La massima

1. Le nuove disposizioni, dettate con d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, disciplinano situazioni, non ampliative né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241. Le due fonti normative sono segnate da finalità e disciplina differenti, pur nella comune ispirazione al principio di trasparenza, che si vuole affermare con sempre maggiore ampiezza nell’ambito dell’amministrazione pubblica.

2. Con il d.lgs. n. 33/2013 il legislatore intende procedere al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una buona amministrazione, nonché per la realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino.

3. Con il d.lgs. n. 33/2013 – avente finalità dichiarate di contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione – si intende anche attuare la funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera r) della Costituzione, tramite pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti nei siti istituzionali delle medesime amministrazioni, con diritto di chiunque di accedervi direttamente ed immediatamente; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5 del citato d.lgs., il cosiddetto “accesso civico”, consistente in una richiesta – che non deve essere motivata – di effettuare tale adempimento, con possibilità, in caso di conclusiva inadempienza all’obbligo in questione, di ricorrere al giudice amministrativo, secondo le disposizioni contenute nel relativo codice sul processo.

4. Il tenore letterale e la ratio sottesa all’art. 24, co. 7, legge n. 241 del 1990, impongono un’attenta valutazione – da effettuare caso per caso – circa la stretta funzionalità dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango costituzionale rispetto al diritto di difesa. In tale ottica solo una lettura rigorosa, che escluda la prevalenza acritica di esigenze difensive anche genericamente enunciate, in effetti, appare idonea a sottrarre la medesima norma a dubbi di costituzionalità, per irragionevole sacrificio di interessi protetti di possibile rilevanza costituzionale e comunitaria.

5. Le disposizioni in materia di diritto di accesso mirano a coniugare la ratio dell’istituto, quale fattore di trasparenza e garanzia di imparzialità dell’Amministrazione – nei termini di cui all’art. 22 della citata legge n. 241/90 – con il bilanciamento da effettuare rispetto ad interessi contrapposti, inerenti non solo alla riservatezza di altri soggetti coinvolti, ma anche alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione, che appare da salvaguardare in presenza di richieste pretestuose e defatiganti, ovvero introduttive di forme atipiche di controllo.

6. E’ vero che, in via generale, le necessità difensive – riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione – sono ritenute prioritarie ed in tal senso il dettato normativo richiede che l’accesso sia garantito “comunque” a chi debba acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti (art. 20, comma 7, l. n. 241/90); la medesima norma tuttavia specifica con molta chiarezza come non bastino esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia “strettamente indispensabile” la conoscenza di documenti, contenenti “dati sensibili e giudiziari”.

CONSIGLIO DI STATO

SEZIONE VI

SENTENZA 20 novembre 2013, n. 5515 

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6186 del 2013, proposto dall’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore, rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Alessandra Bazzani e Diego Vaiano, con domicilio eletto presso il secondo in Roma, Lungotevere Marzio N. 3;

contro

Salvatore Laganà;

per la riforma della sentenza del t.a.r. lombardia – milano, sezione iv, n. 01904/2013, resa tra le parti, concernente diniego di accesso ai documenti sull’esclusione da un corso di dottorato di ricerca – mcp

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 settembre 2013 il Cons. Gabriella De Michele e udito per la parte appellante l’avv. Bazzani;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

Attraverso l’atto di appello in esame (n. 6186/13, notificato il 2.8.2013), l’Università Cattolica del sacro Cuore di Milano contesta la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sez. IV, n. 1904 del 18.7.2013 (che non risulta notificata), con la quale è stato in parte accolto il ricorso proposto dal dott. Salvatore Laganà, per l’accesso ai documenti richiesti alla citata Università con istanza del 14.2.2013, a norma degli articoli 22 e seguenti della legge n. 241/1990. In particolare il citato dott. Laganà – escluso con decreto rettorale n. 9362 in data 11.10.2011 dal corso di dottorato di ricerca in “Diritto commerciale interno e internazionale” e già ammesso all’accesso di numerosi documenti, oggetto di cinque istanze di accesso antecedenti a quella di cui si discute – chiedeva ulteriormente alla data sopra indicata l’ostensione “del decreto rettorale n. 9737 del 15.3.2012”, nonché di “tutti gli atti delle procedure di valutazione di tutti i dottorandi di ricerca, il cui relativo titolo di dottore di ricerca è stato o non è stato rilasciato dal Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore dal giorno 1 gennaio 2005 ad oggi”.

Con nota n. prot. DS/13/LC 277 del 5.13.2013 l’Amministrazione universitaria inviava copia del citato decreto rettorale n. 9737/2012, ma dichiarava inammissibile l’ulteriore richiesta, “in quanto…preordinata al controllo generalizzato dell’operato della scrivente”.

Con la sentenza appellata – respinta un’eccezione preliminare di tardività e dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Rettore e del direttore di sede come persone fisiche – le ragioni del ricorrente erano ritenute fondate, limitatamente alla documentazione riferita ai dottorati di ricerca nelle materie giuridiche, svoltisi a partire dall’anno 2009 (in coincidenza col decreto rettorale n. 6164/2009, approvativo del regolamento dei corsi di dottorato di cui trattasi).

Nella ricordata pronuncia si sottolineava come l’interesse perseguito riguardasse il rilascio del titolo di dottore di ricerca anche nei casi in cui – come avvenuto per il ricorrente – i Commissari non avessero espresso alcun voto, positivo o negativo, a sostegno della proposta di rilascio del titolo.

A tale riguardo, veniva segnalata “un’evoluzione sempre più a favore della trasparenza, pur con contemperamenti”, indirizzati a “proteggere il più possibile la divulgazione di dati personali”: quanto sopra, in attuazione delle norme nazionali e comunitarie che – al fine di combattere la corruzione – hanno imposto la più ampia divulgazione delle informazioni, relative ai procedimenti amministrativi, fino all’approvazione del d.lgs. 14.3.2013, n. 33, che riordina in un “corpus” unitario la disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni ed introduce il cosiddetto diritto di accesso civico, in caso di omessa pubblicazione di dati, di cui sia resa obbligatoria la divulgazione.

In considerazione, tuttavia, della “notevole mole di documentazione richiesta dall’interessato”, l’accesso era limitato al periodo successivo all’anno 2009 (e non 2005 come richiesto), tenuto conto della data di approvazione del regolamento dei corsi di dottorato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore; veniva respinta, invece, la domanda di risarcimento del danno in via equitativa, non essendo stato provato dall’interessato il fondamento del proprio diritto.

In sede di appello, la citata Università contesta l’applicabilità – nel procedimento speciale di cui agli articoli 22 e seguenti della legge n. 241/1990 – della successiva legislazione in materia di trasparenza, sia per la solo successiva emanazione del citato d.lgs. n. 33 del 14.3.2013, sia comunque per la sussistenza di piani separati di operatività e di rito degli istituti in questione.

Il dott. Laganà non si è costituito in giudizio.

Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello sia meritevole di accoglimento.

Al riguardo sembra opportuno sottolineare, in primo luogo, che le nuove disposizioni, dettate con d.lgs. 14.3.2013, n. 33 in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni disciplinano situazioni, non ampliative né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 7.8.1990, n. 241, come successivamente modificata ed integrata.

Col citato d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare “il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche”, quale integrazione del diritto “ad una buona amministrazione”, nonché per la “realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino”. Detta normativa – avente finalità dichiarate di contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione – intende anche attuare la funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera r) della Costituzione”: quanto sopra, tramite pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (specificati nei capi II, III, IV e V del medesimo d.lgs. e concernenti l’organizzazione, nonchè diversi specifici campi di attività delle predette amministrazioni) nei siti istituzionali delle medesime, con diritto di chiunque di accedere a tali siti “direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione”; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5 del citato d.lgs., il cosiddetto “accesso civico”, consistente in una richiesta – che non deve essere motivata – di effettuare tale adempimento, con possibilità, in caso di conclusiva inadempienza all’obbligo in questione, di ricorrere al giudice amministrativo, secondo le disposizioni contenute nel relativo codice sul processo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104).

L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 7.8.1990, n. 241 è riferito, invece, al “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia di documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati….tutti i soggetti….che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”; in funzione di tale interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata.

Benchè sommarie, le indicazioni sopra fornite appaiono sufficienti per evidenziare la diversificazione di finalità e di disciplina dell’accesso agli atti, rispetto al cosiddetto accesso civico, pur nella comune ispirazione al principio di trasparenza, che si vuole affermare con sempre maggiore ampiezza nell’ambito dell’amministrazione pubblica.

Per quanto riguarda la documentazione richiesta nel caso di specie – concernente “tutti gli atti delle procedure di valutazione di tutti i dottorandi di ricerca…il cui relativo titolo è stato o non è stato rilasciato dal giorno 1 gennaio 2005…” – deve ritenersi evidente che la procedura attivata sia da ricondurre in via esclusiva alla citata legge n. 241/1990, come del resto formalmente enunciato nell’istanza: una così ampia diffusione degli atti interni di qualsiasi procedura valutativa non appare imposta, infatti, dal ricordato d.lgs. n. 33/2013, né – se pure lo fosse – potrebbe intendersi riferita anche a procedure antecedenti all’emanazione del medesimo d.lgs., entrato in vigore il 20 aprile 2013.

Per esaminare l’istanza in questione, pertanto, deve farsi riferimento all’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1991, in base al quale “deve…essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”; nel caso di “documenti contenenti dati sensibili e giudiziari”, però, la medesima norma precisa che l’accesso è consentito solo “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile” (in esito ad un sostanziale bilanciamento di interessi, operato già a livello legislativo). Il tenore letterale e la ratio della disposizione legislativa in questione impongono un’attenta valutazione – da effettuare caso per caso – circa la stretta funzionalità dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango costituzionale rispetto al diritto di difesa. In tale ottica solo una lettura rigorosa, che escluda la prevalenza acritica di esigenze difensive anche genericamente enunciate, in effetti, appare idonea a sottrarre la medesima norma a dubbi di costituzionalità, per irragionevole sacrificio di interessi protetti di possibile rilevanza costituzionale e comunitaria (cfr. al riguardo, per il principio, Cons. St., Ad. Plen. 4.2.1997, n. 5; Cons. St., sez. VI, 24.3.1998, n. 498, 26.1.1999, n. 59, 20.4.2006, n. 2223; 27.10.2006, n. 6440, 13.12.2006, n. 7389; Cons. St., sez. V, 21.10.1998, n. 1529).

Se l’accesso ai documenti amministrativi, inoltre, costituisce “principio generale dell’attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, è anche vero che si richiede per l’accesso un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” e che “non sono ammissibili istanze di accesso, preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3, 1 lettera b e 24, comma 3 L. n. 241/90 cit.).

Il cospicuo numero delle istanze di accesso presentate dall’attuale appellante, prima dell’ultima ora in discussione, appare già, di per sé, non conforme alle finalità della normativa in esame, che consente di conoscere tutta la documentazione, che in base ad un apprezzamento preventivo di probabilità l’interessato può, ragionevolmente, ritenere utile per le proprie esigenze di accertamento di fatti che lo riguardano e delle relative, possibili ragioni difensive; può anche riconoscersi che, dalla conoscenza di alcuni atti, possa dimostratamente scaturire l’esigenza di ulteriori acquisizioni documentali; non può invece ritenersi giustificato un ricorso frazionato e protratto nel tempo del diritto di accesso, senza che risultino plausibili ragioni per una omessa acquisizione originaria di tutta la documentazione ritenuta utile e con sostanziale trasformazione dell’accesso in indagine sull’attività amministrativa, alla mera ricerca di nuovi elementi utilizzabili.

Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che le ragioni difensive dell’Università appellante siano nella fattispecie condivisibili. Come già in altre decisioni rilevato infatti (cfr. in particolare, per il principio, Cons. St., sez. VI, n. 1842 del 22.4.2008), le disposizioni in materia di diritto di accesso mirano a coniugare la ratio dell’istituto, quale fattore di trasparenza e garanzia di imparzialità dell’Amministrazione – nei termini di cui all’art. 22 della citata legge n. 241/90 – con il bilanciamento da effettuare rispetto ad interessi contrapposti, inerenti non solo alla riservatezza di altri soggetti coinvolti, ma anche alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione, che appare da salvaguardare in presenza di richieste pretestuose e defatiganti, ovvero introduttive di forme atipiche di controllo.

E’ vero che, in via generale, le necessità difensive – riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione – sono ritenute prioritarie ed in tal senso il dettato normativo richiede l’accesso sia garantito “comunque” a chi debba acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti (art. 20, comma 7, L. n. 241/90 Cit.); la medesima norma tuttavia – come successivamente modificata tra il 2001 e il 2005 (art. 22 L. n. 45/01, art. 176, c. 1, D.Lgs. n. 196/03 e art. 16 L. n. 15/05) – specifica con molta chiarezza come non bastino esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia “strettamente indispensabile” la conoscenza di documenti, contenenti “dati sensibili e giudiziari”.

Nella situazione in esame le esigenze difensive del dott. Laganà appaiono più che generiche, in quanto dalla documentazione in atti emerge un contrasto fra lo stesso e gli organi universitari circa l’avvenuta valutazione, o meno, della tesi presentata al termine dei corsi di dottorato di ricerca e l’obbligo, o meno, di rilasciare il titolo relativo, non richiedente “valutazione o punteggio”, o quanto meno non richiedendo motivazione il voto positivo. Fermo restando, quindi, che il Collegio non è chiamato a valutare le ragioni addotte dal medesimo dott. Laganà in ordine a quanto sopra, appare piuttosto evidente che dette ragioni siano riconducibili ad una specifica vicenda personale ed alla regolamentazione vigente per i corsi di dottorato di ricerca: regolamentazione che, per quanto qui interessa, risulta dettata con d.m. 30.4.1999, n. 224 e con decreto rettorale n. 6164 in data 8.7.2009, prescrittivo all’art. 11 di un “esame finale”, consistente nella “valutazione dei risultati scientifici conseguiti, del grado di approfondimento delle metodologie per la ricerca nei rispettivi settori e della formazione scientifica raggiunta dai candidati nel corso degli studi di dottorato”. Nello stesso regolamento è anche specificato come detta valutazione debba avvenire “sulla base della relazione del Collegio dei docenti sulla complessiva attività svolta dal candidato, della tesi finale scritta e della sua discussione”. Le modalità procedurali, attraverso cui l’Università può addivenire al rilascio del titolo di dottore di ricerca sono dunque, evidentemente, vincolate, mentre ampiamente discrezionale non può non essere il contenuto della valutazione di merito da esprimere. Non si vede, pertanto, come la comparazione con precedenti procedure potrebbe giovare alla difesa dell’attuale appellante, non risultando prospettabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento in rapporto ad atti vincolati e non essendo censurabili nel merito gli apprezzamenti discrezionali delle commissioni giudicatrici.

E’ vero che lo stesso citato d.m. n. 224/1999 assicura, all’art. 6, comma 10, “la pubblicità degli atti delle procedure di valutazione, ivi compresi i giudizi sui singoli candidati”, ma tale pubblicità non può che intendersi, ragionevolmente, prevista nel modo più ampio nell’ambito di ogni singolo corso di dottorato, con ulteriori possibilità di accesso per concrete esigenze che venissero manifestate anche in via successiva, ma in termini compatibili con la normativa vigente, non potendosi non ravvisare – in richieste non adeguatamente motivate e implicanti sia ricerche che produzioni documentali ponderose – proprio quella forma di atipico controllo sull’operato dell’amministrazione (e/o di organi tecnici alla stessa riconducibili) non consentita nel contesto normativo di riferimento.

Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere accolto, con le conseguenze precisate in dispositivo; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio ritiene di poterne evitare l’addebito alla parte appellata, non costituita in giudizio, tenuto conto delle peculiarità della vicenda controversa.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie l’appello e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in primo grado di giudizio avverso l’istanza di accesso del 12 febbraio 2013, per la parte non accolta dall’Amministrazione.

Spese giudiziali non addebitate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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