Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 22 aprile 2014, n. 2028. Con L. n. 264 del 1999 è stata data copertura legislativa al potere ministeriale di disporre accessi programmati a taluni corsi di laurea, senza che le procedure di ammissione previste entrino in conflitto con il diritto comunitario, non essendo imposto un obbligo di armonizzazione al riguardo dall’art. 165 TFUE (già art. 149 TCE) e dovendosi distinguere il riconoscimento accademico dal riconoscimento delle qualifiche professionali, di cui alla Direttiva n. 2005/36/CE, recepita con D. Lgs. 6 novembre 2007, n. 206, mentre in base al citato art. 165 TFUE l’Unione fissa come obiettivo meramente tendenziale quello di favorire la mobilità degli studenti ed il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio, oggetto di eventuali raccomandazioni e non di atti vincolanti da parte delle istituzioni comunitarie
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N. 02028/2014 REG.PROV.COLL.
N. 05848/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5848 del 2013, proposto da Università degli Studi “Federico II” di Napoli e dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in persona dei legali rappresentanti in carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato e presso la medesima domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
I. G., I. A., M. F. L.;
per la riforma della sentenza del t.a.r. campania – napoli, sezione iv, n. 00107/2013, resa tra le parti, concernente trasferimento fra università in ambito u.e.;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 marzo 2014 il Cons. Gabriella De Michele e udito per le parti appellanti l’avvocato dello Stato Fedeli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Fatto
Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, sez. IV, n. 107/13 del 3 gennaio 2013 (che non risulta notificata) è stato accolto il ricorso proposto dal signor Giuseppe I. avverso la nota n. 97152/12, con cui era stata respinta la domanda di proseguimento degli studi, da parte dello stesso, presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II; risultavano altresì oggetto di gravame il bando per il rilascio del nulla osta al trasferimento (d.r. 2575/2012), nonché il d.r. n. 3183/2012, di approvazione della graduatoria di merito ed i relativi verbali di approvazione, in aggiunta ai regolamenti dell’Università, della Facoltà di Medicina e Chirurgia e di ogni altro atto presupposto. Nella citata sentenza si sottolineava come il ricorrente avesse superato gli esami del primo e del secondo anno della facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università “Vasile Goldis” di Arad (Romania), con ulteriore avvenuto superamento dell’esame di ammissione presso la stessa facoltà presso l’Università Federico II di Napoli, benché non in posizione utile per essere ammesso ai corsi. Nella medesima sentenza veniva, quindi, ulteriormente rappresentato come la questione sottoposta a giudizio investisse la possibilità di ottenere il trasferimento tra atenei, anche di paesi esteri (in particolare dell’area comunitaria) in mancanza di disposizioni legislative al riguardo, ma nel rispetto dei principi comunitari di libertà di circolazione e soggiorno, applicabili nel settore dell’istruzione. L’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n.264 prescrive, d’altra parte, una prova selettiva di cultura generale, di cui è demandata al MIUR la definizione; il bando di concorso per il trasferimento (d.r. 2575/2012) prevedeva inoltre, all’art. 3, comma 1, che fossero ammessi a partecipare alla procedura selettiva (per titoli) coloro che avessero superato un regolare concorso presso altra Università italiana negli anni precedenti. Solo per gli iscritti presso Atenei, non facenti parte della Repubblica italiana, era prescritto che l’accesso ai posti resisi disponibili fosse consentito “solo ed esclusivamente superando i relativi concorsi di ammissione”, secondo le modalità, di cui al d.m. 4 dicembre 2012, n. 196, indipendentemente dal fatto che fosse stata sostenuta una prova di ingresso presso un’università di altro Paese comunitario.
In tale contesto, il giudice di primo grado rilevava un vuoto di normativa primaria, colmata dagli atenei con propri regolamenti, di cui sarebbe stata fatta erronea applicazione nel caso di specie. Avrebbe dovuto essere previamente consultata, infatti, la Commissione di valutazione della carriera pregressa, che ha il compito di valutare il percorso formativo già compiuto dallo studente, e di convalidare o meno i crediti conseguiti presso un diverso ateneo, al fine di pervenire ad un giudizio di piena o solo parziale equipollenza del percorso formativo già compiuto. Lo stesso giudice ha quindi ritenuto che – ove tale Commissione avesse ritenuto idoneo, per l’iscrizione ad anni successivi al primo, il percorso formativo dello studente – non potesse imporsi a quest’ultimo anche il superamento dei test di prima immatricolazione (peraltro, in via prodromica persino rispetto alle valutazioni della predetta Commissione).
In sede di appello (n. 5848/13, notificato il 3 luglio 2013), l’Università degli Studi di Napoli Federico II precisava, invece, come la libera circolazione delle persone non potesse risolversi in un trattamento privilegiato – e quindi illegittimo – degli studenti che avessero superato il test di ingresso in un altro Stato membro rispetto ad altri candidati, vincitori del concorso nazionale per l’ammissione ai corsi italiani di laurea in medicina, chirurgia e odontoiatria.
In tale ottica, venivano prospettate le seguenti argomentazioni difensive:
1) violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 1 e 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264 e dell’art. 3 del bando di concorso, indetto con d.r. 2575/12 del 18 luglio 2012, dovendosi ritenere che l’accesso alle università italiane implichi comunque il superamento delle prove al riguardo previste;
2) violazione o falsa applicazione degli articoli 18, n. 1, 21, n. 1 e 165, n. 2, TFUE, in quanto la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari non esclude una limitazione all’accesso agli anni di corso successivi al primo delle facoltà universitarie a numero chiuso, sotto forma di superamento di una prova selettiva nazionale, essendo rimessa alla legislazione esclusiva degli Stati membri la materia dell’ingresso agli studi universitari o scolastici.
Le parti appellate non si sono costituite in giudizio.
Diritto
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne una richiesta di trasferimento da Università non italiana – ma costituita in altro Paese membro dell’Unione Europea – ad altra Università operante in ambito nazionale: richiesta respinta, nella fattispecie, per mancato superamento delle prove di accesso, previste in Italia per l’iscrizione a facoltà universitarie, cosiddette “a numero chiuso”, come quelle di medicina o chirurgia, ovvero odontoiatria e protesi dentaria.
In giurisprudenza è dato registrare un orientamento favorevole espresso, in particolare, in pronunce di primo grado, come quella attualmente in esame, nella quale si recepisce un indirizzo favorevole all’iscrizione di studenti che abbiano già superato, in altri Paesi appartenenti all’Unione Europea, una o più annualità dei corsi di studio prescelti, previa valutazione di equipollenza del ciclo di studi effettuato e dei singoli esami sostenuti, in considerazione dei principi comunitari e delle disposizioni nazionali (art. 31 d.lgs. 9 novembre 2007, n. 206) che riconoscono, ai fini dell’esercizio delle professioni in ambito U.E., i titoli acquisiti all’estero, rendendo incongruo l’omesso riconoscimento di periodi di formazione presso i corrispondenti Atenei.
In altre pronunce di primo grado e in quelle di questa Sezione, viceversa, si sottolinea come con legge n. 264 del 1999 sia stata data copertura legislativa al potere ministeriale di disporre accessi programmati a taluni corsi di laurea, senza che le procedure di ammissione previste entrino in conflitto con il diritto comunitario, non essendo imposto un obbligo di armonizzazione al riguardo dall’art. 165 TFUE (già art. 149 TCE) e dovendosi distinguere il riconoscimento accademico dal riconoscimento delle qualifiche professionali, di cui alla direttiva 2005/36/CE, recepita con d.lgs. 6 novembre 2007, n. 206, mentre in base al citato art. 165 TFUE l’Unione fissa come obiettivo meramente tendenziale quello di favorire la mobilità degli studenti ed il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio, oggetto di eventuali raccomandazioni e non di atti vincolanti da parte delle istituzioni comunitarie. In tale contesto, gli atenei legittimamente possono escludere dall’ammissione a un qualsiasi anno di corso gli studenti di università estere, che non superino la prova selettiva di primo accesso, eludendo con corsi di studio avviati all’estero la normativa nazionale (Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 5015; 24 maggio 2013, n. 2866 e 10 aprile 2012, n. 2063).
Il Collegio, aderendo alla giurisprudenza della Sezione, ritiene sostanzialmente condivisibili le argomentazioni difensive contenute nell’atto di appello in esame, nei termini di seguito esposti.
La base normativa della regolamentazione di cui si discute è ravvisabile nell’art. 1, comma 1, della legge 2 agosto 1999, n. 264, che prevede per determinati corsi di studi universitari (fra cui, per quanto qui interessa, i corsi di laurea in medicina e chirurgia) una programmazione a livello nazionale degli “accessi”, senza distinzione fra il primo anno di corso e gli anni successivi.
La Corte costituzionale, con sentenza 27 novembre 1998, n. 383 ha chiarito come l’ammissione ai corsi universitari sia rimessa alla disciplina legislativa, che deve assicurare ai soggetti capaci e meritevoli il raggiungimento dei livelli più alti dell’istruzione, in quanto il diritto alla formazione culturale e la libertà delle scelte professionali sono mezzo essenziale di sviluppo della personalità, nei termini di cui agli articoli 2 e 4 della Costituzione, ma in conformità ai successivi articoli 33 e 34, che – nell’imporre i principi fondamentali sull’istruzione e l’organizzazione scolastica (di cui l’università, per l’attività di insegnamento, è parte: cfr. Corte cost., sentenza 29 dicembre 1972, n. 195) – non escludono che il percorso formativo possa essere condizionato anche dalle risorse umane e dalle strutture organizzative degli atenei, oltre che dal “fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo” (come previsto dall’art. 3, comma 1, lett. a) della stessa legge n. 264 del 1999, da riferire all’intero ambito comunitario: cfr. Cons. Stato, VI, 3 settembre 2013, n. 4396 e 29 aprile 2008, n. 1931).
E’ stata così ravvisata la legittimità del cosiddetto numero chiuso, ritenuto non incompatibile con le direttive sul reciproco riconoscimento – fra gli Stati appartenenti all’Unione Europea – dei titoli di studio rilasciati nei Paesi membri (direttive 7 settembre 2005, n. 36 e 5 aprile 1993, n. 93/16 CE), sulla base di standards di formazione tali da garantire l’effettivo possesso delle conoscenze necessarie per lo svolgimento della professione, rimettendo alla discrezionalità del legislatore, nei singoli Paesi, la determinazione degli strumenti, dei mezzi e delle modalità più opportuni per adempiere all’obbligo di risultato, imposto dai principi costituzionali e comunitari (Corte cost., n. 383 del 1998 cit.; Cons. Stato, VI, n. 1931 del 2008 cit.; II, 6 novembre 2012, par. n. 4616; Corte di Giustizia UE, 16 giugno 1992, n. 351).
Se, quindi, deve ammettersi che l’ingresso negli istituti universitari sia tema rimesso alle scelte di ciascuno Stato membro (cfr. anche, in tal senso, CGCE, Grande Sezione, 23 maggio 2007, causa C-11/07 Morgan), non può escludersi che venga considerato requisito, per l’iscrizione a qualsiasi anno di corso, il superamento del concorso nazionale di accesso alle facoltà di medicina e chirurgia, ovvero di odontoiatria e protesi dentaria, in quanto dal combinato disposto degli articoli 1 e 4 della ricordata legge n. 264 del 1999, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270 (recante la disciplina dell’autonomia didattica delle università), emerge l’obbligo di sostenere il test di accesso alle facoltà a numero chiuso, con conseguente legittimità dell’art. 3 del bando emesso nel caso di specie, che puntualizza tale obbligo.
Come in precedenza ricordato, infatti, l’art. 4, comma 1, della legge n. 264 del 1999, nel prevedere che «l’ ammissione ai corsi di cui agli articoli 1 e 2 è disposta dagli Atenei previo superamento di apposite prove», non distingue fra accesso al primo anno di corso e ammissione agli anni di corso successivi, di modo che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, le prove in questione erano presupposto necessario del nulla-osta, per il trasferimento presso la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università degli studi appellante.
Non può ritenersi sussistente in linea di principio, inoltre, una violazione di norme comunitarie (articoli 18, n. 1, 21, n. 1 e 165, n. 2 TFUE), in quanto la libera circolazione degli studenti può essere oggetto di semplici raccomandazioni – ed è comunque soggetta alla disciplina dei singoli Paesi, per quanto riguarda le modalità di ammissione ai corsi di studio – essendo vincolante, dal punto di vista europeo, la sola libertà di stabilimento dei singoli professionisti, in possesso di titolo accademico, all’interno dell’Unione.
L’ordinamento comunitario garantisce del resto, e a certe condizioni, il riconoscimento dei soli titoli di studio e professionali; ma non anche delle mere procedure di ammissione, né dispone la libera iscrizione a facoltà universitarie dopo l’iscrizione presso un’università di uno degli Stati membri (cfr. Cons. Stato, VI, n. 2866/2013 cit.). Lo stesso art. 165 TFUE (già art. 149 TCE) non prevede l’armonizzazione delle disposizioni nazionali, e solo demanda all’Unione di promuovere azioni di incentivazione e di esprimere raccomandazioni (cfr. anche Corte di Giustizia UE, sentenze Grzelczyk del 20 settembre 2001, Morgan del 23 maggio 2007 e D’Hoop dell’11 luglio 2002; cfr. Cons. Stato, VI, n. 5015 del 2013, cit.).
Entrambi i motivi di gravame, rappresentati dall’Amministrazione universitaria in rapporto alle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata, appaiono pertanto condivisibili, né altre originarie considerazioni del ricorrente in primo grado possono trovare spazio nella presente sede, in base al principio di cui all’art. 329, comma 2 , Cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo (tantum devolutum quantum appellatum: cfr. fra le tante, Cons. Stato, IV, 13 ottobre 2003, n. 6195 e V, 18 febbraio 2003, n. 856). Tale essendo il presente thema decidendum, il Collegio non è chiamato a pronunciarsi su altri ipotetici profili.
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello in esame debba trovare accoglimento, con gli effetti precisati in dispositivo; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, tenuto conto della già ricordata assenza, nella materia in esame, di indirizzi giurisprudenziali univoci.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in appello indicato in epigrafe e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in primo grado. Compensa le spese giudiziali. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2014 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore
Roberta Vigotti, Consigliere
Carlo Mosca, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/04/2014
IL SEGRETARIO (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 22 aprile 2014, n. 2028
N. 02028/2014 REG.PROV.COLL.
N. 05848/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5848 del 2013, proposto da Università degli Studi “Federico II” di Napoli e dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in persona dei legali rappresentanti in carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato e presso la medesima domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
I. G., I. A., M. F. L.;
per la riforma della sentenza del t.a.r. campania – napoli, sezione iv, n. 00107/2013, resa tra le parti, concernente trasferimento fra università in ambito u.e.;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 marzo 2014 il Cons. Gabriella De Michele e udito per le parti appellanti l’avvocato dello Stato Fedeli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Fatto
Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, sez. IV, n. 107/13 del 3 gennaio 2013 (che non risulta notificata) è stato accolto il ricorso proposto dal signor Giuseppe I. avverso la nota n. 97152/12, con cui era stata respinta la domanda di proseguimento degli studi, da parte dello stesso, presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II; risultavano altresì oggetto di gravame il bando per il rilascio del nulla osta al trasferimento (d.r. 2575/2012), nonché il d.r. n. 3183/2012, di approvazione della graduatoria di merito ed i relativi verbali di approvazione, in aggiunta ai regolamenti dell’Università, della Facoltà di Medicina e Chirurgia e di ogni altro atto presupposto. Nella citata sentenza si sottolineava come il ricorrente avesse superato gli esami del primo e del secondo anno della facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università “Vasile Goldis” di Arad (Romania), con ulteriore avvenuto superamento dell’esame di ammissione presso la stessa facoltà presso l’Università Federico II di Napoli, benché non in posizione utile per essere ammesso ai corsi. Nella medesima sentenza veniva, quindi, ulteriormente rappresentato come la questione sottoposta a giudizio investisse la possibilità di ottenere il trasferimento tra atenei, anche di paesi esteri (in particolare dell’area comunitaria) in mancanza di disposizioni legislative al riguardo, ma nel rispetto dei principi comunitari di libertà di circolazione e soggiorno, applicabili nel settore dell’istruzione. L’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n.264 prescrive, d’altra parte, una prova selettiva di cultura generale, di cui è demandata al MIUR la definizione; il bando di concorso per il trasferimento (d.r. 2575/2012) prevedeva inoltre, all’art. 3, comma 1, che fossero ammessi a partecipare alla procedura selettiva (per titoli) coloro che avessero superato un regolare concorso presso altra Università italiana negli anni precedenti. Solo per gli iscritti presso Atenei, non facenti parte della Repubblica italiana, era prescritto che l’accesso ai posti resisi disponibili fosse consentito “solo ed esclusivamente superando i relativi concorsi di ammissione”, secondo le modalità, di cui al d.m. 4 dicembre 2012, n. 196, indipendentemente dal fatto che fosse stata sostenuta una prova di ingresso presso un’università di altro Paese comunitario.
In tale contesto, il giudice di primo grado rilevava un vuoto di normativa primaria, colmata dagli atenei con propri regolamenti, di cui sarebbe stata fatta erronea applicazione nel caso di specie. Avrebbe dovuto essere previamente consultata, infatti, la Commissione di valutazione della carriera pregressa, che ha il compito di valutare il percorso formativo già compiuto dallo studente, e di convalidare o meno i crediti conseguiti presso un diverso ateneo, al fine di pervenire ad un giudizio di piena o solo parziale equipollenza del percorso formativo già compiuto. Lo stesso giudice ha quindi ritenuto che – ove tale Commissione avesse ritenuto idoneo, per l’iscrizione ad anni successivi al primo, il percorso formativo dello studente – non potesse imporsi a quest’ultimo anche il superamento dei test di prima immatricolazione (peraltro, in via prodromica persino rispetto alle valutazioni della predetta Commissione).
In sede di appello (n. 5848/13, notificato il 3 luglio 2013), l’Università degli Studi di Napoli Federico II precisava, invece, come la libera circolazione delle persone non potesse risolversi in un trattamento privilegiato – e quindi illegittimo – degli studenti che avessero superato il test di ingresso in un altro Stato membro rispetto ad altri candidati, vincitori del concorso nazionale per l’ammissione ai corsi italiani di laurea in medicina, chirurgia e odontoiatria.
In tale ottica, venivano prospettate le seguenti argomentazioni difensive:
1) violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 1 e 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264 e dell’art. 3 del bando di concorso, indetto con d.r. 2575/12 del 18 luglio 2012, dovendosi ritenere che l’accesso alle università italiane implichi comunque il superamento delle prove al riguardo previste;
2) violazione o falsa applicazione degli articoli 18, n. 1, 21, n. 1 e 165, n. 2, TFUE, in quanto la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari non esclude una limitazione all’accesso agli anni di corso successivi al primo delle facoltà universitarie a numero chiuso, sotto forma di superamento di una prova selettiva nazionale, essendo rimessa alla legislazione esclusiva degli Stati membri la materia dell’ingresso agli studi universitari o scolastici.
Le parti appellate non si sono costituite in giudizio.
Diritto
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne una richiesta di trasferimento da Università non italiana – ma costituita in altro Paese membro dell’Unione Europea – ad altra Università operante in ambito nazionale: richiesta respinta, nella fattispecie, per mancato superamento delle prove di accesso, previste in Italia per l’iscrizione a facoltà universitarie, cosiddette “a numero chiuso”, come quelle di medicina o chirurgia, ovvero odontoiatria e protesi dentaria.
In giurisprudenza è dato registrare un orientamento favorevole espresso, in particolare, in pronunce di primo grado, come quella attualmente in esame, nella quale si recepisce un indirizzo favorevole all’iscrizione di studenti che abbiano già superato, in altri Paesi appartenenti all’Unione Europea, una o più annualità dei corsi di studio prescelti, previa valutazione di equipollenza del ciclo di studi effettuato e dei singoli esami sostenuti, in considerazione dei principi comunitari e delle disposizioni nazionali (art. 31 d.lgs. 9 novembre 2007, n. 206) che riconoscono, ai fini dell’esercizio delle professioni in ambito U.E., i titoli acquisiti all’estero, rendendo incongruo l’omesso riconoscimento di periodi di formazione presso i corrispondenti Atenei.
In altre pronunce di primo grado e in quelle di questa Sezione, viceversa, si sottolinea come con legge n. 264 del 1999 sia stata data copertura legislativa al potere ministeriale di disporre accessi programmati a taluni corsi di laurea, senza che le procedure di ammissione previste entrino in conflitto con il diritto comunitario, non essendo imposto un obbligo di armonizzazione al riguardo dall’art. 165 TFUE (già art. 149 TCE) e dovendosi distinguere il riconoscimento accademico dal riconoscimento delle qualifiche professionali, di cui alla direttiva 2005/36/CE, recepita con d.lgs. 6 novembre 2007, n. 206, mentre in base al citato art. 165 TFUE l’Unione fissa come obiettivo meramente tendenziale quello di favorire la mobilità degli studenti ed il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio, oggetto di eventuali raccomandazioni e non di atti vincolanti da parte delle istituzioni comunitarie. In tale contesto, gli atenei legittimamente possono escludere dall’ammissione a un qualsiasi anno di corso gli studenti di università estere, che non superino la prova selettiva di primo accesso, eludendo con corsi di studio avviati all’estero la normativa nazionale (Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 5015; 24 maggio 2013, n. 2866 e 10 aprile 2012, n. 2063).
Il Collegio, aderendo alla giurisprudenza della Sezione, ritiene sostanzialmente condivisibili le argomentazioni difensive contenute nell’atto di appello in esame, nei termini di seguito esposti.
La base normativa della regolamentazione di cui si discute è ravvisabile nell’art. 1, comma 1, della legge 2 agosto 1999, n. 264, che prevede per determinati corsi di studi universitari (fra cui, per quanto qui interessa, i corsi di laurea in medicina e chirurgia) una programmazione a livello nazionale degli “accessi”, senza distinzione fra il primo anno di corso e gli anni successivi.
La Corte costituzionale, con sentenza 27 novembre 1998, n. 383 ha chiarito come l’ammissione ai corsi universitari sia rimessa alla disciplina legislativa, che deve assicurare ai soggetti capaci e meritevoli il raggiungimento dei livelli più alti dell’istruzione, in quanto il diritto alla formazione culturale e la libertà delle scelte professionali sono mezzo essenziale di sviluppo della personalità, nei termini di cui agli articoli 2 e 4 della Costituzione, ma in conformità ai successivi articoli 33 e 34, che – nell’imporre i principi fondamentali sull’istruzione e l’organizzazione scolastica (di cui l’università, per l’attività di insegnamento, è parte: cfr. Corte cost., sentenza 29 dicembre 1972, n. 195) – non escludono che il percorso formativo possa essere condizionato anche dalle risorse umane e dalle strutture organizzative degli atenei, oltre che dal “fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo” (come previsto dall’art. 3, comma 1, lett. a) della stessa legge n. 264 del 1999, da riferire all’intero ambito comunitario: cfr. Cons. Stato, VI, 3 settembre 2013, n. 4396 e 29 aprile 2008, n. 1931).
E’ stata così ravvisata la legittimità del cosiddetto numero chiuso, ritenuto non incompatibile con le direttive sul reciproco riconoscimento – fra gli Stati appartenenti all’Unione Europea – dei titoli di studio rilasciati nei Paesi membri (direttive 7 settembre 2005, n. 36 e 5 aprile 1993, n. 93/16 CE), sulla base di standards di formazione tali da garantire l’effettivo possesso delle conoscenze necessarie per lo svolgimento della professione, rimettendo alla discrezionalità del legislatore, nei singoli Paesi, la determinazione degli strumenti, dei mezzi e delle modalità più opportuni per adempiere all’obbligo di risultato, imposto dai principi costituzionali e comunitari (Corte cost., n. 383 del 1998 cit.; Cons. Stato, VI, n. 1931 del 2008 cit.; II, 6 novembre 2012, par. n. 4616; Corte di Giustizia UE, 16 giugno 1992, n. 351).
Se, quindi, deve ammettersi che l’ingresso negli istituti universitari sia tema rimesso alle scelte di ciascuno Stato membro (cfr. anche, in tal senso, CGCE, Grande Sezione, 23 maggio 2007, causa C-11/07 Morgan), non può escludersi che venga considerato requisito, per l’iscrizione a qualsiasi anno di corso, il superamento del concorso nazionale di accesso alle facoltà di medicina e chirurgia, ovvero di odontoiatria e protesi dentaria, in quanto dal combinato disposto degli articoli 1 e 4 della ricordata legge n. 264 del 1999, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270 (recante la disciplina dell’autonomia didattica delle università), emerge l’obbligo di sostenere il test di accesso alle facoltà a numero chiuso, con conseguente legittimità dell’art. 3 del bando emesso nel caso di specie, che puntualizza tale obbligo.
Come in precedenza ricordato, infatti, l’art. 4, comma 1, della legge n. 264 del 1999, nel prevedere che «l’ ammissione ai corsi di cui agli articoli 1 e 2 è disposta dagli Atenei previo superamento di apposite prove», non distingue fra accesso al primo anno di corso e ammissione agli anni di corso successivi, di modo che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, le prove in questione erano presupposto necessario del nulla-osta, per il trasferimento presso la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università degli studi appellante.
Non può ritenersi sussistente in linea di principio, inoltre, una violazione di norme comunitarie (articoli 18, n. 1, 21, n. 1 e 165, n. 2 TFUE), in quanto la libera circolazione degli studenti può essere oggetto di semplici raccomandazioni – ed è comunque soggetta alla disciplina dei singoli Paesi, per quanto riguarda le modalità di ammissione ai corsi di studio – essendo vincolante, dal punto di vista europeo, la sola libertà di stabilimento dei singoli professionisti, in possesso di titolo accademico, all’interno dell’Unione.
L’ordinamento comunitario garantisce del resto, e a certe condizioni, il riconoscimento dei soli titoli di studio e professionali; ma non anche delle mere procedure di ammissione, né dispone la libera iscrizione a facoltà universitarie dopo l’iscrizione presso un’università di uno degli Stati membri (cfr. Cons. Stato, VI, n. 2866/2013 cit.). Lo stesso art. 165 TFUE (già art. 149 TCE) non prevede l’armonizzazione delle disposizioni nazionali, e solo demanda all’Unione di promuovere azioni di incentivazione e di esprimere raccomandazioni (cfr. anche Corte di Giustizia UE, sentenze Grzelczyk del 20 settembre 2001, Morgan del 23 maggio 2007 e D’Hoop dell’11 luglio 2002; cfr. Cons. Stato, VI, n. 5015 del 2013, cit.).
Entrambi i motivi di gravame, rappresentati dall’Amministrazione universitaria in rapporto alle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata, appaiono pertanto condivisibili, né altre originarie considerazioni del ricorrente in primo grado possono trovare spazio nella presente sede, in base al principio di cui all’art. 329, comma 2 , Cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo (tantum devolutum quantum appellatum: cfr. fra le tante, Cons. Stato, IV, 13 ottobre 2003, n. 6195 e V, 18 febbraio 2003, n. 856). Tale essendo il presente thema decidendum, il Collegio non è chiamato a pronunciarsi su altri ipotetici profili.
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello in esame debba trovare accoglimento, con gli effetti precisati in dispositivo; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, tenuto conto della già ricordata assenza, nella materia in esame, di indirizzi giurisprudenziali univoci.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in appello indicato in epigrafe e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in primo grado.
Compensa le spese giudiziali.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2014 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore
Roberta Vigotti, Consigliere
Carlo Mosca, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/04/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)