Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione VI

sentenza 27 luglio 2015, n. 3667

Fatto

Il signor Alabiso riferisce di essere gestore di un deposito giudiziario di veicoli sottoposti a sequestro e/o fermo amministrativo e di aver proposto ricorso dinanzi al T.A.R. della Lombardia rubricato al n. 1187/2013 al fine di ottenere l’annullamento della nota dirigenziale in data 3 maggio 2013 con cui era stata respinta l’istanza di revoca delle precedenti ordinanze numm. 77 e 110 del 2011 finalizzate al ripristino dello stato dei luoghi in seguito alla realizzazione di alcuni interventi abusivi.
In particolare, con le ordinanze da ultimo richiamate il Comune di Seregno aveva ingiunto all’odierno appellante la demolizione di una serie di opere realizzate in assenza di titolo edilizio.
Con nota del 20 marzo 2013, il signor Alabiso aveva comunicato al Comune appellato la volontà di dare esecuzione alle citate ordinanze richiedendo – tuttavia – che, con riferimento all’intervento consistente nella pavimentazione dell’area, fosse applicata, in luogo della sanzione della rimessione in pristino, la sola sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 6, comma 7, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, trattandosi comunque di interventi realizzabili in regime di c.d. ‘edilizia libera’.
Il Comune di Seregno, con nota del 6 maggio 2013, rispondeva negativamente all’istanza evidenziando, fra l’altro, che l’intervento di pavimentazione suindicato ricadeva entro la fascia di rispetto cimiteriale di cui all’articolo 338 del Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (‘Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie’).
L’atto in questione veniva impugnato dal signor Alabiso dinanzi al T.A.R. della Lombardia il quale, con la sentenza in epigrafe, lo dichiarava inammissibile.
La sentenza in questione è stata impugnata in appello dal signor Alabiso il quale ne ha chiesto la riforma articolando i seguenti motivi.
Con il primo motivo (rubricato ‘Erroneità ed ingiustizia della sentenza appellata in punto [di] ritenuta inammissibilità del ricorso (ovvero ritenuta natura meramente confermativa del’atto impugnato)’) l’appellante lamenta che erroneamente la sentenza impugnata abbia dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo del giudizio. In particolare, la pronuncia de qua sarebbe meritevole di riforma per avere attribuito valenza meramente confermativa al provvedimento di demolizione impugnato e per aver riferito l’ordine di riduzione in pristino anche all’intervento di pavimentazione del terreno di proprietà dell’odierno appellante.
Al contrario, l’appellante esclude la natura meramente confermativa dell’atto impugnato e ne sostiene la valenza di provvedimento di diniego, emesso all’esito di una nuova istruttoria e/o di una nuova valutazione condotta dalla pubblica amministrazione. L’assunto troverebbe riscontro nella circostanza che lo stesso Comune abbia premesso, nel provvedimento di demolizione, di aver ritenuto necessario effettuare un approfondimento della tematica oggetto di istanza con il legale consulente dell’Amministrazione nel lasso di tempo trascorso dalla presentazione della domanda. In tale ottica, la pronuncia negativa emessa dalla P.A. sull’istanza del ricorrente si configurerebbe come nuova manifestazione di tipo provvedimentale, suscettibile di autonoma impugnazione.
Prosegue l’appellante lamentando che le ordinanze comunali n.77 e 110/2011 non avrebbero imposto anche la demolizione della pavimentazione ed esclude, inoltre, che la sentenza T.A.R. Lombardia n. 3020/2012 confermasse l’obbligo in capo al ricorrente di rimuovere anche le opere di pavimentazione (si richiama, in tal senso, l’espresso riferimento nella pronuncia de qua solo alla recinzione, alla pesa interrata e al prefabbricato).
Con il secondo motivo di appello il sig. Alabiso ripropone le censure di merito già articolate in primo grado e non esaminate dal T.A.R. per avere i primi Giudici ritenuto assorbente ai fini del decidere i rilevati profili di inammissibilità.
La lettera A fonda il gravame sull’asserita inesistenza di alcun contrasto tra le opere di pavimentazione e le previsioni del P.R.G. del Comune di Seregno. A tal proposito, l’appellante sostiene che alla data di presentazione dell’istanza e a quella di emissione dell’atto gravato di rigetto della stessa gli interventi di pavimentazione in questione non potessero ritenersi in contrasto con il P.R.G. comunale, essendo lo stesso divenuto inefficace ex lege (a partire dal 1° gennaio 2013 e fino al 06 giugno 2013 per effetto dell’articolo 4 della legge regionale lombarda 24 dicembre 2012, n. 21) ed essendo parimenti venuto meno l’utilizzo di fatto dell’area a deposito di materiale. Si assume, dunque, che, quanto meno nell’arco temporale suindicato, nell’area interessata, priva di una efficace destinazione di P.R.G., fossero consentiti tutti gli interventi per la cui realizzazione non è richiesto il previo rilascio di un qualsivoglia titolo abilitativo, fra i quali rientrerebbero le opere di mera pavimentazione.
Alla lettera B si deduce l’illegittimità del provvedimento oggetto di gravame laddove afferma che il Sig. Alabiso con l’intervento di pavimentazione abbia violato l’inderogabile obbligo, imposto dalla legge, di assicurare una distanza minima rispetto alla vicina zona di rispetto cimiteriale. L’appellante rileva che il divieto di cui all’articolo 338 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (‘Testo unico delle leggi sanitarie’) troverebbe applicazione nei confronti delle sole opere edilizie soggette al previo rilascio di un titolo abilitativo in senso proprio.
L’intervento di pavimentazione di un’area sottoposta a vincolo cimiteriale, invece, in forza della sostenuta assimilazione ad opera di mera manutenzione, sarebbe solo soggetto al rispetto delle eventuali prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali.
Con la lettera C si contesta l’atto gravato nella parte in cui l’amministrazione comunale ha anticipato l’acquisizione dell’area interessata per il caso di inottemperanza all’invito a rimuovere la pavimentazione.
Al riguardo l’appellante evidenzia in primo luogo che l’art. 338 T.U.L.S. non sanzionerebbe la mancata spontanea demolizione dei manufatti costruiti in violazione del vincolo cimiteriale ex lege con la confisca amministrativa.
In secondo luogo, l’appellante sostiene che l’amministrazione cui compete la vigilanza sull’osservanza del vincolo cimiteriale, di natura igienico-sanitaria, sarebbe l’A.S.L. e non il Comune; di tal che la paventata acquisizione dell’area in questione al patrimonio comunale configurerebbe un contrasto con l’art. 31, comma 6, D.P.R. n. 380/2001.
L’ultimo motivo di doglianza concerne la violazione dell’articolo 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, essendo stata l’istanza del Sig. Alabiso oggetto di diniego da parte dell’amministrazione comunale in assenza della previa comunicazione dei motivi ostativi.
Tale circostanza, pertanto, avrebbe impedito all’appellante la presentazione di eventuali osservazioni a sostegno delle proprie ragioni.
Si è costituito in giudizio il Comune di Seregno il quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.
Con ordinanza n. 3505/2014 (resa all’esito della Camera di consiglio del 1° agosto 2014) questo Consiglio ha sospeso in via cautelare gli effetti della sentenza in epigrafe.
Alla pubblica udienza del 28 aprile 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Diritto

1. Giunge alla decisione del collegio il ricorso in appello proposto dal gestore di un deposito giudiziario di veicoli nel comune di Seregno (MB) avverso la sentenza del T.A.R. della Lombardia con cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso da lui proposto avverso l’atto con cui il comune ha respinto la richiesta finalizzata ad evitare la demolizione della pavimentazione di un’area già interessata da un precedente ordine di demolizione di alcuni manufatti abusivi
2. Il primo motivo di ricorso (con il quale il sig. Alabiso chiede la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha rilevato il carattere meramente confermativo della nota comunale in data 3 maggio 2013 facendone derivare l’inammissibilità del ricorso) è meritevole di accoglimento nei termini che seguono.
2.1. Prima ancora di domandarsi se le ordinanze comunali numm. 77 e 110 del 2011 avessero riguardato anche la pavimentazione dell’area (si tratta di una questione che questa Sezione ha affrontato, nei limiti della delibazione cautelare, con l’ordinanza n. 3750/2013), è qui necessario domandarsi, in punto di ammissibilità del primo ricorso, se l’atto in data 3 maggio 2013 (pacificamente riferito alla questione della pavimentazione) fosse davvero meramente confermativo delle richiamate ordinanze, ovvero se ne costituisse conferma in senso proprio.
E’ infatti evidente che – in tale seconda ipotesi – il ricorso di primo grado, in quanto rivolto avverso un atto implicante una nuova e diversa valutazione della complessiva fattispecie, non potesse essere dichiarato inammissibile.
Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare il consolidato (e qui condiviso) orientamento secondo cui allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) ovvero di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l’amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, IV, 12 febbraio 2015, n. 758. In termini analoghi: Sez. V, 5 dicembre 2014, n. 6014; id., V, 18 ottobre 2014, n. 5006).
2.1.1. Ebbene, questo essendo il pertinente paradigma normativo, il Collegio ritiene che al richiamato atto comunale in data 3 maggio 2013 sia da riconoscere valenza di atto di conferma in senso proprio delle precedenti ordinanze del 2011 (se non addirittura di atto del tutto nuovo, per la parte in cui interessa anche la pavimentazione dell’area) in quanto: i) esso presuppone, expressis verbis, una complessiva rivalutazione dei presupposti in fatto e in diritto sottesi alla complessiva vicenda; ii) esso introduce argomenti giuridici (quali quelli basati sul contenuto della circolare regionale in data 16 gennaio 2013, nonché sulla stessa valenza del vincolo cimiteriale insistente sull’area) che risultavano estranei all’ordito motivazionale sotteso alle richiamate ordinanze numm. 77 e 110 del 2011.
Del resto, gli stessi primi Giudici erano consapevoli del fatto che l’atto comunale in data 3 maggio 2013 avesse aggiunto argomenti ulteriori e diversi rispetto a quelli sottesi alle più volte richiamate ordinanze ma (invece di farne discendere la corretta qualificazione di tale atto come di conferma in senso proprio) ne hanno dequotato la valenza ai fini del decidere limitandosi ad osservare che “tutte le altre argomentazioni contenute nell’atto (contrarietà dell’opera al PRG e violazione della fascia di rispetto cimiteriale) costituiscono ragioni aggiuntive ed ancillari che non sottraggono ad esso la natura di atto meramente confermativo” (ivi, punto 22 della motivazione).
2.2. Impostati in tal modo i termini della questione (e una volta chiarito che l’atto comunale impugnato in primo grado conferisse un nuovo e diverso assetto alla complessiva fattispecie, occupandosi segnatamente della questione della pavimentazione dell’area in uso al sig. Alabiso) diviene inessenziale ai fini del decidere stabilire se le originarie ordinanze del 2011 si occupassero o meno di tale questione.
2.3. Né può essere condiviso l’argomento del Comune di Seregno secondo il quale la mancata impugnativa del capo della sentenza che ha affermato il carattere ‘sostanzialmente unitario’ dell’abuso determinerebbe ex se l’inammissibilità dell’appello.
Anche in questo caso, infatti, la circostanza per cui l’atto in data 3 maggio 2013 conferisse un nuovo assetto alla complessiva vicenda, nonché la circostanza per cui tale atto sia stato puntualmente e autonomamente impugnato palesano che l’adito Giudice amministrativo sia stato investito in modo pieno e adeguato della cognitio relativa alla vicenda medesima.
2.4. Per ragioni connesse a quelle sin qui esposte (e ancora una volta connesse alla corretta qualificazione dell’atto impugnato in primo grado, cui non poteva essere riconosciuta valenza meramente confermativa) non può trovare accoglimento la tesi del Comune di Seregno secondo cui la stessa richiesta del sig. Alabiso volta ad ottenere il ritiro in autotutela delle ordinanze del 2011 renderebbe chiaro che lo stesso appellante fosse consapevole ab initio del fatto che tali ordinanze avessero ad oggetto anche la pavimentazione dell’area.
Ancora una volta, l’oggetto della controversia è definito e delimitato dal solo provvedimento del maggio 2013 (provvedimento che, al di là di ogni profilo qualificatorio di ordine formale, includeva certamente la pavimentazione), ragione per cui anche l’eccezione di inammissibilità in esame non può trovare accoglimento.
2.5. Concludendo sul punto deve ritenersi che – contrariamente a quanto ritenuto dai primi Giudici – l’atto impugnato in primo grado fosse passibile di autonoma impugnativa, ragione per cui il primo motivo di ricorso deve essere accolto.
3. Il ricorso di primo grado (e i relativi motivi, qui puntualmente riproposti ai sensi dell’articolo 101, comma 2 del cod. proc. amm.) deve, quindi, essere esaminato nel merito.
4. Come si è anticipato in narrativa, il provvedimento comunale impugnato dinanzi al T.A.R. era fondato essenzialmente su tre ordini di ragioni:
i) in primo luogo sul fatto che la rimozione della pavimentazione era stata già disposta con la sentenza dello stesso Tribunale amministrativo n. 3020/2012 (passata in giudicato in quanto non tempestivamente impugnata);
ii) in secondo luogo sul fatto che l’articolo 4 della legge regionale 24 dicembre 2012, n. 21, pur sancendo la perdita di efficacia delle pregresse previsioni di piano alla data del 31 dicembre 2012, non aveva sancito (contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante) l’assoggettamento dell’area per cui è causa al regime delle cc.dd. ‘aree bianche’ art. 9, d.P.R. 380 del 2001) e non aveva ammesso in modo indistinto consentito la realizzazione degli interventi di cui all’articolo 6 del medesimo decreto. Al contrario, la richiamata disposizione regionale si era limitata ad individuare un novero tassativo di interventi che era possibile realizzare sull’area in questione (e fra questi interventi non era ricompreso quello – che qui viene in rilievo – di pavimentazione del sedime);
iii) in terzo luogo, sul fatto che l’intervento in questione risultava radicalmente incompatibile con il vincolo cimiteriale insistente su parte dell’area (un vincolo operante ex lege e non derogabile dalla pianificazione urbanistica locale).
4.1. Ebbene, per quanto riguarda il motivo richiamato sub i), l’appellante ha correttamente obiettato che in nessun punto la sentenza n. 3020/2012 facesse menzione della questione della pavimentazione (al contrario, nell’individuare in modo puntuale i manufatti cui si riferiva l’ordine di rimozione, si limitava a richiamare in modo espresso la recinzione in lastre prefabbricate, la pesa interrata e il prefabbricato ad uso ufficio).
4.2. A diverse conclusioni deve invece pervenirsi per ciò che riguarda la ragione ostativa dinanzi richiamata sub ii).
Al riguardo deve essere condivisa la tesi del Comune di Seregno secondo cui il comma 1 dell’articolo 4 della legge regionale n. 21 del 2012 (disposizione ratione temporis applicabile), pur avendo ribadito la perdita di efficacia dei PP.RR.GG. vigenti nei Comuni che non si fossero dotati dei nuovi PP.GG.TT. entro il 31 dicembre 2012, non aveva ammesso l’incondizionata possibilità di realizzare interventi di carattere edilizio sulle aree in questione, assoggettando comunque tale possibilità a specifici limiti e condizioni.
In particolare, l’articolo 4, cit. aveva individuato in modo da ritenersi tassativo il novero degli interventi che era possibile realizzare nel territorio dei Comuni non ancora dotati dei nuovi strumenti di pianificazione (e nelle more della relativa adozione), ribadendo de facto – e per comprensibili ragioni di salvaguardia – l’ammissibilità in ciascuna area omogenea della medesima tipologia di interventi già in precedenza ammessi.
Ebbene, siccome il compendio immobiliare per cui è causa ricadeva in zona già destinata a standards d’uso pubblico ‘S/Sa – Massa boscata’ (con la finalità di svolgere una funzione ambientale e paesaggistica, risultando coperto da “fitta vegetazione”), è evidente che in nessun modo potesse risultare compatibile con le – comunque restrittive – disposizioni della legge regionale n. 21 del 2012 un intervento finalizzato a realizzare e mantenere in loco una pavimentazione inizialmente destinata a consentire il deposito di materiali ferrosi e, in seguito, resa funzionale all’esercizio dell’attività di custodia di veicoli sottoposti a sequestro e/o fermo.
Né può essere condiviso l’argomento dell’appellante secondo cui la realizzazione e il mantenimento in loco della pavimentazione in parola risultasse comunque ammessa in quanto ricadente fra gli interventi di c.d. ‘edilizia libera’ ai sensi dell’articolo 6, comma 2, lettera c) del d.P.R. 380 del 2001.
Al riguardo si osserva:
– che la possibilità di procedere ad interventi ricadenti nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’ non opera in modo incondizionato, ma resta pur sempre subordinata (in base al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380, cit.) al rispetto “[delle] prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque [al] rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)” (quali le disposizioni del richiamato articolo 4 delle legge regionale n. 21 del 2012);
– che (contrariamente a quanto affermato dall’appellante a pagina 15 dell’atto di appello) non rileva ai fini del decidere il ius superveniens di cui alla legge regionale n. 1 del 2013, atteso che l’infondatezza delle tesi dello stesso appellante può e deve essere dichiarata in applicazione della disposizione invocata dal medesimo appellante a sostegno delle proprie tesi (si tratta del più volte richiamato articolo 4 della legge regionale n. 12 del 2005, cit.);
– che (contrariamente a quanto affermato dall’appellante a pag. 16 del ricorso in appello) non può ritenersi che nel periodo compreso fra il 1° gennaio e il 6 giugno 2013 fossero incondizionatamente ammessi nei Comuni ancora privi di P.G.T. tutti gli interventi rientranti nella c.d. ‘edilizia libera’, semplicemente “fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali” (che nel caso di specie sarebbero divenute inoperanti in quanto ormai inefficaci). Ed infatti, nell’elaborare la tesi in questione l’appellante sembra non tener conto della complessiva previsione dell’articolo 6, comma 1 del d.P.R. 380, cit. (il quale richiama più in generale “[il] rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia”) e, in via mediata, del comma 1 dell’articolo 4 della legge regionale n. 21 del 2012 che – per le ragioni in precedenza esposte – risultava comunque ostativo alla realizzazione e al mantenimento dell’intervento contestato.
4.3. Le ragioni esposte dinanzi sub 4.2. risulterebbero già di per sé dirimenti ai fini della reiezione dell’appello.
Tanto, alla luce del consolidato – e qui condiviso – orientamento secondo cui laddove una sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, è sufficiente che una sola di esse resista al vaglio in sede giurisdizionale perché divengano inammissibili, per difetto di interesse, le censure relativa alle altre ragioni parimenti ostative (sul punto –ex multis -: Cons. Stato, IV, 5 febbraio 2013, n. 694).
4.3.1. Ebbene, fermo restando quanto appena osservato, si osserva comunque che il motivo dinanzi richiamato sub iii) (si tratta del motivo di diniego opposto dal Comune in relazione al vincolo cimiteriale insistente sull’area) non può comunque trovare accoglimento.
In punto di fatto si osserva che è pacifica l’esistenza su una parte del compendio per cui è causa di un vincolo cimiteriale ai sensi dell’articolo 338 del regio decreto n. 27 luglio 1034, n. 1265 (c.d. ‘Testo unico delle leggi sanitarie’).
Risulta in atti che le iniziative attivate dall’odierno appellante al fine di ottenere una nuova e diversa perimetrazione della richiamata fascia di rispetto sino al limite minimo dei 50 metri siano state respinte sia dal T.A.R. della Lombardia (sentenza n. 2035 del 2013), sia da questo Consiglio di Stato (sentenza n. 1317/2014).
Ai fini della presente decisione appare dirimente richiamare quanto già stabilito dalla Sezione con la sentenza da ultimo richiamata.
Si è in tale occasione ribadito che, per consolidata giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quarto comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un’area a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr. Cass., I, 23 giugno 2004, n. 11669; Cons. Stato, IV, 11 ottobre 2006, n. 6064; id., V, 29 marzo 2006, n. 1593; 3 maggio 2007, n. 1934 e 14 settembre 2010, n. 6671).
Pertanto, il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia di rispetto è in ogni caso soltanto quello finalizzato agli interventi di cui all’articolo 338, settimo comma, del citato Testo unico (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico – per i motivi anzidetti – la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.
Non può, quindi, essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui nelle aree sottoposte a vincolo cimiteriale sarebbero in ogni caso ammessi gli interventi di edilizia c.d. ‘libera’, ostandovi – anche in questo caso – la previsione di cui al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380 del 2001 il quale fa in ogni caso salve le preclusioni rinvenienti “[da] altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)”.
4.4. Anche per tali ragioni il ricorso in appello non può trovare accoglimento.
5. Ed ancora, non può trovare accoglimento il motivo con cui (riproponendo un analogo argomento già profuso in primo grado) il sig. Alabiso ha lamentato l’illegittimità del provvedimento comunale impugnato in primo grado per la parte in cui ha preconizzato l’acquisizione dell’area al patrimonio del Comune in caso di mancata ottemperanza all’ordine di rimozione della pavimentazione per asserita violazione dell’articolo 338 del ‘Testo unico delle leggi sanitarie’ del 1934, nonché per violazione dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001.
5.1. Al riguardo ci si limita ad osservare:
– che, ai sensi del comma 6 dell’articolo 31, cit., l’acquisizione coattiva è disposta in tutti i casi di “interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità” (si tratta di una previsione idonea a ricomprendere anche l’intervento per cui è causa, realizzato in violazione della disposizione di legge statale in tema di rispetto del c.d. ‘vincolo cimiteriale’;
– che non può essere condiviso l’argomento secondo cui il Comune non potrebbe comunque procedere all’eventuale acquisizione coattiva dell’area, non essendo identificabile quale “amministrazion[e] cui compete la vigilanza sull’osservanza del vincolo”. Al riguardo è appena il caso di richiamare i generali compiti di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che spettano ai Comuni ai sensi del comma 1 dell’articolo 27 del d.P.R. 380 del 2001, cit.
5.2. Naturalmente, stante la sospensione degli effetti della sentenza di primo grado già disposta con l’ordinanza della Sezione n. 3505/2014, il termine di novanta giorni di cui al comma 3 dell’articolo 31 del d.P.R. n. 380, cit. decorrerà dalla data in cui il signor Alabiso acquisirà legale conoscenza del contenuto della presente decisione.
6. Si osserva, infine, che non può trovare accoglimento il motivo di appello con cui si è nuovamente lamentata la violazione dell’articolo 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 per avere l’amministrazione comunale omesso di comunicare all’interessato il c.d. ‘preavviso di rigetto’ prima di adottare il provvedimento impugnato in primo grado.
6.1. Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato – e qui condiviso – orientamento secondo cui l’articolo 10-bis, cit. deve essere valutato dal Giudice avendo riguardo al successivo articolo 21-octies relativo alla non annullabilità degli atti per omessa comunicazione di avvio (cui è da assimilare, ai fini che qui rilevano, il mancato preavviso di rigetto) laddove l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto dispositivo dell’atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (sul punto –ex multis -: Cons. Stato, VI, 7 maggio 2015, n. 2298; id., V, 24 marzo 2014, n. 1388; id., V, 20 febbraio 2014, n. 824).
7. Per le ragioni sin qui esposte l’appello in epigrafe non può trovare accoglimento. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e conferma la sentenza di primo grado con diversa motivazione.
Condanna l’appellante alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 3.500 (tremilacinquecento), oltre gli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa

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