La ricorribilità della sentenza di patteggiamento è ammessa nelle sole ipotesi di errore manifesto, ossia quando sussiste realmente l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, sicchè deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità: l’errata qualificazione giuridica del fatto può essere fatta valere solo dinanzi ad un evidente error in iudicando che “dissimuli un’illegale trattativa sul nomen iuris”, ma non in presenza di una qualificazione che presenti oggettivi margini di opinabilità.
Suprema Corte di Cassazione
sezione feriale
sentenza del 22 agosto 2013, n. 35432
…omissis…
3. I ricorsi sono fondati limitatamente ai motivi dedotti in ragione della violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86. Motivi questi che, per quanto si dirà in seguito , impongono l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in ordine a quanto statuito in punto alla citata misura di sicurezza con decisione da estendere, giusta dell’art. 587 c.p.p., comma 3, ed in coerenza con quanto evidenziato dalla Procura Generale con le conclusioni scritte acquisite in atti, anche alle posizioni processuali diverse da quelle immediatamente inerenti i ricorrenti Z.L. e Q.S., che esplicitamente e tempestivamente hanno dedotto la relativa doglianza nei rispettivi ricorsi (il motivo aggiunto depositato dalla difesa di Z.Y. deve ritenersi in sè inammissibile perchè assolutamente estraneo ai punti della sentenza originariamente impugnati).
Per il resto, le ulteriori doglianze impingono nei profili di inammissibilità definiti da qui a poco.
4. Giova ricordare che l’art. 444 c.p.p., comma 2, impone al giudice di verificare l’insussistenza di una delle cause di non punibilità indicate nel citato art. 129 c.p.p. – la cui operatività è necessariamente sottratta ai poteri dispositivi delle parti – sulla base degli atti fino a quel momento acquisiti. La giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato che si tratta di un’operazione che deve avvenire allo stato degli atti, cioè senza alcuna necessità di un approfondimento probatorio ovvero dell’acquisizione di ulteriori elementi, in quanto l’eventuale pronuncia di proscioglimento può derivare solo se le risultanze disponibili rendano palese l’esistenza della causa di non punibilità (Sez. un., 25 novembre 1998, n. 3, Messina). Pertanto, al giudice è assegnato un sindacato meramente negativo con riferimento alla responsabilità dell’imputato, dovendo constatare semplicemente l’insussistenza delle cause indicate nell’art. 129 c.p.p., risultando per contro preclusa la possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento per mancanza, insufficienza o contraddittorietà delle prove desumibili dagli atti, non rientrando tale possibilità tra quelle esplicitamente indicate dall’articolo citato (cfr., da ultimo, Sez. 4^, 7 giugno 2012, n. 28952, Zilli).
D’altra parte, non possono essere prospettate con il ricorso per cassazione questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento formulata per il fatto contestato, in quanto l’accusa, se correttamente qualificata, non può essere rimessa in discussione.
Entro questo quadro, il giudice del patteggiamento deve effettuare il controllo preteso dall’art. 129 c.p.p., comma 1, in una situazione in cui per effetto dell’accordo sulla pena l’imputato ha rinunciato, non solo a controvertere sulla quantificazione della sanzione, ma anche sul diritto alla prova, accettando di essere giudicato in base agli atti probatori presenti nel fascicolo, rinunciando altresì a controvertere sul fatto.
I limiti di quello che viene definito un accertamento negativo della non punibilità dell’imputato effettuato con la sentenza di patteggiamento, che determina diverse regole di giudizio rispetto alla sentenza di condanna, condiziona in coerenza i motivi che possono essere oggetto del ricorso per cassazione, nel senso che la natura negoziale del rito incide in concreto sui ricorsi di legittimità contro questo tipo di sentenze. In particolare, oltre a non poter essere dedotte insufficienze ovvero carenze probatorie, la stessa denuncia dell’errata qualificazione giuridica del fatto è destinata a ricevere un’applicazione limitata.
Come è noto, la possibilità di impugnare la sentenza di patteggiamento per denunciare l’erronea qualificazione giuridica del fatto ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti, risolte da un intervento delle Sezioni unite (sent. n. 5 del 19 gennaio 2000, Neri), le quali hanno statuito che con il ricorso per cassazione può essere denunciata l’erronea qualificazione del fatto come prospettata dalle parti e recepita dal giudice, e ciò perchè è lo stesso art. 444 c.p.p., comma 2, ad imporre siffatto controllo, funzionale ad evitare che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati.
Tuttavia, proprio in considerazione della natura del patteggiamento e dello scopo del controllo affidato al giudice, la giurisprudenza ritiene che l’impugnabilità per l’erronea qualificazione del fatto debba essere limitata ai casi in cui quella prospettata dalle parti sia palesemente erronea ovvero ai casi in cui la contestazione originariamente delineata dal solo pubblico ministero sia anch’essa manifestamente erronea. Quindi, la ricorribilità della sentenza di patteggiamento è ammessa nelle sole ipotesi di errore manifesto, ossia quando sussiste realmente l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, sicchè deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità: l’errata qualificazione giuridica del fatto può essere fatta valere solo dinanzi ad un evidente error in iudicando che “dissimuli un’illegale trattativa sul nomen iuris”, ma non in presenza di una qualificazione che presenti oggettivi margini di opinabilità (tra le tante v., Sez. 4^, 11 marzo 2010, n. 10692, P.G. in proc. Hernandez; Sez. 3^, 23 ottobre 2007, n. 44278, P.G. in proc. Benha; Sez. 6^, 20 novembre 2008, n. 45688, P.G. in proc. Bastea; Sez. 6^, 10 aprile 2003, n. 32004, P.G. in proc. Valetta).
5. Tanto precisato in linea di principio, osserva la Corte come nel caso di specie i motivi proposti da W.R., detto R.R. e Z.Y., detto A., immediatamente legati sia alla indebita qualificazione giuridica del fatto siccome assertivamente concretata da una ritenuta duplicazione delle fattispecie associative contestate, semplice (quella di cui al capo A) e finalizzata al traffico di stupefacenti ( quella di cui al capo A1), nonchè al ruolo di partecipe ascritto agli stessi , devono ritenersi inammissibili.
In primo luogo perchè la qualificazione ascritta dal Giudice del merito alle condotte contestate sub A (art. 416 c.p., finalizzato a diverse ipotesi delittuose quali lo sfruttamento della prostituzione e le estorsioni) e A1 (D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, quale branca specifica collegata al medesimo nucleo associativo di cui al capo A) non si rivela affetto da manifesta erroneità ponendosi in linea con l’orientamento di questa Corte in forza al quale (cfr da ultimo Sez. 2^, Sentenza n. 36692 del 22/05/2012) i reati di associazione per delinquere, semplice o mafiosa, concorrono con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti anche nel caso in cui la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di traffici di sostanze stupefacenti e reati diversi si che anche i soggetti impegnati esclusivamente nel traffico di sostanze stupefacenti, nella consapevolezza che questo è gestito dall’associazione semplice connotata anche da delitti diversi, concorrono anche in quest’ultimo reato, perchè contribuiscono causalmente alla realizzazione di una delle finalità tipiche del sodalizio criminale connotato da una affermata eterogeneità dei fini illeciti rispetto a quello afferente il solo traffico degli stupefacenti.
Questione diversa è poi quella legata alla effettiva sussistenza di siffatta consapevolezza che afferisce all’accertamento nel merito della stessa , oramai precluso tuttavia in ragione dalla scelta del rito concordato, con conseguente estranei del motivo alle censure prospettabili in questa sede.
Del pari, sul piano sempre della mera qualificazione, non può ritenersi manifestamente erroneo il ritenere sussistente la partecipazione associativa anche in ragione della commissione un singolo episodio delittuoso, comunque tale da ricondurre l’agente all’organizzazione criminale in riferimento alla quale risulta contestata l’ipotesi associativa; ed analogamente, tutte le questioni in fatto destinate concretamente a svilire il significato di tale contegno costituiscono spunti di approfondimento nel merito che non possono più essere posti in discussione, in sede di legittimità, una volta intrapresa la strada della pena concordata. Da qui la inammisibilità dei motivi di ricorso articolati da da W.R., detto R.R. e Z.Y., detto A..
6. Sono fondate e impongono l’annullamento della decisione impugnata le doglianze articolate dagli altri ricorrenti.
7. Giova rammentare che, con sentenza n. 58/1995, la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86, comma 1, nella parte in cui obbliga il giudice ad emettere contestualmente alla condanna, senza l’accertamento in concreto della pericolosità sociale, l’ordine di espulsione, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82 dello stesso testo legislativo. Ne consegue che il giudice, nell’emettere una sentenza di condanna per uno dei reati suindicati, ai fini della verifica delle condizioni di applicabilità’ della misura di sicurezza dell’ordine di espulsione dello straniero dallo Stato, è tenuto ad accertare in concreto, con adeguata motivazione, la sussistenza della pericolosità sociale del condannato (così Cass., sezione 6, sentenza 45468/10; Sez. 4^, 25-10-2007 n. 46759; Sez. 6^, 6-5-2004 n. 26096).
Nel caso il giudice non ha spiegato sul punto alcuna motivazione, ben oltre i profili di sinteticità dell’argomentare che caratterizzano il rito, peraltro estranei ai profili delle statuizioni accessorie che, come quella di specie, rimangono al di fuori dell’accordo tra le parti.
In parte qua si impone dunque l’annullamento che, per quanto anticipato, va esteso a tutti i ricorrenti ai sensi dell’art. 587 c.p.p., comma 3, anche a quelli che sul punto nulla avevano dedotto in ricorso, quantomeno ritualmente.
8. Trattandosi di valutazioni che non invalidano il patto occorso tra le parti, va disposto un annullamento parziale solo con riferimento alla espulsione con conseguente rinvio al Tribunale di Milano per nuovo giudizio su tali punti, da rendere osservando i principi sopra evidenziati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla disposta espulsione nei confronti di tutti i ricorrenti e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Milano. Rigetta nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 14 agosto 2013.
Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2013
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