Costituisce un diritto fondamentale del figlio quello di vivere con i suoi genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia, diritto che va salvaguardato in via prioritaria, in quanto “per un genitore e suo figlio, stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare” (così, Corte Europea dei diritti dell’uomo, SH c/ Italia 13.10.2015 § 48 e cfr. sentenze ivi richiamate); tale diritto, come del resto riconosce il ricorrente, può essere limitato solo quando si configuri un endemico e radicale stato di abbandono, ed impone quindi che si proceda con particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, la cui dichiarazione costituisce e va emessa, solo, come extrema ratio. In tale prospettiva, vanno quindi apprezzati gli istituti disciplinati dalla L. n. 184 del 1983 e succ. modifiche, che sono, infatti, applicabili “quando la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all’educazione del minore” (art. 1, co 4), e che consentono il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore dopo l’inutile esperimento di tutte le misure idonee a preservare, per quanto possibile, il legame familiare e, solo, in presenza di fatti -che devono essere specificamente dimostrati in concreto- tali da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino e, dunque, indicativi in modo certo dello stato di abbandono, morale e materiale
Suprema Corte di Cassazione
sezione I civile
sentenza 25 gennaio 2017, n. 1932
Ritenuto in fatto
Con sentenza emessa del 7-21.9.2015, il Tribunale per i minorenni di Catania ha dichiarato lo stato di adottabilità del minore N. A. F., nato il omissis dall’unione di M. P. E., all’epoca minorenne (classe omissis) e di G. F. N.. Dopo aver affermato che il padre, affetto da insufficienza mentale e incapace di adeguato controllo dei propri impulsi aggressivi, era incapace di assicurare al bambino l’assistenza morale e materiale ad un livello minimamente accettabile, il Tribunale ha, del pari, ritenuto la madre inidonea al ruolo genitoriale, perché priva della dovuta consapevolezza circa la necessità di intraprendere un percorso di responsabilizzazione da un passato abbandonico, ed, inoltre, perché aveva violato le prescrizioni del Tribunale e della comunità presso cui era collocata, non si era presentata al servizio competente ed aveva continuamente cambiato uomini sbagliati.
La Corte di appello di Catania -sezione per i minorenni-con la sentenza depositata il 27.4.2016, ha accolto l’appello proposto dalla sola madre, osservando che la funzione genitoriale della stessa non poteva dirsi del tutto compromessa, in quanto pur essendo un soggetto vulnerabile -perchè divenuta madre quando era ancora bambina, priva di validi riferimenti familiari e maltrattata- non presentava assetti patologici di personalità ed era stata positivamente valutata dal servizio di psicologia, che aveva evidenziato come la stessa, ove adeguatamente sostenuta, aveva buone possibilità di completare il suo percorso di crescita e di svolgere adeguatamente il ruolo materno. Pur non sottovalutando alcuni indici negativi evidenziati dal Tribunale (sporgersi dalla finestra col bambino in braccio, relazione con un uomo poco raccomandabile), la Corte ha ritenuto che le criticità, qualificate non gravi, potevano esser recuperate, anche tenuto conto della buona volontà mostrata dalla madre (la relazione sentimentale inappropriata era cessata e la stessa era tornata in una comunità), mediante la predisposizione di un adeguato progetto di sostegno, che tenesse conto della sua condizione di madre bambina, e che, invece, non era stato attivato, essendo piuttosto stata giudicata alla stregua di un’adulta dai responsabili della struttura presso cui era stata ricoverata insieme al figlio.
Contro la sentenza di appello, ha proposto ricorso per cassazione il tutore provvisorio del minore affidato a due motivi. Ha resistito con controricorso M. P. E.. Non ha svolto difese G. F. N.. Il ricorrente ha depositato memoria.
Osserva in diritto
1. La questione, sollevata dal Procuratore generale in udienza, relativa alla disintegrità del contraddittorio per la mancata nomina di un curatore speciale al minore, è infondata, avendo questa Corte (Cass. n. 16553 del 2010; n. 11420 del 2014) affermato il principio, che qui si condivide, secondo cui nel procedimento di adozione, a differenza che nel rapporto tra minore e genitore in cui è in re ipsa, il conflitto d’interessi tra minore e tutore è, solo, potenziale ed il relativo accertamento deve essere compiuto in astratto ed ex ante e non in concreto ed a posteriori (alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti in causa), dovendo, pertanto, escludersi, da tale angolazione prospettica, che il nominato tutore abbia versato, anche soltanto potenzialmente, in conflitto d’interessi con il minore.
2. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti storici decisivi, la cui esistenza risulta da documenti oggetto di discussione tra le parti, nonché la violazione e la falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 10 e 15, in riferimento all’art. 360, co 1, n. 5 e 3, cpc. Sotto il primo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non ha motivato sulla base di quali concrete circostanze abbia ritenuto possibile il cambiamento della madre, tenuto conto:
-delle sue fughe dalla comunità e del pessimo utilizzo dei permessi d’uscita;
-dei legami sentimentali estremamente conflittuali e pericolosi col N. (padre del bambino) e con tale Benedetto Costanzo, persone con le quali si univa e si lasciava, malgrado le minacce di morte e le violenze subite, così dimostrando l’incapacità di resistere alle sollecitazioni di natura sentimentale;
-delle prospettive di coinvolgimento del minore nella personalità disturbata di entrambi detti compagni;
-dei comportamenti immaturi e pregiudizievoli (si era sporta dalla finestra col bambino in braccio ed arrampicata su un mobile), così dando prova d’incapacità di resistere alle spinte impulsive;
-della mancata partecipazione ai progetti della comunità volti ad acquisire competenze ed abilità che attengono al ruolo di madre;
-della violazione degli impegni presi col GD del Tribunale all’udienza del 6.7.2015, e dell’incapacità di trarre insegnamento dai precedenti errori;
-della mancata presentazione alla convocazione per il secondo colloquio col figlio, fissata per il 27.8.2015.
Il ricorrente afferma che la ricostruzione della Corte di Catania, secondo cui l’adottabilità era stata dichiarata senza la predisposizione di adeguati progetti di sostegno non risponde al vero, rileva, inoltre, che la separazione della madre dal figlio è avvenuta il 12.5.2015 -e non nel mese di febbraio, come affermato in sentenza-, e che gli ulteriori incontri col bambino non sono stati effettuati per la fuga della madre dalla comunità con il Costanzo (soggetto pregiudicato e violento), nonostante la stessa avesse promesso di lasciarlo, comportamento che aveva determinato la decisione, del tutto corretta, dei servizi e del Tribunale di non “inseguire” la M. e di procedere alla dichiarazione di adottabilità.
La Corte, prosegue il ricorrente, è incorsa nella violazione degli artt. 10 e 15 della L. n. 184 del 1983 per avere omesso di acquisire gli elementi necessari a verificare il comportamento della madre in epoca successiva alla sentenza di primo grado, indagine che avrebbe evidenziato che la stessa era fuggita, per due volte, dalla comunità per recarsi presso l’abitazione del Costanzo.
Il ricorrente afferma che i giudici d’appello non hanno tenuto conto che la favorevole valutazione del servizio di psicologia evidenzia che la M. presenta risorse solo potenziali, sicché tale valutazione avrebbe dovuto esser integrata con la verifica dell’effettività delle dichiarate buone intenzioni, in quanto se è vero che la dichiarazione dello stato di adottabilità non può fondarsi su anomalie non gravi del carattere, è sempre necessario che la situazione comportamentale negativa sia transitoria, traducendosi, diversamente, in un’effettiva incapacità di allevare ed educare il bambino.
2. Col secondo motivo, si deduce, ex art. 360, co 1, n. 3 e 5, cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 8 e 15 lett. a) della L n. 184 del 1983, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Il ricorrente afferma che la Corte d’appello ha errato nell’avere “spostato il ‘focus’ dell’attenzione dall’azione di tutela del bambino e del suo diritto ad una crescita armonica e serena alla tutela della madre ed alla necessità di aiutarla e non giudicarla”, e a non aver valutato se i tempi di recupero siano compatibili con le necessità del minore di crescere in un contesto stabile.
3. I motivi, da valutarsi congiuntamente, sono infondati.
4. Questa Corte ha, infatti, ripetutamente affermato (cfr. da ultimo Cass. n. 13435 del 2016), che costituisce un diritto fondamentale del figlio quello di vivere con i suoi genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia, diritto che va salvaguardato in via prioritaria, in quanto “per un genitore e suo figlio, stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare” (così, Corte Europea dei diritti dell’uomo, SH c/ Italia 13.10.2015 § 48 e cfr. sentenze ivi richiamate); tale diritto, come del resto riconosce il ricorrente, può essere limitato solo quando si configuri un endemico e radicale stato di abbandono, ed impone quindi che si proceda con particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, la cui dichiarazione costituisce e va emessa, solo, come extrema ratio. In tale prospettiva, vanno quindi apprezzati gli istituti disciplinati dalla L. n. 184 del 1983 e succ. modifiche, che sono, infatti, applicabili “quando la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all’educazione del minore” (art. 1, co 4), e che consentono il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore dopo l’inutile esperimento di tutte le misure idonee a preservare, per quanto possibile, il legame familiare e, solo, in presenza di fatti -che devono essere specificamente dimostrati in concreto- tali da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino e, dunque, indicativi in modo certo dello stato di abbandono, morale e materiale (cfr. Cass. n. 7391 del 2016).
5. Se, dunque, a torto il ricorrente deduce che l’attenzione della Corte d’Appello si sarebbe focalizzata sulla persona della madre, dato che è stato considerato e salvaguardato proprio il diritto fondamentale del figlio di vivere con la stessa, tanto più che è stata accertata l’esistenza di un legame tra i due (il bambino aveva pianto nel separarsi dalla madre nell’unica visita consentita), va rilevato che gli esposti principi sono stati correttamente applicati dai giudici d’appello laddove hanno ribaltato il giudizio d’incapacità genitoriale della madre formulato dal Tribunale, che non aveva tenuto conto della sua situazione di vulnerabilità a causa della giovanissima età (appena maggiorenne e divenuta madre all’età di 14 anni) della mancanza di validi riferimenti familiari e dell’essere stata oggetto di maltrattamenti, e, soprattutto non aveva considerato che non erano state adottate tutte le misure necessarie e appropriate onde sostenere il processo di crescita della M. -che, salvo tratti infantili coerenti con l’età, non presenta un assetto patologico di personalità- e così favorire lo svolgimento del ruolo materno.
6. Il giudizio circa il positivo recupero dei rilevati profili di criticità, ritenuti non gravi, con l’acquisizione della capacità genitoriale della madre, ove opportunamente sostenuta, non è efficacemente contrastato dal tutore ricorrente. Al riguardo, va rilevato che: a) l’art. 360, co 1, n. 5, cpc consente di denunciare per cassazione l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (id est che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); b) il ricorrente è onerato, nel rispetto delle previsioni degli artt. 366, co 1, n. 6, e 369, co 2, n. 4, cpc, di indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. SU n. 8053 del 2014).
7. E, nella specie, il ricorso non solo non indica di quale fatto avente le anzidette caratteristiche sia stato omesso l’esame, tanto più che non vengono specificati i progetti predisposti dalla comunità che la madre avrebbe disertato, né (oltre gli episodi già considerati dalla Corte territoriale: affacciarsi alla finestra col bambino in braccio e salire su un mobile) quali attività pregiudizievoli per il bambino la stessa abbia posto in essere, né, ancora, quali impegni presi col GD all’udienza del 6.7.2015 siano stati violati, ma, soprattutto, le circostanze sopra enunciate, come pure le fughe dalla comunità, la mancata partecipazione al secondo incontro col bambino previsto per il mese di agosto (che la Corte afferma mai da lei saputo, perché si era allontanata dalla Comunità e non era stata cercata) e le relazioni sentimentali con individui pericolosi sono state oggetto d’esame da parte dei giudici d’appello e di specifico apprezzamento. Per completezza, va aggiunto che, quand’anche provato, l’errore che il ricorrente imputa alla Corte territoriale nell’indicare l’epoca in cui è avvenuta la separazione tra madre e figlio -maggio 2015 invece del precedente febbraio (in cui però risulta emesso il decreto di affidamento etero familiare e l’allontanamento della madre, cfr. pag. 4 ricorso)- e dunque nell’individuazione del lasso di tempo intercorso prima dell’organizzazione dell’unico incontro madre figlio avvenuto il 1.7.2015, riduce in tesi la misura del ritardo degli operatori, ma è irrilevante ai fini della valutazione dello stato di abbandono.
8. E’ dunque evidente che la contestazione si riferisce al supposto errore nella valutazione delle risultanze processuali, sia in termini di gravità delle carenze della madre, che di prognosi circa l’acquisizione delle future competenze ed il tempo a ciò necessario, errore che sarebbe aggravato dalla mancata attivazione di mezzi istruttori volti a sondare l’effettività della buona volontà espressa della M. ed a valutarne l’operato.
9. Ma, ancorché sia stata dedotta anche la violazione e falsa applicazione di legge, tale censura attiene alla ricognizione della fattispecie concreta attraverso le risultanze di causa e dunque al giudizio di fatto rimesso in via esclusiva al giudice del merito ed estraneo al giudizio di legittimità, in cui non possono esser dedotti fatti nuovi (come riconosce il ricorrente in sede di difese) né esser rivisitate in senso critico le ricostruzioni dei fatti operate dalla Corte del merito. Sotto altro profilo, va rilevato che l’art. 17 dalla L. n. 184 del 1983, nel disciplinare il giudizio d’appello avverso la sentenza che dichiara lo stato d’adottabilità, consente ma non impone alcuno specifico accertamento, essendo piuttosto volto ad imprimere un iter celere dell’impugnazione (laddove prevede la fissazione dell’udienza entro sessanta giorni dal deposito dell’atto d’appello ed il deposito della sentenza entro quindici giorni dalla pronuncia) in considerazione dell’interesse del minore alla sollecita definizione del suo status; sicché trattandosi di attività istruttoria rimessa alla discrezionalità della Corte d’Appello la relativa omissione -indice della ritenuta non indispensabilità dell’indagine- non è suscettibile di ricorso per cassazione per violazione di legge.
9. Il ricorso va rigettato e le spese vanno compensate, essendo entrambe le parti state ammesse al patrocinio a spese dello Stato sicché l’onorario e le spese spettanti al difensore andranno liquidati ai sensi dell’art. 82 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ovvero con istanza rivolta al giudice del procedimento non potendo frasi applicazione dell’art. 133 del medesimo D.P.R. n. 115 del 2002 relativo al diverso caso in cui soccombente sia una parte non ammessa a patrocinio (cfr. Cass. n. 18583 del 2012, in tema di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato vittoriosa in una controversia civile proposta contro un’amministrazione statale).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 1. dicembre 2016
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