Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 27 marzo 2017, n. 1390

Gli atti repressivi degli abusi edilizi, come quelli per cui è causa, sono atti dovuti, che seguono un procedimento vincolato e precisamente tipizzato dalla normativa e si basano, oltretutto, su un presupposto di fatto, la costruzione abusiva, che rientra nella sfera di controllo del destinatario ed è quindi ragionevolmente da lui conosciuto; di conseguenza, l’avviso di inizio del procedimento non è dovuto

Consiglio di Stato

sezione VI

sentenza 27 marzo 2017, n. 1390

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 75 del 2013, proposto dai signori Fr. Es. e Fi. Ca., rappresentati e difesi dagli avvocati Ca. Di Ma. e Ma. Re., con domicilio eletto presso lo studio della signora Ma. Gi. Re. in Roma, via (…);

contro

Il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del TAR Campania, sede di Napoli, sezione II, 4 novembre 2011, n. 5140, resa fra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso per l’annullamento di provvedimenti del Comune di (omissis), ovvero dell’ordinanza 28 dicembre 2006, n. 211, di ingiunzione a demolire – in quanto abusive – le opere realizzate in via (omissis) e consistenti nella realizzazione del completamento della tompagnatura del secondo e del terzo piano di un immobile abitativo, con posa in opera di infissi di ferro esterni; dell’ordinanza 30 gennaio 2009, n. 23, di acquisizione delle opere abusive al patrimonio comunale; dell’ordinanza 24 gennaio 2011, n. 9, di demolizione in quanto abusive di opere ulteriori realizzate nello stesso luogo, consistenti nel completamento dei lavori in ogni parte del secondo piano, nonché per la condanna del Comune intimato al risarcimento del danno;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2017 il Cons. Francesco Gambato Spisani e dato atto che per le parti nessuno è presente.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. I ricorrenti appellanti hanno impugnato in primo grado le ordinanze del Comune di (omissis) meglio indicate in epigrafe, concernenti l’ingiunzione a demolire – in quanto abusive – le opere progressivamente realizzate in via (omissis), consistenti dapprima nella cd. tompagnatura del secondo e del terzo piano di un immobile ad uso abitazione, con posa in opera degli infissi esterni, poi nel completamento in ogni sua parte del terzo piano.

Essi hanno parimenti impugnato l’ordinanza di acquisizione delle prime opere realizzate al patrimonio comunale, e, contestualmente alla domanda di annullamento, hanno proposto anche una domanda di condanna del Comune intimato al risarcimento del danno.

2. Con la sentenza pure indicata in epigrafe, il TAR ha respinto sia la domanda di annullamento, sia la domanda di condanna al risarcimento.

Il TAR ha ritenuto che le opere in questione fossero state realizzate in assenza del necessario permesso di costruire, che non vi fosse alcuno dei presupposti per una sanatoria, che le ordinanze di demolizione fossero state quindi legittimamente emanate e che l’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale (costituente atto dovuto perché l’ordine di demolizione non era stato eseguito) avesse correttamene individuato l’immobile da acquisire.

Contro tale sentenza, gli originari ricorrenti hanno proposto impugnazione, con appello affidato a quattro motivi, che riprendono parte di quelli dedotti in primo grado:

– con il primo di essi, deducono la violazione dell’art. 7 l. 7 agosto 1990, n. 241, per avere l’amministrazione non inviato l’avviso di inizio del procedimento di repressione dell’abuso, avviso a loro dire necessario;

– con il secondo motivo, deducono la violazione dell’art. 3 della stessa legge, perché a loro dire i provvedimenti impugnati sarebbero “frutto di una istruttoria del tutto carente” (pag. 11 ottavo rigo dal basso);

– con il terzo motivo, deducono la violazione dell’art. 31 del T.U. 6 giugno 2001, n. 380, perché in primo luogo non sarebbero state spiegate le ragioni per cui è stato disposto l’abbattimento; in secondo luogo l’ordinanza relativa non avrebbe individuato in modo esatto gli immobili da acquisire al patrimonio comunale, né spiegato in base a quali parametri avrebbe determinato, nell’ambito di essi, l’area di pertinenza acquisita;

– con il quarto motivo, deducono infine la violazione dell’art. 23 della l.r. Campania 22 dicembre 2004, n. 16, perché a loro dire l’amministrazione comunale avrebbe dovuto procedere mediante una variante urbanistica al recupero dell’insediamento abusivo, e nel frattempo non avrebbe avuto il potere di reprimere l’abuso.

I ricorrenti appellanti non hanno invece riproposto la domanda di risarcimento.

Il Comune di (omissis) non si è costituito nel corso del giudizio d’appello.

All’udienza del giorno 23 febbraio 2017, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e va respinto, per le ragioni di seguito esposte.

2. Il primo motivo di ricorso, incentrato sulla mancanza dell’avviso di inizio del procedimento previsto dall’art. 7 l. 241/1990, è infondato.

In primo luogo, gli atti repressivi degli abusi edilizi, come quelli per cui è causa, sono atti dovuti, che seguono un procedimento vincolato e precisamente tipizzato dalla normativa e si basano, oltretutto, su un presupposto di fatto, la costruzione abusiva, che rientra nella sfera di controllo del destinatario ed è quindi ragionevolmente da lui conosciuto; di conseguenza, l’avviso di inizio del procedimento non è dovuto: così per tutte C.d.S. sez. V 28 aprile 2014 n. 2194.

Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive (Consiglio di Stato, sez. VI, 6 marzo 2017, n. 1060 e n. 1058; sez. V, 11 luglio 2014, n. 3568; sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955).

In secondo luogo, nella specie (e come si evince dalla documentazione acquisita), in relazione all’immobile in questione il Comune di (omissis) ha emanato precedenti ordinanze di demolizione nel 2003 e nel 2004 ed ha altresì emanato anche i conseguenti atti di acquisizione (atti che sono sati a suo impugnati innanzi al TAR per la Campania, che ha respinto il ricorso con la sentenza n. 9487 del 2006).

Poiché vi è stata la reiterata violazione della legge da parte degli interessati e poiché il Comune ha emanato più volte provvedimenti divenuti inoppugnabili per il ripristino alla legalità, risulta palesemente infondata la censura degli appellanti, secondo cui sarebbe stato necessario il previo avviso del procedimento concernente le opere di completamento degli abusi in precedenza commessi.

Il secondo motivo di ricorso è a sua volta infondato.

Da un lato, le opere abusive per cui è causa, consistenti in buona sostanza in due piani ulteriori aggiunti ad un’abitazione, rientrano pacificamente fra le nuove costruzioni per cui il permesso di costruire è necessario ai sensi dell’art. 10 T.U. 6 giugno 2001, n. 380; risultano però realizzate senza titolo alcuno.

D’altra parte, i ricorrenti non allegano neppure elementi da cui si potrebbe desumere la loro regolarità, sì che non si comprende in cosa consisterebbero le carenze istruttorie attribuite al Comune nel perseguire l’abuso.

4. Il terzo motivo è a sua volta infondato.

Sotto il primo dei profili in esso considerati, la ricordata natura di atto vincolato dell’ordine di demolizione delle opere abusive fa sì che esso non necessita di speciale motivazione in ordine all’interesse pubblico sotteso, né alcuna comparazione con un ipotetico interesse del privato a conservare l’opera: così da ultimo fra le decisioni della Sezione la sentenza 24 ottobre 2016, n. 4447.

Sotto l’ulteriore profilo pure considerato, l’ordinanza di acquisizione delle opere le individua in modo esatto, con riferimento all’ubicazione dell’edificio al quale accedono e alla loro natura; in particolare, va chiarito che l’area di sedime di una sopraelevazione è, secondo logica, il solaio del piano sottostante, sul quale essa si appoggia, mentre nel caso concreto non è stata acquisita un’area di pertinenza ulteriore.

5. Infondato è anche il quarto motivo.

La norma citata, l’art. 23 della l.r. 16/2004, prevede al comma 5 che “Il PUC”, ovvero il piano urbanistico comunale “può subordinare l’attuazione degli interventi di recupero urbanistico ed edilizio degli insediamenti abusivi, perimetrati ai sensi del comma 3, alla redazione di appositi PUA” ovvero piani urbanistici attuativi “denominati piani di recupero degli insediamenti abusivi”. Si tratta di una previsione ampiamente discrezionale, che oltretutto si applica non a tutti gli immobili abusivi, ma soltanto, come risulta dal comma 6 dello stesso articolo, a quelli suscettibili di sanatoria ai sensi della l. 28 febbraio 1985, n. 47, e dell’art. 39 della successiva l. 23 dicembre 1994, n. 724, cd. leggi sul primo e secondo condono edilizio.

6. Ciò posto, i ricorrenti non spiegano in alcun modo come tale possibilità di sanatoria rileverebbe a loro favore, dato che si limitano all’affermazione, senza precisazioni ulteriori.

Non risulta infatti che alcuno di questi piani di recupero sia stato nella specie adottato o approvato e comunque, va aggiunto per completezza, dalle norme citate non si desume alcuna regola per cui, nelle more dell’adozione di un’eventuale piano del genere, i poteri sanzionatori del Comune dovrebbero essere sospesi o non esercitati.

7. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.

Non v’è luogo a pronuncia sulle spese, perché il Comune appellato non si è costituito nel corso del giudizio d’appello.

8. Va fatta applicazione dell’art. 26, comma 2, del codice del processo amministrativo, per il quale “Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio…..Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione”.

In ragione della palese infondatezza dell’appello (connessa alla palese legittimità dei provvedimenti emessi dal Comune di (omissis) per il ripristino della legalità), e dunque poiché gli appellanti hanno agito temerariamente in giudizio, il Collegio condanna d’ufficio gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento di euro 2.000.

Tale condanna rileva pure agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lett. a) e d) della l. 24 marzo 2001, n. 89, come da ultimo modificato dalla l. 28 dicembre 2015, n. 208.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 75/2013 R.G), lo respinge.

Nulla per spese.

Condanna gli appellanti, in solido tra loro, alla sanzione di cui all’art. 26, comma 2, del c.p.a., liquidata in € 2.000, incaricando la Segreteria degli adempimenti di competenza ex art. 15 disp. att. del c.p.a.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 23 febbraio 2017, con l’intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti – Presidente

Bernhard Lageder – Consigliere

Vincenzo Lopilato – Consigliere

Francesco Mele – Consigliere

Francesco Gambato Spisani – Consigliere, Estensore

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