Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 9 marzo 2015, n. 9962
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza pronunciata il 20.05.2013 il Tribunale di Taranto ha condannato l’imputata V.G., concesse le attenuanti generiche, alla pena (sospesa) di € 250 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, in favore della parte civile costituita S.P., per il reato di molestie continuate a mezzo del telefono ex art. 660 cod. pen., commesso fino al 22.06.2008 in danno della S. e della madre convivente della stessa T.C., abitanti nell’appartamento soprastante quello dell’imputata, mediante squilli telefonici reiterati nell’ordine di una quindicina al giorno, anche di notte, sull’utenza fissa delle persone offese, alle quali tale condotta arrecava disturbo e anche spavento, in particolare alla T., anziana e sola in casa quando la figlia era al lavoro; il Tribunale riteneva provata la colpevolezza della V. sulla base della deposizione coerente, precisa e immune da contraddizioni della S. e delle risultanze dei tabulati telefonici, da cui era emerso che le telefonate moleste, effettuate nelle date indicate dalla persona offesa, provenivano dall’utenza cellulare (…) intestata all’imputata, che anche in altre occasioni aveva posto in essere comportamenti persecutori e molesti nei confronti della S. e della T.. 2. Avverso la condanna ha proposto appello – qualificato come ricorso per cassazione e trasmesso a questa Corte dalla sezione distaccata di Taranto della Corte d’appello di Lecce, stante l’inappellabilità ex art. 593 comma 3 cod.proc.pen. della sentenza irrogante la sola pena dell’ammenda – V.G., a mezzo del difensore, svolgendo tre motivi di doglianza coi quali deduce:
– errata interpretazione delle risultanze processuali, con riguardo alla ritenuta sussistenza del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice di cui all’art. 660 cod. pen., al ridotto numero delle telefonate effettuate non integranti i requisiti di ossessività e petulanza, all’individuazione nell’imputata dell’autrice delle chiamate telefoniche provenienti da un cellulare che non era nella sua esclusiva disponibilità, all’ingiustificata credibilità attribuita alle dichiarazioni della S.;
– carenza della motivazione e illogicità della sentenza, con riguardo all’omessa considerazione della reciprocità e della natura ritorsiva delle molestie e all’esatta individuazione della persona offesa dal reato;
– omessa applicazione dell’art. 507 del codice di rito, con riguardo all’immotivato diniego da parte del Tribunale dell’esercizio del potere officioso di assumere la deposizione della T..
3. Con memoria depositata l’1.12.2014, la parte civile ha chiesto la conferma della sentenza impugnata.
4. Con memoria depositata il 2.12.2014, il difensore della medesima parte civile he chiesto che l’impugnazione sia dichiarata inammissibile.
Considerato in diritto
1. II ricorso è inammissibile in ogni sua deduzione.
2. II terzo motivo di doglianza, che deve essere esaminato per primo secondo l’ordine logico, è manifestamente infondato, e perciò inammissibile, in quanto il mancato esercizio dei potere dei giudice del dibattimento di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova a norma dell’art. 507 cod.proc.pen. (il cui esercizio postula – come condizioni necessarie – l’assoluta necessità dell’iniziativa del giudice, il carattere di decisività della prova e il fatto che non esorbiti dall’ambito delle prospettazioni delle parti: Sez. Un. n. 41281 del 17/10/2006, Rv. 234907) non richiede un’espressa motivazione, quando dalla valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice possa implicitamente evincersi la superfluità di un’eventuale integrazione istruttoria (Sez. 4 n. 7948 del 3/10/2013, Rv. 259272): ciò che risulta positivamente verificato nel caso di specie, avendo il Tribunale ritenuto puntualmente acquisita la prova della penale responsabilità dell’imputata sulla base della testimonianza di S.P. e delle risultanze dei tabulati telefonici sull’esistenza delle telefonate incriminate e sulla loro provenienza dall’utenza cellulare della V..
3. II primo motivo di ricorso deduce delle tipiche censure di merito, dirette a sollecitare una diversa valutazione (in senso innocentista o comunque scriminante) delle risultanze istruttorie, le quali, se appaiono coerenti al mezzo di impugnazione – appello – che il ricorrente riteneva (erroneamente) di essere legittimato a proporre avverso la sentenza dì primo grado, risultano tuttavia palesemente inammissibili in questa sede di legittimità, alla quale il gravame è pervenuto in ossequio al principio di conservazione sancito dall’art. 568 comma 5 cod.proc.pen., senza peraltro consentire l’introduzione di censure diverse da quelle indicate dall’art. 606 comma 1 del codice di rito. 4. II secondo motivo di doglianza è manifestamente infondato, risolvendosi non tanto nella deduzione di un vizio della motivazione della sentenza impugnata, quanto in un’inammissibile censura di fatto rivolta al ragionamento probatorio seguito dal Tribunale per pervenire alla condanna dell’imputata, che risulta puntualmente argomentata sulla scorta di una coerente valutazione delle risultanze istruttorie (dalle quali non era emersa alcuna reciprocità delle molestie) e di una corretta applicazione dei principi di diritto elaborati da questa Corte con riguardo al reato di cui all’art. 660 cod. pen..
5. La sussistenza di una causa originaria di inammissibilità del ricorso non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare la prescrizione della contravvenzione (Sez. 2 n. 28848 dell’8/05/2013, Rv. 256463, che ribadisce l’insegnamento di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266), che sarebbe maturata dopo la sentenza di condanna in relazione al decorso del termine massimo di 5 anni dall’ultima telefonata molesta del 22.06.2008, anche tenendo conto del periodo di sospensione del corso della prescrizione dovuto al rinvio dell’udienza del 17.09.2012 al 18.02.2013 per astensione dei difensore dell’imputata.
6. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla cassa delle ammende della sanzione pecuniaria che si stima equo quantificare in 1.000 euro; la V. deve inoltre essere condannata a rifondere alla parte civile costituita, il cui difensore è comparso in udienza formulando le proprie conclusioni, le spese sostenute nel presente giudizio, liquidate nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma dì € 1.000,00 alla Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi € 2.300,00 oltre accessori come per legge
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