento alla violazione delle norme indicate nell’epigrafe del motivo e nell’ambito delimitato dai quesiti di diritto, è infondato perché le ragioni giuridiche addotte a sostegno del motivo trovano confutazione, in diritto, nella giurisprudenza di questa Corte; ai quesiti deve quindi rispondersi affermando che il convivente more uxorio è legittimato all’azione possessoria e che tale azione possa essere esercitata nei confronti dell’altro convivente ospitante e nei confronti degli eredi di costui.
Questa Corte, infatti, già con sentenza 21/3/2013 n. 7214 ha affermato che la convivenza ‘more uxorio’, quale formazione sociale che dà vita ad un consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità e tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Pertanto l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio.
Nel precedente testé richiamato si è dato conto della diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana (ma liberamente e in ogni istante revocabile) di ciascuna delle parti, rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato, invece da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio; si è tuttavia osservato che questa distinzione non comporta che il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, nei casi in cui l’unione, pur libera, che abbia assunto – per durata, stabilità, esclusività e contribuzione – i caratteri di comunità familiare; pertanto in questi casi, anche dopo la dissoluzione del rapporto di coppia così stabilizzato (nel caso qui in esame per la morte del convivente) non è consentito al convivente proprietario (nel caso qui in esame all’erede che subentra nell’identica posizione) ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare e di concedere un termine congruo per reperire altra sistemazione.
La legittimazione all’azione di spoglio da parte del convivente more uxorio è stata poi ritenuta applicabile anche qualora lo spoglio sia compiuto da un terzo nei confronti del convivente del detentore qualificato del bene (Cass. 2/1/2014 n.7).
L’azione è comunque esperibile anche nei confronti dell’erede del proprietario il quale, pur subentrando per fictio iuris nel possesso del de cuius non è legittimato ad estromettere dal possesso con violenza o clandestinità colui che non poteva esserne estromesso dal de cuius.
Il ricorrente richiama inoltre un certificato di residenza secondo il quale la residenza della S. sarebbe in altro luogo; trattandosi di questione di fatto non può essere esaminata in questa sede di legittimità tenuto conto che nella sentenza impugnata sono stati evidenziati elementi idonei per la prova della relazione di fatto con l’immobile (v. pagg. 11 e 12 nei riferimenti al trasporto di effetti personali e alla presenza nell’alloggio dei mobili della convivente) e dell’inammissibilità per mancanza del momento di sintesi della censura di vizio di motivazione.
- Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1146 c.c. e il vizio di motivazione.
Il ricorrente sostiene:
– che la Corte di Appello ha violato il principio dell’art. 1146 c.c. secondo il quale il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione;
– che pertanto egli era succeduto nel medesimo possesso o compossesso del defunto D.V. e la Corte di Appello avrebbe dovuto rigettare la domanda possessoria per essere egli possessore o quanto meno compossessore dell’immobile;
– che era contraddittoria, omessa o insufficiente la motivazione per la quale il thema decidendum doveva essere limitato all’accertamento dell’eventuale sussistenza della situazione di compossesso tra le parti, in quanto la situazione di compossesso era quella indicata negli atti difensivi di primo grado nei quali si invocava la qualità di erede e la successione nel possesso o compossesso.
Il ricorrente, formulando i quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. applicabile ratione temporis, chiede:
– se il possesso dell’autore si trasferisca o meno all’erede senza soluzione di continuità ed anche senza che l’erede abbia avuto il possesso del bene;
– se l’erede può invocare i principi di cui all’art. 1146 comma II c.c. unicamente agli effetti dell’usucapione oppure anche, in via di azione o eccezione nelle azioni a tutela del possesso.
2.1 Il motivo, con riferimento al vizio di motivazione è inammissibile per l’assoluta mancanza del momento di sintesi; sul punto si richiamano i precedenti giurisprudenziali e i principi già enunciati al precedente punto 1.1.
Va comunque osservato che la motivazione, pur sintetica, si collega alla motivazione della sentenza di primo grado trascritta a pag. 20 del ricorso secondo la quale egli non aveva mai agito in qualità di erede e ‘il ricorrente non può far valere tale sua qualità neppure nella fase di merito’ (si intende il merito possessorio); la questione riproposta con il motivo di ricorso attinge quindi l’interpretazione dell’iniziale domanda e la motivazione della Corte di Appello si salda con la più completa motivazione del primo giudice, espressamente richiamata.
Il motivo, con riferimento alla violazione dell’art. 1146 c.c. è infondato perché l’azione possessoria, come detto in precedenza, avrebbe potuto essere esercitata anche nei confronti del convivente more uxorio, ancorché proprietario, ove avesse estromesso (come ha fatto l’erede) l’odierna intimata con clandestinità dall’unità abitativa e pertanto anche all’erede è precluso estromettere con violenza o clandestinità colei che esercitava sull’immobile un potere di fatto basato su di un interesse proprio e fondato su una relazione di convivenza meritevole di tutela. In ogni caso, la reintegrazione deve avvenire nella stessa situazione di fatto esistente al momento dello spoglio, nella quale la S. , dopo la morte del convivente, esercitava un potere di fatto basato su una detenzione qualificata senza la presenza di altri e la disposta reintegrazione non contrasta con la previsione di cui all’art. 1146 comma II c.c. tenuto conto che per effetto di una fictio iuris, il possesso del ‘de cuius’ si trasferisce agli eredi i quali subentrano nel possesso del bene anche senza necessità di una materiale apprensione così che, mancando il precedente possesso ‘corpore’, la materiale apprensione con esclusione del detentore qualificato è stata legittimamente sanzionata con l’ordine di reintegrazione.
Pertanto il primo quesito non è pertinente perché, pur essendo corretto affermare che il possesso dell’autore si trasferisce all’erede senza soluzione di continuità ed anche senza che l’erede abbia avuto il possesso del bene, ciò non preclude, per le ragioni già dette, l’azione di spoglio della convivente more uxorio nei confronti dell’erede del proprietario che non era nel possesso dei beni del de cuius prima della sua morte (ciò essendo stato escluso con valutazione di merito in entrambi i gradi del giudizio).
Egualmente inconferente rispetto alla concreta fattispecie anche il secondo quesito con il quale si chiede se l’erede può invocare i principi di cui all’art. 1146 comma II c.c. unicamente agli effetti dell’usucapione oppure anche, in via di azione o eccezione nelle azioni a tutela del possesso: nella specie il ricorrente non ha esercitato una azione a tutela del possesso, ma è ricorso a vie di fatto estromettendo dall’immobile la detentrice qualificata ed ha operato una materiale apprensione del bene illegittima per le sue modalità.
- In conclusione il ricorso deve essere rigettato; non si pronuncia condanna alle spese in quanto la parte intimata e non soccombente non ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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